Il sentimento della morte e l'angoscia della vita
3.2 L'angoscia, la depressione e l'analisi interiore in Il solitario
Nonostante l'importanza data alle opere teatrali, anche la produzione in prosa è una parte indispensabile per comprendere Ionesco, sia dal punto di vista letterario che emotivo. Aldilà degli scritti autobiografici, la narrativa è l'antecendente di molte pièce, quasi come se per l'autore la dimensione teatrale possa esistere soltanto dopo che una trama è stata verificata in prosa. È ciò che accade per Il rinoceronte che nasce dall'omonimo racconto, per Amedeo o Come sbarazzarsene il cui antecedente narrativo è l'Oriflamma e anche per Vittime del dovere che nasce dalla novella Una vittima del
dovere.
Il racconto vive nell'opera di Ionesco e ciò accade anche per il romanzo Il solitario dal quale avrà origine la pièce Che formidabile bordello!343:
Il solitario è un'opera in forma di racconto che preferisco a tante altre mie opere.
È un po' il caso che mi ha fatto scrivere più teatro che prosa. La mia ambizione era di essere prosatore, romanziere, più che autore drammatico. […].
Nel Solitario […], tratto, in modo più specifico che nelle mie pièce, dell'assurdità di un universo che io rifiuto e nel quale ho l'insolenza di chiedere a Dio che crei un altro mondo, un mondo comprensibile per gli uomini.
L'odio, i massacri, la distruzione e l'autodistruzione costituiscono l'apporto dell'uomo e di Satana.
Nel Solitario, Dio mi dà la speranza di tener conto della mia preghiera e mi invia segni o messaggi che mi riempiono di speranza.
Ma in realtà questa speranza è comunicata a tutti gli uomini ed è forse un privilegio che sia concesso a me registrarla344.
342 Ibidem.
343 Gabriella Bosco, Ionesco metafisico, cit., pp. 24-26.
Questa affermazione di Ionesco si pone a metà strada tra serietà e ironia. In realtà, come già detto, non è minima la produzione in prosa dell'autore345. Certo è che nessuna
opera narrativa, anche tra quelle precedentemente citate, raggiunge la profondità emotiva del Solitario, eguagliata soltanto dagli scritti autobiografici e diaristici.
Il piccolo romanzo viene pubblicato nel 1973 e, nonostante non sia una delle ultime opere dell'autore, sembra essere la summa di tutto ciò che lui ha scritto, pensato e provato durante la propria vita.
La trama del racconto è molto semplice: un impiegato di 35 anni riceve un'inaspettata eredità, decide di lasciare il lavoro e ritirarsi dalla vita attiva per arrivare ad uno stato di completo isolamento dal mondo, favorito anche dal consumo di alcol346.
L'allontanamento dal reale e la dimensione onirica in cui l'uomo vive sono ciò che rendono profondo e denso di significato questo racconto dalla trama così banale.
Il romanzo, narrato dal protagonista, inizia con il saluto che rivolge ai suoi ex- colleghi dal momento che, avendo ricevuto una cospicua eredità da parte di uno zio, ha deciso di abbandonare il lavoro impiegatizio. Da subito si delinea una personalità particolare: l'uomo, di cui non viene specificato il nome, tende a concentrarsi in maniera quasi ossessiva sui più piccoli particolari di ciò che ha davanti, le parole e i pensieri si affollano nella sua mente e spesso da questo affollamento cade in un vortice di idee così profondo da non riuscire ad uscirne se non per mezzo dell'alcol. Parlando del collega, ma soprattutto amico, Jacques Dupond, il discorso apparentemente normale su come spenda i pomeriggi domenicali, cambia improvvisamente tono, passando dalla descrizione di un normale fine settimana, ai sentimenti che il protagonista prova durante tutta la settimana lavorativa:
«Come ha passato la domenica?» mi chiedeva Jacques. «Si è divertito?» «Ho riso tanto da farmi venire il mal di pancia.»
Jacques era sposato. Si annoiava ad andare al cinema con sua moglie, avrebbe voluto andarci da solo o con un'altra. Io invece mi annoiavo ad andarci da solo. Ma una volta davanti allo schermo mi dimenticavo di me stesso. Mi sarebbe stato difficile raccontare la storia del fim o dei film che avevo visto. Stavo là a guardare le immagini che si muovevano, vedevo persone che si inseguivano, poi si picchiavano, poi si uccidevano a vicenda con molto rumore, a colpi di rivoltella. […].
Il lunedì è il giorno più faticoso della settimana, il più duro da sopportare. Il peso di tutta la settimana che avevo davanti, me lo portavo sulle spalle, come Atlante porta il mondo. […]. Il 345 Davide Astori, Ionescu prima di Ionesco, cit., p. 19.
venerdì sera ero, se posso dire così, felice. C'era ancora il sabato mattina, ma avevamo il sabato pomeriggio libero. Facevo un pranzo spensierato o opulento. Restavo sdraiato a letto tutto il pomeriggio, e il sabato sera l'angoscia cominciava perché restava soltanto la domenica a separarmi dal penoso lunedì. Se il lunedì era il giorno più pesante e pieno della settimana, la domenica era il più vuoto347.
Il luogo in cui il protagonista si rifugia distaccandosi dal reale, che raggiunge durante la proiezione del film al cinema, viene chiarito nel procedere della narrazione. Animo troppo sensibile, viene ben presto attanagliato dalla noia del non aver più uno scopo nella vita, quasi rimpiangendo quel lavoro che tanto detestava, ma che occupava le sue giornate. La diretta conseguenza di questa noia è l'isolamento nella propria mente e nel proprio animo, sensibile e profondo, che lo porta a seguire fili di pensiero che lo conducono alle domande che ogni uomo si pone durante la vita, ma su cui nessuno si sofferma davvero a riflettere, dal momento che, concentrandosi su queste, nessuno avrebbe più la capacità e la voglia di muoversi348:
Quando il sole smetteva di farlo brillare, a me tornava in mente che il cielo è un tetto. La terra è un globo all'interno di un altro globo che si trova con ogni probabilità all'interno di un altro globo che a sua volta è all'interno di un altro globo che...[...]. Tutte queste finitezze che però erano legato le une alle altre all'infinito, mi davano la nausea, il mal di testa. […]. Come fa tutta quella gente che passeggia nelle vie o rincorre l'autobus? Se tutti si mettessero a pensare a questo o piuttosto a immaginare quello che è inimmaginabile, nessuno si muoverebbe più. […]
Credo di essere al muro del mondo; dimenticare quel che c'è oltre il muro. Non mi risolvo a staccarmi dal muro. Forse è una malattia. Sono rimasto solo ai piedi del muro. Completamente solo, come uno stupido. Gli altri ne hanno fatta di strada, organizzano addirittura delle società, più o meno bene, è vero, e ci sono strani ingranaggi. Io però im limito a guardare il muro, e do le spalle al mondo. Sì, avevo già deciso di non pensare visto che non si può pensare. È curioso, gli altri credono che il mondo, l'universo, la creazione, credono che sia tutto naturale o normale, un dato di fatto. E i competenti sono loro, io sono lo zuccone, l'ignorante349.
Il protagonista si sente fuori posto. È conscio di aver svolto fino ad ora un ruolo pari alla massa di persone che si affollano nelle strade, tutte uguali, intercambiabili e senza scopo, considerate inferiori ai cani, perché quantomeno i cani, quando corrono, sanno la
347 Eugène Ionesco, Il solitario, cit., p. 24. 348 Ivi, p. 46-47.
loro direzione, il motivo della corsa e hanno un obbiettivo da raggiungere; sente di essere stato anche lui parte della “società ingiusta”350, del “sistema ingiusto”351. Sembra quindi
ritrarre, per molti aspetti del suo essere, i personaggi che popolano le opere ioneschiane: borghesi che non hanno un preciso scopo nella vita, che vivono esistenze vuote e monotone, ridotti ad essere ingranaggi di una catena di montaggio, spersonalizzati e intercambiabili con altri. Anche lui è stato l'uomo oggetto, l'uomo ridotto a merce, l'uomo senz'anima. Le persone si affollano nelle strade di Parigi, così come gli oggetti si affollano nelle opere di Ionesco. Soffocano la scena, non fanno respirare352.
Così il protagonista cerca di scappare dal reale, terrificante e monotono, rifugiandosi nella sua interiorità che è altrettanto terrificante e soffocante: viene colto dal pensiero dell'infinito, della creazione, dello scopo della vita di ogni uomo e non può far altro che rimanere fermo a contemplare quel muro che lo terrà sempre separato dalla verità del mondo e del reale.
Quando il protagonista percepisce il male di vivere tanto intensamente da non poterlo sopportare, l'unica via che gli rimane per evadere da quello stato è rifugiarsi nell'altrove: concentrarsi talmente tanto sugli oggetti che lo circondano da non sapere più che cosa siano e a cosa servano, cadere in un limbo in cui tutte le sensazioni sono ovattate e grazie al quale può riprendere a respirare:
Si trattava di guardare una cosa fino al momento in cui non sapevo più che cosa era. Non doveva più essere una macchia di vino, doveva diventare un “non so che cosa” su quell'altra cosa, la tovaglia, che non era più la tovaglia, né spazio bianco, né il posto di una macchia. […]. All'inizio, quando avevo cominciato questo tipo di esperienza verso i quindici, diciassette anni, l'altrove arrivava più in fretta. Molto spesso c'era una specie di alone luminoso. E quando l'altrove se ne andava, conservavo a lungo, per giorni interi, il ricordo di un mondo della luce. […]. Ne conservavo il ricordo felice per vari giorni, forse per intere settimane353.
Se da un lato il protagonista rappresenta, nella vita da lui condotta (istruzione mediocre nonostante gli sforzi della madre affinché eccellesse, lavoro impiegatizio monotono, ecc.) lo stereotipo di uomo che Ionesco considera la rovina della società, dall'altra parte, dietro all'apparenza, rivela una profondità d'animo tale da rispecchiare
350 Ivi, p. 26. 351 Ibidem.
352 Philip Sénart, Eugène Ionesco, cit., pp. 88-89. 353 Eugène Ionesco, Il solitario, cit., pp. 54-55.
addirittura quella che Ionesco mostra di avere nei suoi scritti autobiografici.
In Briciole di diario si trova la prima traccia dell'immagine del muro che lo trattiere fuori dallo scoprire la verità dell'esistenza umana. Quel muro rappresenta la volontà di non arrendersi alla finitezza e alla normalità, ma di indagare a fondo la realtà e sparirà soltanto quando l'autore lo accetterà, o ribellandosi, riuscirà a farlo crollare354. Questo
sogno ricorrente, nel romanzo diventerà un'ossessione vera e propria che attira l'uomo nel proprio isolamento355.
Anche Ionesco, come il protagonista, da adolescente ha avuto esperienza di una gioia vera e pura, un contatto con ciò che sta aldilà del muro e che sembra invalicabile:
Una volta, quando ero adolescente, e anche più tardi, lo stupore faceva nascere l'euforia. Tento, ancora una volta, di descrivere questo stato d'animo, quest'evento. Mi trovavo in una cittadina di provincia, dovevo avere circa diciotto anni. Era una giornata luminosa, un po' prima di mezzogiorno. […]. Quel che accadde fu del tutto inatteso. Una trasformazione subitanea della città. Tutto divenne nello stesso tempo profondamente irreale e profondamente irreale. Era proprio così: l'irrealtà mescolata alla realtà, entrambe si intrecciavano strettamente, indissoubilmente. Le case erano diventate ancora più bianche, immacolate. Qualcosa di completamente nuovo nella luce, di virginale nella luce, un mondo sconosciuto che mi pareva di conoscere da sempre. Un mondo che la luce dissolveva e ricostituiva. Una gioia straripante sgorgava dal mio intimo, anch'essa calda e luminosa, una presenza assoluta, una presenza; mi sono detto che tutto ciò che era la «verità», senza sapere come definire quella verità. […]. Avevo avuto la rivelazione dell'essenziale, tutto il resto era inessenziale. E veramente per parecchi anni il ricordo di quell'istante mi ha spesso riconfortato. Poi mi ha riconfortato sempre meno. Poi niente del tutto356.
La vita dell'uomo si articola in piccoli gesti quotidiani e ripetitivi: se prima era oppresso dal dovere del lavoro, a questo preferisce senz'altro la noia di una vita tranquilla. Dopo aver cambiato casa, ogni giorno si reca a pranzare nella solita trattoria, passa la maggior parte del suo tempo a guardare il mondo dall'alto della finestra della propria abitazione e legge il giornale mentre la domestica si occupa della casa. Nella monotonia dei giorni che trascorre in solitudine, con il solo contatto di Jeanne, donna delle pulizie e Yvonne, cameriera della trattoria dove si reca per pranzare, scruta attentamente il mondo, cerca di spogliarlo dalla sua apparenza e di ritrovare in ogni momento lo stupore che ha provato quando era giovane. Lotta per trovare la verità della vita e per non lasciarsi
354 Idem, Briciole di diario, cit., p. 79.
355 Gabriella Bosco, Ionesco metafisico, cit., p. 27. 356 Ivi, pp. 80-81.
coinvolgere dal mondo, come ha fatto fino a quel momento357.
Il protagonista si perde nella descrizione della propria esistenza nei più piccoli dettagli, è catturato dall'infinitamente piccolo del quotidiano, da cui scaturiscono riflessioni estremamente profonde. Ne è un esempio perfetto la conversazione che intrattiene con André, dopo che ha deciso di farsi installare in casa un telefono:
Gli dissi chi ero, gli chiesi se non lo disturbavo, disse di no, davvero, ma sì, davvero, gli faceva piacere sentirmi, anzi desiderava proprio avere mie notizie, sì l'esame era andato bene. […]. Gli dissi che io stavo bene, andava tutto bene. Mi faceva bene riposarmi. […]. Mi disse (si prendeva gioco di me?) che ero diventato più profondo nella solitudine e che di sicuro avevo meditato molto. Poi gli parlai di cose comuni, gli parlai della mia portinaia che, all'inizio, mi guardava con un'aria strana come se io fossi un uomo strano. […]. Le avevo fatto dei regalini, le avevo dato piccole mance che lei accettava ma sembravano umiliarla. […]. Poi, poco a poco, quell'ostilità, quella diffidenza erano scomparse, o almeno non erano più visibili. […]. Avevo una domestica, Jeanne, che mi raccontava sempre i fatti suoi. Mi ha stufato. Non era cambiata dall'inizio, non smetteva mai di parlare, parlare. Mi faceva male alle orecchie, mi impediva di fantasticare, di pensare, era proprio come il primo giorno, anzi peggio, non era cambiata. […]. E allora, andava bene, andava abbastanza bene? Sì sì, risposi alla sua domanda, qualche volta ho ancora l'impressione di essere separato dal resto del mondo, l'impressione di essere in una specie di campana di vetro358.
Dopo avergli descritto in maniera dettagliata lo svolgimento della propria giornata, confessa che ciò che prova per la maggior parte del tempo è lo stupore per il fatto di esistere e che le cose esistono359. Andrè dimostra di non capire i sentimenti del
protagonista, limitandosi a rispondere che le sue parole e i suoi argomenti sono banali, riducendo il tutto ad una nevrosi ossessiva di cui probabilmente è affetto: “Conosceva qualcuno in grado di curarmi. L'angoscia metafisica, quando è profonda come la mia va trattata”360. Una volta interrotta la telefonata, l'uomo riflette su ciò che è appena stato
detto: non è anormale vivere chiedendosi di continuo cosa sia l'universo, quale sia la sua condizione e lo scopo della vita, ma è anormale che le persone non ci pensino, che accettino di vivere in una specie di incoscienza.
Questo è ciò che rimprovera Ionesco a coloro che lo circondano e che non riescono a comprendere né lui né tantomeno le sue opere, nelle quali condensa le proprie emozioni, senza però lasciarle arrivare in superficie. Gli uomini non sono partecipi della ricerca del 357 Eugène Ionesco, Il solitario, cit., p. 68.
358 Ivi, pp. 78-79. 359 Ivi, p. 81. 360 Ivi, p. 82.
reale sotto il quotidiano, sono impegnati a vivere le proprie vite nell'indifferenza totale e nella volontà di seguire un capo o un regime che privi loro della capacità di pensiero e di giudizio361. In un mondo da cui lui si sente distante, che non sente proprio, popolato da
costante violenza ingiustificata e dall'indifferanza che gli uomini provano nei confronti dei propri simili e della loro stessa vita, Ionesco soffre: “Vivere è per me una sofferenza. Voler troppo vivere è una nevrosi; io mi aggrappo alla mia nevrosi, mi ci sono abituato, amo la mia nevrosi. Non voglio guarire. Di qui mi viene quell'orribile paura, il panico non appena scende la sera”362.
Queste le parole che il protagonista rivolge nei confronti delle altre persone:
Sì, ecco, era così, la gente ha nei miei confronti o l'ostilità o l'indifferenza. Anch'io del resto provo per loro la stessa ostilità e la stessa indifferenza. Che cosa avevano da rimproverarmi? Che vivevo come loro, che non mi rassegnavo al mio destino. E io, che cosa avevo da rimproverare a loro? Niente. Soprattutto se pensavo che, in fondo, erano come me. Erano me. Ecco perché ce l'avevo con loro. Perché erano degli altri senza essere completamente degli altri. Se fossero stati davvero diversi da me, avrei degli potuto prenderli a modello. Mi avrebbe aiutato. Avevo l'impressione di portare in me tutta la paura e l'angoscia di miliardi di esseri umani, il malessere di tutti. In altre condizioni, ognuno di loro avrebbe vissuto la stessa angoscia, la stessa paura della vita, lo stesso malessere. Ma gli altri non vanno a fondo di loro stessi. Si lasciano essere prima adolescenti, poi adulti, poi vecchi, in una sortia di incoscienza o di rassegnazione, di rassegnazione incosciente. Si difendono da loro stessi come possono, finché possono363.
La folla incosciente torna più avanti nel romanzo, quando il protagonista si trova nel mezzo di una rivolta le cui cause non vengono ben chiarite, una lotta che sembra quasi un sogno o un'allucinazione. Gli uomini si scontrano con gli agenti, le teste saltano, i corpi cadono a terra, le persone si colpiscono e gridano di lottare per i loro diritti e per la loro libertà. Lottano con violenza, contro la violenza dei padroni, delle istituzioni. Provocano ingiustizia contro altra ingiustizia. L'uomo è troppo legato al male per poter intraprendere la strada verso un cambiamento giusto, vero e duraturo364.
L'unica parentesi apparentemente positiva nella vita del protagonista è la storia d'amore con Yvonne, la cameriera del ristorante dove si reca ogni giorno per pranzare. La felicità sembra entrare a far parte della propria vita, ma solo per un istante. La sua
361 Eugène Ionesco, Briciole di diario, cit., p. 105. 362 Ivi, p. 89.
363 Eugène Ionesco, Il solitario, cit., p. 84.
nevrastenia, come viene definita da Yvonne, è troppo pesante da sopportare ed una mattina gli annuncia la sua partenza. Anche la donna, al pari delle persone che lo circondano, stenta a capire quali siano i suoi pensieri più profondi e preferisce attribuire tutto ciò ad una patologia psichica piuttosto che cercare di capire le ragioni del suo stato d'animo, troppo profonde e spaventose. Il protagonista si ritrova nuovamente solo con la sua anima, i suoi pensieri e la sua angoscia365.
Una nuova rivolta esplode, più violenta della precedente. Le persone del quartiere dove l'uomo risiede sembrano non curarsi degli scontri che avvengono vicino alle loro case, sono tutti convinti che a loro non potrà succedere niente e continuano a percorrere tranquillamente le proprie vite. Nuovamente l'unico che cerca di capire i risvolti più profondi di questo espisodio sembra essere soltanto il protagonista: che cosa faranno i rivoluzionari una volta che la società non sarà più malata e sarà diventata sana? Non potranno più rivoltarsi contro nessuno e saranno colti dalla sua stessa angoscia, non avendo più alcun pretesto per non porsi le domande esistenziali che lui stesso si sta ponendo da tutta la vita366.
Dopo la morte di un giovane rivoluzionario davanti al palazzo in cui risiede e dopo l'aggravarsi della situazione nel quartiere a causa delle frequenti sparatorie, il protagonista decide di non uscire più dalla propria abitazione: “Non ne potevo più di orizzonti di sangue, di quelle rovine che sembravano sfondi teatrali o cinematografici, di quei fatti che avrebbero nutrito un'intera letteratura […]. Tanto più che non accennava a finire”367.
Nell'isolamento della propria casa l'uomo vive per mesi, forse anni, sopravvivendo alla