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L’esotismo alla prova del mercato

Nel documento Paul Gauguin, un esotismo controverso (pagine 138-143)

Se i soggiorni in Bretagna e a Tahiti fondano e avvalorano l’autonomia della ricerca di Gauguin, la temperie simbolista, per forza di cose, lo risucchia nei suoi ritorni a Parigi. Come già nell’inverno 1890-1891, così accade nell’au- tunno 1893, quando, reduce dall’Oceania – sbarca a Marsiglia il 30 agosto di quell’anno, del tutto privo di mezzi – riprende le sue frequentazioni di critici e letterati soprattutto intese a creare una rete di alleanze, nell’urgenza di pro- muovere il lavoro compiuto oltremare. Ancora una volta, nel quadro di un ritorno atteso e ambito da tanti mesi, ma che si preannuncia subito difficile, anche per il risalto conseguito sul mercato parigino da quelli che Gauguin intendeva come discepoli, il gruppo dei Nabis, le sue mosse sono ispirate da un’avveduta logica imprenditoriale. Forte di un consistente stock di quadri dove ha posto a frutto un repertorio tematico del tutto inedito, egli mira a una mostra in una galleria di punta, sostenuta da un adeguato lancio pubblicistico. Grazie alla mediazione di Degas28, si accorda con la galleria Durand-Ruel, ac-

collandosi tutte le spese di allestimento grazie al lascito ereditario di uno zio, provvidenzialmente ricevuto in quei mesi. L’esposizione, aperta a novembre, pur suscitando larga risonanza nella stampa, non sortisce affatto l’esito voluto: solo un quarto delle opere è venduto, sia per gli alti prezzi – Gauguin, come spiega alla moglie, aveva giocoforza dovuto attenersi alle quotazioni, fra i due- mila e i tremila franchi, stabilite da Durand-Ruel nelle precedenti antologiche di Monet e Renoir29 – sia soprattutto per lo scandalo suscitato dalle opere,

sostanziate di intenzionalità del tutto estranee alle aspettative dei visitatori, al massimo improntate da un gusto genericamente orientalista.

Gauguin era troppo avvertito per non avere previsto tale sconcerto di pub- blico e critica. In questo senso, appena tornato a Parigi, dalla fine di settembre si era accinto alla scrittura di un testo che servisse di ausilio a una corretta rece- zione. Ne scrive in una lettera alla moglie: “Preparo un libro su Tahiti che sarà molto utile per far capire la mia pittura. Quanto lavoro! Finalmente saprò se partire è stata una follia”.30 Già nel dicembre 1892, dopo aver spedito dei quadri 28 L’indubbia suggestione esercitata su Degas dalla cromia delle opere tahitiane di Gauguin è confermata, fra l’altro, dal suo olio Donna al bagno del 1895 (Toronto, Art Gallery of Onta- rio), dagli inusuali rialzi cromatici nelle ombre carminio o nello sfondo a striature di rosa viola e verde intenso.

29 Lettres de Gauguin…, cit., CXLV (a Mette, Parigi dicembre 1893).

30 Ibidem, CXLIII (a Mette, Parigi ottobre 1893). “Je prépare en outre un livre sur Tahiti et qui sera très utile pour faire comprendre ma peinture. Que de travail. Je vais enfin bientôt savoir si c’est une folie de partir pour Tahiti”.

a Copenhagen nell’aspettativa di una mostra, ne aveva spiegato a Mette i titoli tahitiani, i soli che dovessero comparire in catalogo. Rendendosi conto che “ questa lingua è strana e ha parecchi significati “ e che “ naturalmente mol- ti quadri saranno incomprensibili “, l’artista si era dilungato in una sorta di decostruzione, in termini di racconto, del dipinto più rilevante, Manaò tupa-

paú.31 Allineandosi a questa chiave narrativa, Noa Noa si configura alla stregua

di un memoriale, ben diverso da un diario appuntato nell’immediatezza degli eventi vissuti. Nella prima stesura, un sintetico manoscritto, pubblicato in facsimile solo nel 195432, il testo appare piuttosto costruito secondo un’artata

successione di episodi, tali da poter ciascuno illustrare un quadro, e il cui ca- novaccio ordinatore ha un forte referente nella letteratura di gusto esotizzante, nel caso specifico in un romanzo giovanile di Pierre Loti, Rarahu (Le mariage de Loti), pubblicato nel 1880. L’autore vi aveva rievocato un suo viaggio a Tahiti, il matrimonio con una giovanissima indigena, l’abbandono finale, tutti spunti quasi testualmente ripresi da Gauguin. Dato che, già prima della par- tenza per Tahiti, Gauguin aveva espresso delle generiche riserve sulla lettera- rietà della Polinesia di Loti33 – giudizio che diventerà molto più duro in Avant

et après, nel 1903 – il romanzo poteva fungere sia da scorciatoia, nell’urgenza dell’impresa, sia da antagonista cui opporre la testimonianza di un’esperienza autentica, dove l’autore avesse intrapreso il percorso del farsi egli stesso indige- no. Tutto Noa Noa è, difatti, il racconto di un’iniziazione, sostanziata dai brani sui miti e divinità dell’antica religione delle Isole, tratti dal precedente ma- noscritto Ancien culte Mahorie. Conscio della propria sbrigativa confezione, Gauguin coinvolge nella scrittura l’amico Charles Morice, per ampliarne la risonanza suggestiva con lo svolgimento lirico di alcuni spunti e con l’inserto di brevi poemi. Le ragioni di tale scelta verranno poi intese nel senso di intro- durre una sorta di drammatizzazione, spiegata anni dopo dall’artista a Daniel de Monfreid: “Avevo avuto l’idea, parlando dei non civilizzati, di far risaltare il loro carattere a fianco del nostro e avevo trovato assai originale il partito di scrivere io, semplicemente da selvaggio, affiancato dallo stile di un civilizzato, qual è Morice. Mi ero dunque prefigurato e prospettato la collaborazione in tal senso; inoltre, non essendo, come si dice, del mestiere, volevo quasi sco- prire chi di noi due valesse di più, se il selvaggio ingenuo e brutale o il marcio

31 Ibidem, CXXXIV (a Mette, Mataiea 8 dicembre 1892).

32Noa Noa, a cura di B. Sagot-Le-Garrec, Paris 1954; Noa Noa, Voyage to Tahiti, 1a ed. in facsimile a cura di J. Loize, Oxford 1961; Noa Noa, Tahiti de Gauguin, a cura di N. Wadley, London 1985, trad. con esteso apparato critico.

civilizzato”.34 Nella primavera del 1894, Gauguin copia di proprio pugno la

nuova stesura, lasciando bianche le pagine assegnate alle poesie di Morice che, nonostante i suoi solleciti, stentano ad arrivare. Non mirando più a un’edizio- ne immediata, visto l’insuccesso della propria offensiva sul mercato parigino, porterà infine con sé il manoscritto a Tahiti, dove verrà completato da un ap- parato illustrativo sulle pagine vuote, fatto di disegni acquerellati, spezzoni di xilografie colorate, monotipi, ritagli e fotografie, in parte ispirato dal quaderno di viaggio redatto da Delacroix in Nord Africa, acquistato dal Louvre nel 1891, e per l’appunto pubblicato col Journal fra il 1893 e il 1895.

A Parigi, Gauguin aveva invece pensato di corredare Noa Noa con una serie di dieci xilografie, concepite come introduzioni ai diversi capitoli del libro35,

probabilmente eseguite nei primi mesi del 1894, in un serrato periodo di la- voro seguito alla prima stesura del memoriale e alla chiusura della sfortunata personale alla galleria Durand-Ruel. La serie, poi esposta nel dicembre suc- cessivo nel bohémien atelier parigino dell’artista – fra serate musicali e lettu- re poetiche – appare approntata sull’onda di una reazione che, nel suo stile, rilancia eccentricità e isolamento per fondare ulteriormente un’immagine di esasperata alterità. Forzando la lettura che i simbolisti avevano offerto della sua opera, Gauguin riprende e traspone motivi dei quadri tahitiani, accentuandone l’enigmaticità degli assunti, i referenti mitici, come certi “selvaggi” dati icono- grafici, nelle ricorrenti figure di spiriti e divinità, e la crudezza dell’esecuzione. Quanto le pagine di Noa Noa e soprattutto i quadri vivono di una luce e di una policromia intensa – abbagliante, nelle parole dei recensori – tanto il contesto delle xilografie è calato in cupe atmosfere notturne, in composizioni dove i contorni in chiaro lasciano emergere le masse scure e indistinte delle figure al pari di presenze fantasmatiche o inquietanti. Soprattutto, ciò che nei quadri veniva soltanto suggerito come una sorta di romanzo del passato, come una leggendaria evocazione di un “altrove” spaziotemporale, qui acquista la consi- stenza e lo spessore di un denso e riflettuto discorso metaforico. Le divinità di Te Atua sono presentate in un’intenzionale sequenza trinitaria: il raffronto ne

34 Gauguin. Oviri…, cit., pp. 247-248 (a Monfreid, Atuona maggio 1902): “J’avais eu l’idée, parlant des non civilisés, de faire ressortir leur caractère à côté du nôtre, et j’avais trouvé assez original d’écrire (moi tout simplement en sauvage), et a côté le style d’un civilisé qui est Morice. J’avais donc imaginé et ordonné cette collaboration dans ce sens; puis aussi, n’étant pas comme on dit, du métier, savoir un peu lequel de nous deux valait le mieux: du sauvage naïf et brutal ou du civilisé pourri”.

35 R.S. Field, Gauguin’s Noa Noa Suite, in “Burlington Magazine”, CX, 786, settembre 1968, pp. 500-511 e E.H.J. Kornfeld e E. Morgan, Paul Gauguin: Catalogue Raisonné of his

sottolinea le differenti fonti iconografiche, dai motivi indù, ai precolombiani agli oceanici, a conferma della fede teosofica e sincretica della cultura simboli- sta – e della concomitante teoria diffusionista in antropologia – che attribuiva le diverse religioni al diramarsi di un solo mito originario. Il nudo di Manaò tupapaú è ora ripreso in una contratta posizione fetale, per rendere esplicito il contrasto fra vita e morte, qui fra nascita e morte, che aveva costituito, nel- le parole di Gauguin, l’aspetto letterario del quadro. In Te nave nave fenua, Eva rivolge gli occhi alla lucertola alata, che nel contesto tahitiano dell’opera sostituisce il serpente, mostrandosi quindi avvertita della tentazione, mentre nell’omonimo quadro lo sguardo, fingendo maggiore innocenza, era volto al- trove. In Te po (La notte), all’apparizione del Tupapaú dagli occhi sbarrati nel buio, si affianca un meditativo autoritratto dell’artista: entrambi vegliano su una ammantata figura supina, immobilizzata dalla paura invece che dal sonno. Maruru (Ringraziamento) conferisce forte risonanza a un tema già proposto in Parahi te marae (Tempio sacrificale) (W 483). Un tiki fattosi imponente mo- nolito e oggetto di culto – suggerito da riproduzioni delle statue dell’Isola di Pasqua come da una reminiscenza dei colossi egizi di Memnone – sta ormai non come rappresentazione di una divinità specifica, ma come figura tout-court dell’idolo, visualizzazione di un essere impenetrabile quanto gravido di valori archetipici, di esperienze e credenze stratificate nel tempo. In tutta la serie, l’ef- fetto di mistero è rafforzato da certa brutale sommarietà, propria della tecnica dell’incisione su legno, “cette matière à idoles”, come la definisce il letterato Remy de Gourmont nell’editoriale del primo numero dell’ottobre 1894 de “L’Ymagier”, rivista simbolista interamente dedicata alla grafica, dove, fra 1894 e 1895, vengono per l’appunto pubblicate alcune prove incisorie di Gauguin.

Il fatto che Gauguin si allontani ormai dalla mera illustrazione della teogonia e del pantheon della religione maori è confermato da Mahana no Atua (Giorno di Dio) (W 513), un quadro eseguito sempre nel 1894 e fortemente intriso del mito simbolista delle origini in senso lato, metaforico, e non descrittivo di una specifica realtà di cultura primitiva. Anche qui, il simulacro di Hina è trasposto in una sorta di meta-idolo che presiede al rigenerarsi del ciclo di nascita, esi- stenza, morte, in un paesaggio tutto cerebrale, frutto di pura astrazione, nella violenta e dissonante cromia come nella rigida partizione simmetrica. Il mag- gior tributo alla temperie simbolista e alla sostanza esoterica dei suoi discorsi, Gauguin lo paga con la scultura in ceramica Oviri (G 113) eseguita nel dicem- bre 1894 nell’atelier del ceramista Chaplet e presto seguita da una xilografia, che l’artista invia a Mallarmé, con la dedica “À Stéphan Mallarmé cette étrange figure cruelle enigme”. In effetti, la scultura, ripresa per tanti aspetti nel lavoro successivo dell’artista, fino a farsi protagonista del quadro Rave te hiti aamu

(L’idolo) (W 570) del 1898, ha costituito un altro passaggio obbligato nell’ese- gesi dell’opera di Gauguin, un altro banco di prova delle interpretazioni varia- mente intese a decifrarne fonti, moventi, discorsi lati e proiezioni personali.36 A

conferma del rilievo conferito alla scultura dalla cerchia degli amici simbolisti, Morice si fa promotore di una sottoscrizione pubblica per donarla al Musée du Luxembourg, certo di ottenere un rifiuto e di poter così conferire a Gauguin tutti i benefici di un succés de scandale. Ma l’opera era testimoniale soprattutto per l’autore, che, nel 1900, deluse le prospettive di un acquirente, la richiederà indietro in Oceania, per averla sulla propria tomba e che solo costretto dai rischi del trasporto per mare ne accetterà, infine, la vendita al collezionista Gu- stave Fayet. L’appassionato coinvolgimento dell’autore è del resto la chiave di lettura di Oviri, una sorta di ennesimo autoritratto inteso a stipulare la propria identità. Al pari della divisa personalità di Gauguin, la scultura è costituita da una somma di aspetti contraddittori: un corpo femminile pieno ma ripiegato, con le gambe che cedono come nella posa del Prigione michelangiolesco, su cui spicca una maschera di morte suggerita dai teschi mummificati con le orbite dilatate, superstiti effigi dei capitribù nelle Isole Marchesi. La polarità di mor- te-vita – Gauguin stesso chiama l’opera in una lettera del 1897 la Tueuse – è brutalmente rilanciata dal lupo disteso in basso in una pozza di sangue, allusa dalla rossa invetriatura della ceramica, e forse schiacciato dalla figura, mentre questa stringe al fianco, soffocandolo o proteggendolo, un cucciolo. La risolu- zione iconografica ha un evidente precedente in un’altra scultura in ceramica, la Donna o Venere nera (G 91) del 1889, dove una mulatta dal ventre pregno poggiava su una mozzata testa autoritratto dell’artista, in un’ambigua versione del tema della femme fatale, la cui oscura vitalità distrugge nel contempo che, fecondata, dà luogo a una nuova vita. Qui, il tema assume una valenza diversa, per la sorta di violenta e incolta naturalità che spira dalla figura nella brusca torsione della posa, nella prorompente e fluentissima capigliatura che ne co- stituisce per metà il volume, per la presenza dei lupi e per il titolo stesso che in maori implica lo stato selvaggio, alludendo a una primordiale divinità delle Isole, spirito dei boschi, posto a presiedere la morte e il lutto. La statua-idolo, che ormai in Gauguin funziona come cifra plastica di una più complessa realtà simbolica, è allora l’icona della propria identità selvaggia, prepotentemente af- fiorata e asserita nel contesto degli insuccessi e infortuni patiti in Francia. Nella

36 Vedi V. Jirat-Wasiutynski, Paul Gauguin’s Self-Portraits and the “Oviri”: The Image of the Artist, Eve and the Fatal Woman, in “Art Quarterly”, nuova serie, II, 2, primavera 1979,

pp. 172-190; The Art of Gauguin cit., n. 211; S. Taylor, Oviri, Gauguin’s Savage Woman, in “Kunsthistorik Tidskrift”, LXII, 3-4, 1993, pp. 198-220.

denudante e come esibita confessione del sé che Gauguin osa negli autoritratti, tale identità è qui resa nella sua forza insieme distruttiva e aggressiva – come scrive a Morice, Gauguin si riteneva affine al lupo37 – che dal proprio sacrificio

trae il seme di una rinascita e, per l’artista, di una sempre rigenerata creativi- tà. La fede nella rinascita attraverso la sofferenza è un tema che era venuto a Gauguin da van Gogh, e dalle letture di Carlyle e Balzac fino alla prospettiva teosofica dei Grands Initiés di Schuré: qui si spoglia di ogni “sentimentalismo”, come lo avrebbe definito l’artista, per irrompere fra gli archetipi dell’immagi- nario con inusitata, brutale, evidenza. In questo senso, l’opera è anche la spia dell’ormai maturata decisione di tornare a Tahiti. Nel febbraio successivo, il fallimento dell’asta all’Hôtel Druot -di quarantasette quadri ne sono vendu- ti solo nove, alcuni riacquistati dall’artista stesso- conferma che l’alterità di Gauguin è un dato di fatto, non una pittoresca, quanto strategica, definizione d’immagine.

Nel documento Paul Gauguin, un esotismo controverso (pagine 138-143)