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L’Esposizione Universale del

Nel documento Paul Gauguin, un esotismo controverso (pagine 67-69)

L’Esposizione Universale, nel primo centenario della Rivoluzione francese, segna incontestabilmente il profilo culturale della Parigi del 1889: la sperso- nalizzazione dei manufatti in un enciclopedico campionario espositivo, dove prodotti e produttori sono assimilati a uguali elementi di spettacolo, decreta il trionfo dell’economia di mercato e dell’investimento nel bene di consumo. L’Esposizione è così funzionale allo sviluppo di una città il cui tessuto economi- co è sempre più debitore del terziario, per le attività imprenditoriali connesse alle banche, alle speculazioni immobiliari, alla grande distribuzione al detta- glio, alle estese strutture turistico-ricreative. Se si pensa che, in quest’offerta complessiva di servizi, il mercato degli oggetti d’arte, con tutto il suo indotto di connesse attività artigianali, assorbiva una quota rilevante di mano d’opera e di capitali, con migliaia di addetti fra operatori e commercianti, si comprende come gli artisti, anche i socialmente più schivi, o restii ai miti del progresso, o marginali rispetto alla domanda del pubblico, si trovassero, tuttavia, coinvolti nell’avvenimento e attratti, ciascuno a suo modo, dalle caleidoscopiche vetrine dell’Esposizione e dalle continue sfide e incentivi all’immaginario offerti dal- l’esibizione di culture diverse, distanziate sia nello spazio che nel tempo.1 Una

lettera di Camille Pissarro alla figlia Esther riassume, in un quadro caotico e rivelatore dell’incalzare degli stimoli ricevuti, i punti salienti della visita: “Biso- gna che tu veda la Tour Eiffel che fa girare la testa a tutti! Le fontane sprizzano, poi i quadri (all’Esposizione centennale dell’arte francese), il balletto delle giava- nesi, tutto una meraviglia e cosa ancora? I macchinari e l’orribile allestimento dei pastellisti francesi, il padiglione spaventoso del Perù, del Cile ecc. ecc., i superbi Annamiti, i tipi eterocliti che vengono dalla provincia, dall’estero, delle famiglie di peruviani…”.2

1 Sulla Parigi intorno al 1889 vedi R.L. Herbert, Impressionism: Art, Leisure and Parisian Society, Cambridge and London 1988.

2 Correspondance de Camille Pissarro, a cura di J. Bailly-Herzberg, vol. II (1886-1890), Paris 1986 (a Esther, Eragny 7 luglio 1889): “Il faut que tu voies la Tour Eiffel, qui fait tourner tou- tes les têtes! Les fontaines jaillissantes, les tableaux (Exposition Centennale de l’Art français), la danse des javanaises, une merveille, et quoi encore? Les machines et les horribles bâtiments des pastellistes français, le pavillon horrible du Perou, du Chili, etc. etc., les Annamites superbes, les types hétéroclites de province, d’étranger, des familles de Péruviens”.

Maria Grazia Messina, Paul Gauguin : un esotismo controverso. ISBN 97888-6453-110-6 (online), ISBN 88-8453-373-2 (print), © 2006 Firenze University Press

La Tour Eiffel, considerata all’unanimità contrassegno simbolico delle sorti magnifiche e progressive additate dall’Esposizione, induce Gauguin a riflessio- ni anticipatrici sulle possibilità ora aperte a “un art nouveau de décoration”, appropriata all’emergente figura professionale dell’ingegnere-architetto e che condurrà all’adozione di una sorta di “dentella gotica in ferro”.3 Georges Seurat

fa della torre ancora in costruzione l’oggetto di un proprio quadro, seguito a ruota dal doganiere Henri Rousseau che, nell’autoritratto esposto al Salon des Indépendents del 1890, la risolve per primo in icona del profilo urbano di Parigi.4 Se l’immaginario di Rousseau poteva essere stato recettivo alle sugge-

stioni destate dall’ambiente esotico in cui erano stati ricostruiti villaggi tipici delle colonie africane, dal Senegal al Gabon, Odilon Redon, a sua volta, in una lettera alla madre, isola, fra le tante, la visione delle fontane allineate sullo Champ de Mars, alle spalle della Tour Eiffel che, con l’illuminazione nottur- na, sfruttavano con esiti fantasmagorici il fenomeno della riflessione della luce nell’acqua: “Ci sono giochi d’acqua simili a fuochi d’artificio, fontane colorate dalla luce elettrica, dai colori cangianti, meravigliose come dei fiori di luce. Ogni sera centomila sguardi si volgono a questo inedito spettacolo, e poi ogni sorta di oggettistica esotica che fa viaggiare in spirito, ma superficialmente”.5

Fra gli innumerevoli spettacoli organizzati nell’ambito dell’Esposizione, quello che godeva del maggiore afflusso di pubblico e dell’unanime apprez- zamento della critica era la performance di musica e balletto tenuta giornal- mente nel villaggio giavanese: per gli artisti si trattava di esperire dal vivo delle cadenze gestuali, altrimenti familiari solo come tracciati grafici, godibili nello scorrere i fogli degli albums japonais. Questo spiega come il balletto fosse la meta preferita delle passeggiate di Berthe Morisot – come ricorda Pissarro – e di Gauguin, che ne parla nelle lettere all’amico Emile Bernard.

Di Gauguin, in particolare, restano due resoconti sull’Esposizione, scritti per “Le Moderniste illustré”, di cui era direttore il giovane critico Albert Aurier, presentatogli appunto da Bernard. I due articoli, specialmente il secondo, con

3 P. Gauguin, Notes sur l’art à l’Exposition Universelle, I, in “Le Moderniste illustré”, 11, 4 luglio 1889, p. 84, poi in Paul Gauguin, Oviri. Écrits d’un sauvage, a cura di D. Guérin, Paris 1974, p. 48.

4 L’Exposition aveva ispirato a Rousseau anche un vaudeville in tre atti, Une visite à l’Expo- sition, rifiutatogli dal teatro dello Châtelet.

5 Lettres de Odilon Redon, 1878-1916, a cura di A. Redon, Paris-Bruxelles 1923 (alla ma- dre, Parigi 12 giugno 1889): “Il y a des eaux d’artifices, fontaines colorées à l’électricité, aux couleurs changeant, merveilleuses comme des fleurs de lumière. Chaque soir centmille regards sur cette nouveauté là, et puis toutes sortes de choses exotiques qui font voyager l’esprit, su- perficiéllement”.

la lunga digressione relativa alla ceramica d’arte e a una sua possibile pratica in chiave attuale, in sintonia con le ricerche d’ordine sintetista condotte in pittura, sono stati finora consultati come il documento più probante della viva attenzio- ne prestata dall’artista all’avvenimento. Verosimilmente, egli visita a più riprese l’area espositiva dello Champ de Mars e dell’adiacente spianata de Les Invalides, fra il maggio e i primi di giugno 1889, in concomitanza con l’allestimento della “Exposition de Peintures du Groupe Impressionniste et Synthétiste” al Café des Arts, o Volpini, strategicamente situato in una galleria pedonale alla base del Palais des Beaux Arts, nel punto focale dell’Esposizione.6 Ma più che le

fonti scritte, articoli e lettere, sono proprio le opere di Gauguin, a partire dalla Belle Angèle del giugno 1889, che testimoniano quanto egli fosse permeabile alle sollecitazioni provenienti dalle diverse culture figurative presenti coi loro manu- fatti all’Esposizione. Una conferma ancora più puntuale e flagrante è offerta da due carnet di disegni, attribuiti al periodo 1888-1889, uno dell’Israel Museum di Gerusalemme, pubblicato da René Huyghe, l’altro, del Louvre, denominato

Album Walter.7 In essi, diversi fogli, solitamente ricondotti a visite dell’artista

ai musei del Louvre o del Luxembourg, sembrano piuttosto riferibili a opere ed eventi osservati all’Esposizione, tradotti in una rapida sintesi grafica, come appunti cifrati di una propria memoria visiva, attenti a cogliere filiazioni, tan- genze, eventuali tracce di ricerca, ancora oscure, ma gravide di possibilità.

Nel documento Paul Gauguin, un esotismo controverso (pagine 67-69)