Fin dalle prime apparizioni sul mercato parigino,1 Gauguin si era dimostra-
to avvertito di quanto la fortuna di un artista venisse decretata dalla ricorrenza del suo nome nella stampa, quotidiana e specializzata, e dalla stretta solidarietà con un fronte di critici che ne costruissero con un supporto speculativo la specificità d’immagine, verificandola nella singolarità delle opere, risaltata oltre che nei modi del linguaggio, nel registro dei temi. La campagna di stampa che fra il febbraio e il marzo 1891 precede la sua partenza per Tahiti dimostra come egli fosse riuscito a polarizzare sul proprio lavoro l’attenzione degli esponenti di spicco della cultura simbolista, a iniziare da Stéphane Mallarmé, tramite della conoscenza con il romanziere e saggista Octave Mirbeau, che gli redi- ge un’ispirata prefazione per il catalogo delle opere allora vendute in un’asta all’Hôtel Drouot. Nello stile dell’autore, i modi dell’ekphrasis, della parafrasi lirica delle opere, sopravanzano le ragioni di una puntuale analisi formale, ma da questo momento l’accreditato Mirbeau diviene un sicuro punto di forza nello schieramento a favore di Gauguin, così come i suoi modi di lettura si fanno esemplari per altri giovani poeti, come Albert Aurier, Charles Morice, Julien Leclercq, allora agli esordi. Magnetizzati dal fascino dell’artista, da que- sto momento se ne fanno gli effettivi portaparola, in quello che sembra essere un reciproco scambio di sollecitazioni e riflessioni teoriche.
Soprattutto Aurier, già direttore del foglio “Le Moderniste”, cui Gauguin collabora nel 1889 con una serie di articoli sull’Esposizione Universale, riesce a conciliare i modi di una scrittura evocativa, che suscita visivamente i quadri gauguiniani nel loro tratto di ambigua enigmaticità, con una lucida lettura della loro novità linguistica. Il lungo saggio dedicato alle opere bretoni di Gau- guin nel marzo 1891 diventa in effetti, come dichiarato nello stesso titolo, il
1 Per la fortuna critica di Gauguin in vita vedi B. von Bismarck, Die Gauguin-Legende: die Rezeption von Paul Gauguin in der französischen Kunstkritik 1880-1903, Münster 1992.
Maria Grazia Messina, Paul Gauguin : un esotismo controverso. ISBN 97888-6453-110-6 (online), ISBN 88-8453-373-2 (print), © 2006 Firenze University Press
manifesto del simbolismo in pittura, e come tale ha un’immediata diffusione, chiarendo a tutto quel movimento di artisti, impegnati dalla metà degli anni Ottanta a distanziarsi dai modi puramente percettivi dell’impressionismo, gli autentici moventi e direttrici del proprio lavoro.2
Le fonti di Aurier sono nel Baudelaire della lirica Correspondances, dove i fenomeni naturali sono letti come segni di stati spirituali e negli scritti di Richard Wagner, mitizzanti l’atto creativo nella sua titanica individualità e nel suo slancio a catalizzare, in una sintesi compiuta, poesia, musica e arti visive. Inoltre, la rinnovata fortuna di Schopenhauer nella cultura simbolista induce Aurier a sottolineare la sostanza intellettualistica e la matrice neoplatonica della nuova arte, originata da stati soggettivi come dalla memoria. Ne consegue la definitiva acquisizione della natura convenzionale e astratta del linguaggio pit- torico, una scrittura autoreferente, il cui valore consiste nella coerenza interna del proprio sistema di segni, e non nell’immediato raccordo fra rappresentazio- ne e oggetto esteriore. Le categorie stabilite da Aurier per individuare la nuova pittura, ideista, simbolista, sintetica, soggettiva e decorativa, d’ora in poi costi- tuiscono un canone interpretativo non solo per l’arte di Gauguin, ma per tutta la ricerca degli artisti dell’avanguardia postimpressionista. Nei fatti, la cerchia dei simpatizzanti di Gauguin resta esigua, dato il facile gioco esercitato dalla critica più retriva nel mettere in ridicolo un lavoro ormai del tutto svincolato, nel sintetismo del disegno e nel simbolismo dei colori, da ogni consueta legit- timazione in un referente naturalistico.
Albert Aurier, Le symbolisme en peinture. Paul Gauguin, 1891 “Mercure de France”, II, 15, marzo 1891, pp. 155-165.
Lontano, molto lontano, su una collina immaginaria dove il sole appare di un colore vermiglione acceso, si svolge la lotta biblica di Giacobbe con l’An- gelo.
Mentre questi due giganti leggendari, che la distanza e l’allontanamento trasformano in pigmei, sono impegnati nel loro formidabile combattimento, alcune donne guardano, interessate e con un’espressione ingenua, senza aver l’aria di capire, forse, ciò che sta avvenendo sulla favolosa collina imporporata.
2 J.P. Bouillon, Descriptions de Gauguin 1888-1893, in La description de l’oeuvre d’art, du modèle classique aux variations contemporaines, a cura di O. Bonfait, Paris 2004, pp. 251-272,
muove dalle letture dei due quadri, La visione del sermone e Manaó Tupapaù, per una disamina approfondita dei modi della critica coeva a Gauguin.
Sono delle contadine. E dall’ampiezza delle loro cuffie bianche simili ad ali di gabbiano, dalle tipiche varietà di colore dei loro scialletti, dalla forma dei loro abiti e delle loro casacchine, si direbbero donne originarie della Bretagna. Han- no l’atteggiamento rispettoso, il viso sorpreso e gli occhi spalancati delle crea- ture semplici nell’atto di ascoltare straordinarie storie fantastiche raccontate da qualche bocca autorevole e riverita. Si direbbe che queste donne siano in una chiesa, tanto la loro attenzione è silenziosa, tanto il loro contegno è raccolto e devoto; sembrano essere in una chiesa dove tra le ali bianche delle loro cuffie aleggia un vago odore di incenso e di preghiera, mentre la voce rispettosa di un vecchio prete scende sulle loro teste... Sì, forse sono in una chiesa, in una di quelle chiese spoglie, caratteristiche dei piccoli borghi bretoni... Ma allora dove sono le colonne ammuffite e coperte di muschio? Dove sono i muri lattei con la piccolissima via crucis cromolitografica? Dov’è il pulpito in legno d’abete? Dov’è il vecchio curato che tiene il sermone con voce mormorante? Dov’è tut- to questo? E perché, là in fondo, lontano, molto lontano, sorge quella collina immaginaria con un sole rosso acceso?
Ah! È che le colonne ammuffite e coperte di muschio e i muri lattei e la pic- cola via crucis cromolitografica e il pulpito in legno d’abete e il vecchio curato che tiene il sermone sono stati, da alcuni minuti, annientati, non esistono più per gli occhi e per le anime delle buone contadine bretoni!... In quale accento meravigliosamente toccante, in quale luminosa ipotiposi, stranamente appro- priata alle rozze orecchie del suo zotico auditorio si è mai imbattuto questo Bossuet di paese che recita? Tutti gli aspetti materiali dell’ambiente si sono dis- sipati in nuvole di vapore, sono scomparsi; egli stesso, l’evocatore, ha cancellato la propria presenza, e ora la sua Voce, la sua povera vecchia e compassionevole Voce farfugliante, è divenuta visibile, imperiosamente visibile, ed è la sua Voce che queste contadine con le cuffie bianche contemplano con attenzione devota ed ingenua, ed è la sua Voce, questa visione fantastica agli occhi degli abitanti di un piccolo villaggio, sorta, là in fondo, lontano, lontanissimo, la sua Voce, quella collina favolosa sulla quale il sole splende color vermiglio, quel paese di sogno infantile, dove i due giganti biblici, trasformati in pigmei dalla distanza, combattono la loro formidabile battaglia!...
Davanti a questa meravigliosa tela di Paul Gauguin, che illumina veramen- te l’enigma del Poema; davanti alle ore paradisiache dell’umanità primitiva; davanti a questa tela che rivela il fascino ineffabile del Sogno, del Mistero e dei veli simbolici che le mani dei semplici sollevano solo a metà; davanti a questo quadro che risolve, per il buon lettore, l’eterno problema psicologico della plausibilità delle religioni, delle dottrine politiche e di quelle sociali; che mostra infine la feroce belva primordiale domata dai filtri incantatori della
Chimera; davanti a questa tela prodigiosa, non solo un banchiere adiposo e sentenzioso che si inorgoglisce di una galleria ingombra di Detaille (valore si- curo) e di Loustauneau (valore futuro), ma persino un dilettante, considerato intelligente e amico delle giovanili audacie al punto di accettare la ridicola visione dei puntinisti, esclamerebbe:
“Ah, no, per esempio!... Quella tela è troppo forte!... Delle cuffie e degli scialletti di Ploërmel, delle Bretoni e di questa fine secolo, in un quadro che si intitola: La visione dopo il sermone!... No, non sono un reazionario, ammetto l’impressionismo, arrivo ad ammettere anche solo l’impressionismo, ma...”.
“E chi le ha detto, mio caro signore, che si tratti di impressionismo?”. […] Allora, inventiamo un nuovo vocabolo che termini in -ista (ce ne sono già talmente tanti che questo passerà inosservato!) per i nuovi arrivati, alla testa dei quali cammina Gauguin: sintetisti, ideisti, simbolisti, come più ci piacerà, ma soprattutto dovremo rinunciare al termine generico e inappropriato af- fibbiato agli impressionisti, riservando questo titolo esclusivamente ai pittori per i quali l’arte non è che una traduzione delle sensazioni e delle impressioni dell’artista.
Oh! Come sono rari, in verità, tra coloro che si vantano di possedere una ‘predisposizione artistica’, come sono rari i fortunati che hanno un’anima le cui palpebre si sono schiuse e che possono esclamare, insieme a Swedenborg, geniale allucinato: “Questa stessa notte gli occhi dell’uomo che porto dentro di me sono stati aperti: è stata data loro la facoltà di guardare i cieli, il mondo delle idee e gli abissi dell’inferno!...”. Ma non è proprio questa la necessaria e preliminare iniziazione cui deve sottoporsi il vero artista, l’artista assoluto?...
Ai miei occhi, Paul Gauguin è uno di questi sublimi veggenti. Mi è sem- brato l’iniziatore di una nuova arte, non tanto nell’ambito generale della storia, quanto, per lo meno, nella nostra epoca. Analizziamo dunque quest’arte da un punto di vista estetico in senso lato. Sarà, così ritengo, come studiare l’artista stesso, e forse delineare qualcosa di meglio di una semplice monografia super- ficiale composta dal commento critico a una ventina di quadri e da quella de- cina di cliché cerimoniosi di cui solitamente si accontenta la Critica al giorno d’oggi. […]
Come ho già detto, lo scopo abituale e ultimo della pittura, e di tutte le arti del resto, non può essere la rappresentazione diretta degli oggetti. La sua finali- tà è di esprimere le idee, traducendole in un linguaggio speciale.
Agli occhi dell’artista, vale a dire agli occhi di colui che ha il compito di ‘esprimere gli esseri assoluti’, gli oggetti, esseri relativi, traduzione proporziona- ta alla relatività dei nostri intelletti degli esseri assoluti ed essenziali, le idee, gli oggetti non possono avere valore in quanto tali. Essi non possono che apparire
all’artista in qualità di ‘segni’. Sono le lettere di un immenso alfabeto che solo l’uomo di genio è in grado di compitare.
Scrivere il proprio pensiero, il proprio poema con questi segni, ricordandosi che il segno, per quanto indispensabile sia, non è nulla in se stesso e che solo l’idea è tutto: questo sembrerebbe essere dunque il compito dell’artista il cui occhio ha saputo discernere le ipostasi dagli oggetti tangibili. La prima conse- guenza di questo principio, troppo evidente perché sia necessario soffermarvi- si, è, lo si indovina subito, una necessaria ‘semplificazione del segno all’interno della scrittura’. Se così non fosse, il pittore non assomiglierebbe forse all’in- genuo letterato convinto di aggiungere qualcosa alla propria opera curando e ornando la propria calligrafia di futili ghirigori?
Ma, se è vero che, nel mondo, i soli esseri reali sono le idee, se è vero che gli oggetti non sono che le apparenze rivelatrici di tali idee e, di conseguenza, non hanno importanza se non come segni delle idee, non è meno vero che ai nostri occhi d’uomini, vale a dire agli occhi di orgogliose ‘ombre di esseri puri’, di ombre che vivono nell’incoscienza del loro stato illusorio e nell’amato inganno dello spettacolo di ciò che è fallacemente tangibile, non è meno vero che per i nostri occhi miopi gli oggetti, il più delle volte, ci appaiono come tali, come oggetti puri e semplici, indipendentemente dal loro significato simbolico, al punto che, talvolta, malgrado sforzi sinceri, non riusciamo a immaginarceli in qualità di segni.
Questa nefasta propensione a considerare, nella vita pratica, l’oggetto solo in quanto tale è evidente e, si potrebbe aggiungere, generalmente diffusa. Sol- tanto l’uomo superiore, illuminato da quella suprema virtù che gli alessandrini chiamarono in modo così esatto e appropriato estasi, sa persuadere se stesso di essere soltanto un segno gettato, da un misterioso corso preordinato, in mezzo a un’immensa foresta di altri segni; egli solo sa, domatore del mostro dell’illu- sione, passeggiare da padrone in quel tempio fantastico
ove pilastri viventi
lasciano sfuggire a tratti confuse parole
mentre l’idiota gregge umano, ingannato dalle apparenze che lo portano a negare le idee essenziali, passerà, eternamente cieco,
attraverso foreste di simboli
che l’osservano con sguardi familiari
L’opera d’arte non deve per nessun motivo, anche agli occhi del gregge umano, prestarsi a un simile equivoco. Il dilettante (che non è un artista e che, di conseguenza, non possiede affatto il senso delle corrispondenze simboliche), davanti all’opera d’arte si troverebbe in una situazione analoga a quella della folla davanti agli elementi della natura. Ne percepirebbe gli oggetti rappre-
sentati in quanto tali – ciò che appunto sarebbe auspicabile evitare. È dunque necessario che, nell’opera ideista, questa confusione non abbia a prodursi, è necessario essere messi nella condizione di non poter dubitare che gli oggetti, nel quadro, non hanno alcun valore in quanto tali, che sono solo ed esclusiva- mente un insieme di segni e di verbi che in sé non hanno importanza alcuna.
Di conseguenza, l’imitazione pittorica dovrà essere regolata da determinate leggi. L’artista, all’uopo, dovrà accuratamente impegnarsi a evitare questa anti- nomia, caratteristica di tutte le discipline artistiche: la verità concreta, l’illusio- nismo, il trompe-l’œil, in modo da non dare con il proprio quadro una fallace impressione di natura, la quale agirebbe sullo spettatore come la natura stessa, cioè senza alcuna suggestione possibile, ovvero (mi si perdoni questo barbaro neologismo) come un ideicidio.
È logico immaginarsi questa analisi dell’oggetto come non dettagliata, al fi- ne di proteggersi contro i pericoli della verità materiale. Ciascun dettaglio non è che un simbolo parziale inutile, la maggior parte delle volte, nell’economia globale del significato dell’oggetto. Il severo compito del pittore ideista è, di conseguenza, quello di effettuare una selezione ragionata tra i numerosi ele- menti che si combinano nell’oggettività, di non utilizzare nella propria opera che le linee, le forme e i colori generali e distintivi che servono a definire net- tamente il significato ideico dell’oggetto, oltre a qualche simbolo parziale che coaudiuvi il simbolo generale.
È inoltre facile dedurre che l’artista avrà sempre il diritto di esagerare quei caratteri direttamente apportatori di significato (forme, linee, colori, ecc.), di attenuarli, di deformarli, non solo seguendo la propria visione individuale e i moduli della propria soggettività (come avviene anche nell’arte realista), ma di esagerarli, attenuarli, deformarli seguendo le necessità poste dall’Idea che si vuole esprimere.
Dunque, per riassumere e concludere, l’opera d’arte, per come mi è piaciu- to definirla, sarà:
1. ‘Ideista’, poiché il suo unico ideale sarà l’espressione dell’Idea; 2. ‘Simbolista’, poiché esprimerà questa Idea attraverso delle forme;
3. ‘Sintetica’, poiché essa comunicherà queste forme e questi segni secondo una modalità di comprensione generale;
4. ‘Soggettiva’, poiché in essa l’oggetto non verrà mai considerato in quanto tale, ma in quanto segno dell’Idea percepito da un soggetto;
5. (è una conseguenza) ‘Decorativa’, perché la pittura decorativa propria- mente detta, come l’hanno intesa gli egiziani, molto probabilmente i greci e i Primitivi, altro non è che una manifestazione artistica contemporaneamente soggettiva, sintetica, simbolista e ideista.
Ora, a volerci ben riflettere, la pittura decorativa è, per esprimersi corretta- mente, la vera pittura. La pittura non può essere stata creata che per ‘decorare’ di pensieri, di sogni e di idee i banali muri degli edifici umani. Il quadro a cavalletto non è che un’illogica raffinatezza inventata per soddisfare la fantasia o lo spirito commerciale delle civiltà decadenti. Nelle società primitive, i primi tentativi pittorici non possono che essere stati decorativi.
Quest’arte, che abbiamo cercato di legittimare e di caratterizzare attraverso le deduzioni antecedenti, quest’arte all’apparenza complicata e che certi ‘esper- ti’ considererebbero volentieri come deliquescente, si trova dunque, in ultima analisi, ricondotta alla formula dell’arte semplice, spontanea e primordiale. Proprio qui risiede il criterio di correttezza dei ragionamenti estetici utilizzati. L’arte ideista, che occorreva giustificare attraverso argomentazioni complicate e astratte, tanto appare paradossale alle nostre civiltà decadenti e dimentiche di qualsiasi rivelazione iniziale, è dunque, senz’ombra di dubbio, l’arte vera e assoluta, poiché, legittima dal punto di vista teorico, essa è anche, in fondo, identica all’arte primitiva, all’arte per come essa fu intuita dal genio istintivo agli albori dell’umanità [....]
Così è l’arte che è confortante sognare, questa è l’arte che mi piace immagina- re, nel mio cammino forzato tra le pietose o turpi artisticherie che ingombrano le nostre mostre inquinate dall’industrializzazione. Questa è inoltre l’arte, così credo, a meno che non abbia mal interpretato il pensiero che sottende alla sua opera, che ha voluto instaurare nella nostra patria lamentabile e pietrificata un grande artista geniale dall’anima primitiva e un poco selvaggia: Paul Gauguin.
In questa sede non potrei né descrivere né analizzare la sua opera, già me- ravigliosa in sé. Mi basta aver cercato di caratterizzare e legittimare il lodevole concetto estetico che sembra guidare questo grande artista. Come è possibile infatti suggerire a parole tutto l’inesprimibile, l’oceano di idee che l’occhio chia- roveggente riesce a intravedere in queste magistrali tele: Il calvario, La visione dopo il sermone, Il Cristo giallo, in quei meravigliosi paesaggi della Bretagna e della Martinica, dove ogni linea, ogni forma, ogni colore è il verbo di un’Idea, in quel sublime Cristo nell’orto degli ulivi dove un Cristo dai capelli color incarna- to, seduto in un luogo desolato, sembra piangere gli ineffabili dolori del sogno, l’agonia delle chimere, il tradimento delle contingenze, la vanità del reale e della vita e, forse, dell’aldilà... Come esprimere la filosofia scolpita nel bassorilievo su cui ironicamente si legge: “Siate innamorate e sarete felici”, in cui tutta la lussuria, tutta la lotta della carne e del pensiero, tutto il dolore delle voluttà sen- suali si contorcono e, per così dire, digrignano i denti? Come evocare un’altra scultura in legno, Siate misteriose, che celebra le pure gioie dell’esoterismo, le inquietanti carezze dell’enigma, le fantastiche ombre delle foreste del problema?
Come narrare infine le bizzarre, barbare e selvagge ceramiche nelle quali Gau- guin, sublime vasaio, ha racchiuso e modellato più anima che argilla?...
E tuttavia, è bene riflettervi, per quanto inquietante, magistrale e mera- viglioso sia l’insieme della sua opera, non è che una minima parte rispetto a ciò che avrebbe potuto produrre Gauguin se fosse vissuto in un’altra civiltà. Gauguin, è necessario ripeterlo, come tutti i pittori ideisti, è, innanzitutto, un decoratore. Le sue composizioni si trovano alle strette nello spazio chiuso e limitato della tela. A volte si è quasi tentati di considerarle frammenti di affreschi immensi, sempre pronte come sono a polverizzare le cornici che le limitano indebitamente!... Ma come! In questo nostro secolo agonizzante non abbiamo che un grande decoratore, forse due, contando Puvis de Chavannes, e la nostra stupida società di banchieri e di allievi dell’Ecole Polytechnique di Parigi rifiuta di dare a questo raro e prezioso artista il più piccolo palazzo, la più infima catapecchia della nazione dove appendere il sontuoso mantello dei suoi sogni!
I muri dei nostri Pantheon di Beozia sono imbrattati dalle eiaculazioni dei Lenepveu e dei Tal dei Tali dell’Institut!...
Ah! Signori, come la posterità vi maledirà, si farà beffe di voi e vi sputerà addosso, se qualche giorno il senso dell’arte si risveglierà nello spirito dell’uma- nità!... Suvvia, un po’ di buon senso, avete tra voi un decoratore geniale: dei muri! dei muri! dategli dei muri!...
Charles Merki, Apologie pour la peinture, 1893