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Iconografia delle origin

Nel documento Paul Gauguin, un esotismo controverso (pagine 94-111)

L’assunto primitivista si cala, forse in senso riduttivo, e di massima pragma- tico, in un sondaggio di fonti figurative estranee al percorso della tradizione artistica occidentale: dopo il ritorno dal primo viaggio del 1887 alla Martinica, che rivela a Gauguin l’imprescindibile urgenza di una propria ricerca in tal sen- so, il riferimento per tutto il 1888 è all’arte giapponese e ai suoi procedimenti di astrazione fondata sulla visione di memoria e sulla connessa sintesi bidi- mensionale, in una condivisione di strada con gli artisti del cosiddetto “Petit Boulevard”, Vincent van Gogh, Louis Anquetin, Emile Bernard. Nel corso del 1889, forse anche in risposta al disastroso soggiorno ad Arles presso van Go- gh, dell’autunno precedente, i parametri referenziali mutano, con uno scarto netto e un esito determinante per tutta la successiva pittura di Gauguin: viene introdotta nel quadro la citazione della statua/idolo, elemento che comporta l’irrigidimento in una sorta di arcaica icona dell’intero sistema rappresentati- vo e di cui il primo esempio è costituito dal ritratto La belle Angèle. A Parigi, fra il gennaio e l’aprile 1889, prima della partenza per Pont-Aven, Gauguin riprende l’attività di ceramista, già iniziata l’inverno precedente, a immediato ridosso del rientro dalla Martinica. Allora aveva lavorato con l’artigiano Ernest Chaplet, presentatogli da Félix Bracquemond, apprendendo le tecniche di mo- dellazione, di invetriatura a smalto, di cottura; la scelta primitivista comporta il recupero della dimensione di Homo faber, direttamente coinvolto nei processi di manipolazione e di trasmutazione della materia, in una tensione a investire la memoria tecnica di senso creativo e non ripetitivo.

Probabilmente, come sostiene Merete Bodelsen, principale studiosa della produzione in ceramica di Gauguin, l’artista aveva scoperto, proprio attraver- so questa esperienza, le possibilità offerte dall’arte giapponese, allora all’apo- geo della sua fortuna nella cerchia di artisti da lui frequentati a Montmartre, ai fini di una forzatura nel senso dell’astrazione dell’usuale linguaggio figurativo. La tecnica del cloisonné, o del contorno a silhouette, la sintesi compositiva, le armonie cromatiche, imposte dai procedimenti di cottura, sono tutte modali- tà così verificate nella produzione fittile prima che in quella pittorica.1 Un an-

no dopo, è nella ceramica che Gauguin sperimenta vie nuove nel riferimento a culture figurative lontane nel tempo oltre che nello spazio, e ora riprese in termini sempre più espliciti, o piegati agli esiti più radicali: nei vasi-autori- tratto della primavera 1889 (B 48 e B 53) compaiono nette citazioni dall’arte

1 M. Bodelsen, Gauguin’s Ceramics, London 1964, pp. 103 e 184-185. Sulla ceramica giap- ponese vedi P. Gauguin, Avant et après (1903), Paris 1923, pp. 49-54.

precolombiana, mentre nella statuetta/idolo a tutto tondo Donna o Venere nera (Femme o Venus noire) del maggio (B 49) ci sono suggestioni dalla scul- tura egizia nella stereometria della posa inginocchiata e rimandi alla tipologia estremo orientale del Buddha seduto su una base circolare con rilievi vegetali e zoomorfi. Gauguin sembra farsi avvertito che l’arte giapponese, nonostante la sua totale alterità linguistica, non è poi così probante sul piano di un pri- mitivismo che, al di là degli esiti formali, sia gravido di una forte tensione simbolica, tale da mediare in figure l’aspirazione alle origini, con tutte le sue valenze. Già in occasione dell’Esposizione Universale del 1878, il critico Lie- sville notava che la sala della Cina e del Giappone, per il carattere elaborato dei manufatti esposti, “conseguirà il curioso risultato di distruggere la prece- dente inclinazione ad attribuire una grande antichità agli oggetti provenienti dalla Cina e dal Giappone. Sembra ormai pacifico che la produzione di cera- miche di quest’ultimo paese è del tutto moderna”.2 All’Esposizione del 1889,

la sala del Giappone suscita reazioni ancora più recise: “si ha la sensazione di un genio nazionale che rinunci a se stesso e si suicidi”, per ubbidire ormai a un registro di pure formule, dove il riflesso della tradizione è offuscato dal virtuosismo del mestiere e dall’adozione di modelli occidentali; in sintesi “A giudicare dal punto dov’è ora, il Giappone si è messo al passo con l’Europa”.3

Il definitivo disagio della cultura simbolista di fronte all’apparato normativo come al contenuto “naturalista” dell’arte giapponese, sarà sancito nel 1890 dal critico George Lecomte, amico di Gauguin: nella rivista “Entretiens politiques et littéraires”, organo del movimento, dato che vi scrivevano i poeti Henri de Régnier, Paul Adam, Georges Vanor, egli rimprovera ai pittori giapponesi di non aver penetrato l’anima della natura, limitandosi a uno schematismo di superficie: “Hanno ignorato il simbolismo eloquente della pittura religiosa e filosofica”.4

Nel corso del 1889, anche Bernard che, nel biennio precedente, aveva condiviso assai più di Gauguin l’infatuazione giapponese di van Gogh, se ne

2 A.R. Liesville, Coup d’oeil général sur l’Exposition historique de l’art ancien (Palais du Tro- cadéro), Paris 1879, pp. 73-74: “L’exposition aura ce curieux résultat, de détruire la tendance

qu’on avait autrefois à attribuer une grande antiquité aux productions de la Chine et du Ja- pon. Il semble aussi établi, sous le rapport de la céramique, ce dernier pays est tout aussi moderne”.

3 Revue de l’Exposition Universelle, Paris 1889, t. II, pp. 150-151: “on a la sensation d’un génie national qui abdique et se suicide […] A l’heure qu’il est, le Japon s’est mis au pas de l’Europe”.

4 G. Lecomte, Japon, in “Entretiens politiques et littéraires”, I, 3, 1890, pp. 90-94: “Ils ignorèrent la symbolique éloquence de la peinture religieuse et philosophique”.

distacca per altri percorsi, indagati di massima nei musei, come scrive in una lettera allo stesso Gauguin, dove cita “i primitivi francesi da poco riportati in luce al Louvre e visti prima della mia partenza. Il Museo di Cluny e il Museo Etnografico”; quest’ultimo museo, allestito al Trocadéro nel 1882 e ricco di ma- teriali provenienti dalle nuove colonie dell’Africa e dell’Oceania, viene integrato nello stesso 1889 dall’apertura del Musée Guimet, destinato all’arte asiatica.5 La

scelta primitivista di Gauguin, orientata verso l’arte precolombiana, presenta comunque matrici più complesse dell’intellettualismo e delle aspirazioni misti- che, già da allora affioranti, con esiti riduttivi, nella pittura di Bernard. Nella sua biografia sul pittore, l’amico Charles Morice ricorda le tesi in materia di Gau- guin, oggetto nell’inverno 1890-1891 delle conversazioni con letterati e critici simbolisti frequentatori delle riunioni del sabato al Café Voltaire: “L’arte primi- tiva procede dallo spirito e pone al proprio servizio la natura. L’arte cosiddetta evoluta procede dalla sensualità ed è al servizio della natura. La natura è serva della prima e padrona della seconda. Ma la serva non può dimenticarsi della propria origine, essa avvilisce l’artista, divenendone un oggetto d’adorazione. Per questa strada, siamo precipitati nell’abominevole errore del naturalismo, fin dai Greci dell’età di Pericle […] La verità consiste nella pura arte cerebrale, nel- l’arte primitiva – nella più sapiente fra tutte – nell’Egitto. Là si trova il principio. Nella nostra attuale miseria, non c’è via di scampo se non nel ritorno meditato e franco al principio”.6 Nel dichiarare la priorità dell’arte egizia, Gauguin sem-

bra condividere, come già Charles Blanc, autore della fortunata Grammaire des Arts du Dessin del 1867, la teoria diffusionista elaborata dai filosofi positivisti in risposta all’estetica hegeliana, ma sfociante nelle stesse conclusioni. Il metodo di analisi comparata da questi introdotto nel dimostrare, a partire dall’Egitto, similarità con le culture della Grecia e dell’Etruria, e addirittura del Perù e del

5 Da una lettera di Bernard a Gauguin del 1889, cit. in H. Dorra, Emile Bernard et Paul Gauguin, in “Gazette des Beaux Arts”, 6a serie, XLV, 4, 1955, pp. 259-260: “les primitifs fran-

çais récemment mis au jour au Louvre et vus avant mon départ. Cluny et l’Ethnographique”. 6 Ch. Morice, Paul Gauguin, Paris 1920, pp. 26-27: “L’art primitif procède de l’esprit et emploie la nature. L’art soi disant raffiné procède de la sensualité et sert la nature. La nature est la servante du premier et la maîtresse du second. Mais la servante ne peut oublier son origine, elle avilit l’artiste en se laissant adorer par lui. C’est ainsi que nous sommes tombés dans l’abo- minable erreur du naturalisme. Le naturalisme commence avec les Grecs de Périclès. […] La vérité c’est l’art cérébral pur, c’est l’art primitif – le plus savant de tous – c’est l’Egypte. Là est le principe. Dans notre misère actuelle, il n’y a pas de salut possible que par le retour raisonné et franc au principe”. Vedi anche Jan Verkade, che conosce Gauguin a Parigi nel febbraio 1891: “Aussi revenait-il sans cesse aux origines de l’art chez les différents peuples, alors qu’une volonté juvénile et foncièrement honnête s’efforce à s’exprimer […] que c’est dans la limitation des moyens que l’artiste peut le mieux montrer sa force” (Le Tourment de Dieu, Paris 1926, p. 77).

Giappone, nella corrispondenza dei contenuti mitici, delle radici linguistiche, del repertorio iconografico, tradiva, infatti, una matrice neoplatonica, confluen- te nella tesi hegeliana – e prima in Symbolik und Mythologie der antiken Völker (1810) di Friedrich Creuzer, opera assai consultata in Francia – di un’originaria disposizione dello spirito, in ogni sua prima manifestazione, a esprimersi per via di metafora e a figurare per segni astratti. In questa chiave, lo stesso sto- ricismo romantico, col porre fine all’etnocentrismo, si fa il presupposto delle missioni scientifiche extraeuropee della seconda metà del secolo, in un coerente spostamento dagli studi storici a quelli etnografici. Analogamente, nella pratica artistica si trascorre, senza soluzione di continuità, dal revival degli stili storici al primitivismo, nell’indagare affinità elettive nello spazio oltre che nel tempo.

Il primitivismo di Gauguin, al di là di considerazioni filosofiche, resta sem- pre motivato da un’ostinata attestazione della propria originalità creativa: se, allo scadere degli anni ottanta, la grafica giapponese gli appare fin troppo ag- giornata e commercializzata, l’arte dell’antico Egitto e dell’area mediorientale è d’altra parte arte di corte, irrigidita in un linguaggio rituale, che tradisce una cultura complessa quanto raffinata e che lascia spazio a riprese solo ripetitive, all’iterazione di schemi formali. Di questa condizione “colta” sembra soffrire anche la produzione artistica dell’Asia sud-orientale, cui Gauguin guarderà pe- raltro costantemente, ispirandosi allo stesso prototipo, due riproduzioni, trova- te alla morte nella capanna di Hiva Oa alle Isole Marchesi, del fregio del tem- pio di Borobudur a Giava, probabilmente acquistate all’Esposizione Universale del 1889. Risultano invece necessarie a Gauguin fonti di un primitivismo più grezzo, testimonianze di civiltà irrimediabilmente perdute e per questo col- locate dalla mentalità dell’epoca a una distanza maggiore nel tempo: il riferi- mento condotto dall’artista nella prima metà del 1889 all’arte precolombiana, dalle ceramiche all’idolo citato nella Belle Angèle, sembra sostanziarsi di queste ragioni, al di là del fatto che l’arte peruviana gli fosse nota fin dall’infanzia, perché presente nelle collezioni di famiglia o del tutore Gustave Arosa. Grazie a queste esperienze, egli può distaccarsi dal più generico primitivismo della cultura postimpressionista, consistente in un esercizio di generica semplifica- zione, testimoniato, ad esempio, dai consigli impartiti da Camille Pissarro al figlio Lucien, studente a Londra, nel 1883: “Se ne hai l’occasione, guarda ai Persiani, ai Cinesi, ai Giapponesi, formati il gusto sugli esempi effettivamente degni di rilievo, è sempre alla fonte che occorre risalire: in pittura ai Primitivi, in scultura agli Egiziani, in miniatura ai Persiani”.7 Ancora una volta, la diver-

7 Correspondance de Camille Pissarro, a cura di J. Bailly-Herzberg, I (1865-1885), Paris 1980, 164 (a Lucien, Osny par Pontoise 25 luglio1883): “Si tu en trouves l’occasion, regarde

sa e particolare scelta di Gauguin conferma come la tipologia del “primitivo” dipenda da aspettative, proiezioni, comportamenti dell’uomo civilizzato e non da fatti obiettivamente constatati e registrati.

La conoscenza dell’arte dell’America Centrale e Meridionale si era appro- fondita nella seconda metà dell’Ottocento, grazie alla disponibilità di reperti, raccolti dalle missioni scientifiche, e all’adozione della metodologia comparati- va, che ne permetteva un’organica classificazione in manuali e cataloghi di larga diffusione, come l’Histoire de la Céramique di Edouard Garnier del 1882: allo stato degli studi testimoniato da questi repertori sfuggiva il carattere di corte dei manufatti delle civiltà Azteche, Maya, Inca, forse per le elementari condizioni di vita e l’arretrata tecnologia delle popolazioni. Fino alle Esposizioni Universali del 1878 e soprattutto del 1889 che presentarono a Parigi le culture tribali, l’arte precolombiana sembra assumere nell’immaginario del pubblico colto i caratteri rozzamente sommari e grotteschi poi riferiti, a seguito delle dette esposizioni, agli idoli e alle maschere dell’Africa Centrale e delle isole del Pacifico. Su que- sta valutazione aveva esercitato un’indubbia incidenza il riflesso gettato sull’arte mesoamericana dalla contemporanea accezione del termine “caraïbe”. Nel suo commento al Salon del 1846, Baudelaire aveva definito la scultura “un’arte ca- raibica”, per le sue origini che si spingono nella notte del tempo: il termine sem- bra sinonimo di primitivo in genere, se si pensa che la nozione del Selvaggio, o Diverso, perché non evoluto, si era presentata alla coscienza europea a partire dal XVI secolo, in relazione ai primi viaggi esplorativi alle Antille. L’uso esten- sivo del termine sarà confermato dallo stesso Gauguin quando, nel novembre 1889, intitolerà Donna caraibica (Femme caraïbe) un suo dipinto di nudo fem- minile (W 330), le cui movenze di danza rimandano sia ai citati fregi dei templi giavanesi che a bassorilievi Maya. Oltre che una radicale alterità rispetto alla sensibilità moderna, per la distanza storica, la connotazione “caraïbe” implicava in Baudelaire un giudizio negativo, nel suo essere riferita al rozzo linguaggio figurativo di maldestri intagliatori di feticci. In uno stesso contesto, Théophile Gautier, nel 1851, aveva parlato di una “stranezza caraibica del disegno e del colore” a proposito del Funerale a Ornans di Gustave Courbet, denunciandone per questa via la naïveté, che, nel raffronto con l’enfasi romantica, veniva di ne- cessità letta in termini di incolta schematicità della visione.8

les Persans, les Chinois, les Japonais, forme-toi le goût aux hommes vraiment forts, c’est tou- jours à la source qu’il faut aller: en peinture les primitifs, en sculpture les Egyptiens, en minia- ture les Persans”.

8 Riat, Gustave Courbet, Paris 1906, p. 88, cit. in M. Shapiro, Courbet and Popular Imagery, an Essay on Realism and Naïveté (1941), in Modern Art, 19th and 20th Centuries, London 1978.

All’Esposizione Universale del 1878, nella sezione etnografica allestita al- lo Champ de Mars dallo studioso Ernest-Théodore Hamy, America, Africa e Oceania dividevano la stessa sala, esemplificando come, per il curatore, l’arte precolombiana, pur appartenendo a uno stadio di maggiore definizione forma- le, tradisse lo stesso humus “barbarico” dei manufatti tribali: “Ci troviamo di fronte all’arte infantile e barbarica, ingenua e raccapricciante, ma che, attraver- so i suoi balbettii, trova, così come negli esempi del Messico e del Perù, delle espressioni già ben definite, corrette, quasi sapienti”.9 L’attributo di residua

barbarie manifestato dalla ceramica precolombiana nel suo repertorio icono- grafico, che modella l’argilla in imprevedibili associazioni zoomorfe, antropo- morfe o deliberatamente fantastiche, e in certa sommarietà dei procedimenti esecutivi, colpisce probabilmente Gauguin per il largo margine che consente alla ricreazione originale dell’artista, nel senso, poi reso esplicito in una lette- ra del 1889 di Paul Sérusier – scritta quando lavorava a stretto contatto con Gauguin a Le Pouldu – che la pittura, al pari della scultura, “diverrà tanto più personale quanto più si farà maldestra”.10

La conoscenza che Gauguin aveva dell’arte peruviana nel 1889 è ormai approfondita, dato che nei due vasi autoritratto citati i rimandi vanno a fonti precise, ceramiche delle culture Mochica e Chimu, ma è l’esperienza dell’Espo- sizione Universale che lo conferma in questo suo ordine di riferimenti. Sulla linea degli interessi perseguiti dall’inverno, Gauguin sembra molto attento alle sezioni etnografiche e archeologiche allestite entro l’“Exposition Rétros- pective du Travail et des Sciences Anthropologiques”, allestita al Palais des Art Décoratifs, dove l’arte precolombiana era largamente rappresentata. Un passo della monografia di Marcel Guérin lo conferma: Gauguin “è ben l’uomo cat- turato da tutte le arti primitive e molto stilizzate, che Sérusier ci ha raffigurato in ammirazione davanti ai calchi delle sculture azteche viste all’Esposizione del 1889 e di cui prendeva degli schizzi, degli effettivi disegni precubisti”.11 In 9 A.R. Liesville, op. cit., p. 82: “Nous sommes en face de l’art enfant et barbare, naïf et effroyable, mais, qui, à travers ses balbutiements, trouve, comme au Mexique et au Pérou, par exemple, des expressions déjà bien nettes, bien justes et presque savantes”. L’Esposizione presen- tava anche oggetti provenienti dalla Polinesia, poi esposti al Musée du Trocadéro: mazze dalle Isole Marchesi e una canoa maori, fittamente intagliate, e alcuni, piccoli, tiki o idoli tahiatiani. 10 P. Sérusier, ABC de la peinture, Correspondance (Paris 1923), Paris 1950, p. 45 (a M. De- nis, Le Pouldu 1889): “deviendra d’autant plus personnelle qu’elle sera maladroite”.

11 M. Guérin, L’oeuvre gravée de Gauguin, Paris 1927, t. I, p. XX: Gauguin “c’est bien l’homme épris de tous les arts primitifs et très stylisés, que M. Sérusier nous a dépeint en admi- ration devant les moulages de sculptures aztèques qu’il voyait à l’Exposition de 1889 et dont il prenait des croquis qui étaient des véritables dessins précubistes”.

effetti, a partire da questa data, tutta la sua opera nel biennio successivo, fino alla partenza per Tahiti nel 1891, appare memore nelle scelte formali dei “mou- lages aztèques”, dal taglio risentito dei contorni, alla sgraziata rigidità delle pose, alla consistenza stessa, immota e lapidea delle figure ritratte. Nel contesto dei reperti esposti, la ceramica assumeva particolare risalto; di conseguenza, la parte di maggior impegno del primo articolo a stampa di Gauguin, una serie di rifles- sioni sull’Esposizione, pubblicato su “Le Moderniste” diretto da Albert Aurier, è motivata da un confronto di intenti e di tecniche fra la lavorazione arcaica della ceramica e quella moderna, ai fini di recuperare la valenza spirituale e simbolica di cui quest’arte è dotata in virtù della sua antichità, attestata per Gauguin dai reperti precolombiani: “La ceramica non è una futilità. In tempi remoti, gli in- diani d’America hanno prestato a quest’arte un costante favore”.12

Ma troppe erano le sollecitazioni che si offrivano a Gauguin nel contesto complesso e animato dell’Esposizione, dove le diverse sezioni si succedevano come le attrazioni di uno spettacolo con il puntuale finale pirotecnico – qui rappresentato dai giochi di luci sulle fontane e sulla Tour Eiffel – e dove l’area di maggior richiamo, a concorde giudizio di critica e pubblico, era l’Esplanade des Invalides, sede dell’Esposizione Coloniale. Qui, attorno al Palais des Co- lonies, dall’architettura all’epoca definita orientaleggiante, ma meglio ricon- ducibile a un eclettico esotismo, gravitavano i padiglioni delle colonie dell’In- docina francese, la cui produzione artistica era presentata a Parigi per la prima volta e quello della Cambogia, sovrastato da una copia del tempio di Angkor, oggetto suggestivo di favolistiche letture; comparivano infine ricostruzioni di insediamenti tipici di Giava, delle colonie del Senegal, del Gabon, della Nuo- va Caledonia. I villaggi erano abitati da un manipolo di indigeni, intenti alle loro mansioni quotidiane e alle attività artigianali e che, per la testimonianza così esibita al vivo costituivano un’attrattiva maggiore della varia oggettistica esposta e catalogata, già nota per il commercio stabilitosi con le colonie, presto degenerato nella produzione di bibelots e banali contraffazioni.13 L’eterogenea 12 P. Gauguin, Notes sur l’art à l’Exposition Universelle, in “Le Moderniste illustré”, 11, 4 luglio 1889, pp. 84-86 e 12, 11 luglio 1889, pp. 90-91, poi in Paul Gauguin, Oviri, Écrits

d’un sauvage, a cura di D. Guérin, Paris 1974, pp. 47-52, qui p. 50: “La céramique n’est pas

une futilité. Aux époques les plus reculées, chez les Indiens de l’Amérique, on trouve cet art constamment en faveur”.

13 L. Rousselet, L’Exposition Universelle de 1889, Paris 1890, p. 92: “Pourtant, il faut le dire, nos grands magasins de France nous ont tellement habitués depuis quelques années à ces produits de l’art exotique, qu’ils ne nous surprennent plus comme jadis. Nous allons même jusqu’à suspecter leur provenance, comme nous suspectons à bon droit certains produits algé-

Nel documento Paul Gauguin, un esotismo controverso (pagine 94-111)