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TOP 15 DEGLI SCARY MOVIES, PUBBLICATA NELLA BACHECA DELLA FONDAZIONE TIEMPO DE JUEGO, SULLA BASE DELLA

5. Antefatto alle conclusioni della dissertazione

Nel presente capitolo voglio solo fare un paio di considerazioni che mi hanno guidato nell’approccio al resto della ricerca, non quella sul campo, ma quella bibliografica.

La prima considerazione è che, nel lavoro con i ragazzi (del quale si fa in questa sede un racconto di quelli che furono solo i primi tre mesi, ma che è continuato negli anni), ho identificato una dinamica oppressora nel campo.

Tale dinamica deriva da due luoghi distinti: da un lato, dal fatto che gli audiovisivi che sono maggiormente consumati dai ragazzi ogni giorni, non rappresentino assolutamente la loro realtà e che, in questo modo, come segnalato da bell hooks, il risultato non può essere nient’altro che la rabbia7; dall’altro lato, il fatto che il proprio discorso mediatico – e senza dubbio le pratiche egemoniche quotidiane della relazione tra le persone – trasmetta in maniera chiara una differenza tra la caratterizzazione del comportamento delle classi alte e quello delle classi basse. Ciò va oltre il fatto ovvio che questi sono diversi; il problema è che quel discorso legittima come buoni i ricchi e come cattivi i poveri (anche nel caso delle

7 Mi sembra, in questo senso, altamente significativo l’esempio citato da Tota (2002) rispetto

all’identità negata dagli audiovisivi. Riprendendo bell hooks, l’autrice segnala che in nessuno dei saggi dell’antologia della feminism and film theory c’è la minima consapevolezza del fatto che la donna oggetto in discussione è sempre bianca. Così, la spetattrice di un’altro colore di pelle ha tre possibilità:

1. Si sente esclusa alla fine del film, e nel mentre ci si identifica, negando l’identità. 2. Si sente esclusa sin dall’inizio, escludendo il piacere di guardare il film.

3. Nega così fortemente la propria appartenenza etnica, da rimuovere totalmente ogni possibilità di visione critica; quest’ultima è in ogni caso una forma di difesa culturale e sociale che ha come esito, tuttavia, la riproduzione sociale del discorso egemonico patriarcale e razzista.

narconovelas), perché i ricchi si possono comportare “bene” e i poveri hanno bisogno di imparare a comportarsi “male” per difendersi dalla propria relatà.

Questo non solo è un sofisma senza giustificazione, ma inoltre la pratica della realtà ha dismostrato il contrario: quando meno violenti siano i ragazzi, più forti e preparati sono per affrontare la società.

Per me, è chiaro che cercare di stimolare dinamiche violente tra loro stessi, pregiudica solo loro e nessun altro. Non è vero che imparare ad essere violenti per default abbia a che vedere con il fatto che, così facendo, possano difendersi dalla loro realtà. Ha a che vedere, invece, col fatto che, in questo modo, si sta trasmettendo quella violenza che è conveniente agli attori delle attività illegali e alle cattive pratiche politiche che hanno approfittato da sempre delle necessità della maggior parte della popolazione: non è un caso che la Colombia abbia gli indici più bassi in Sudamerica per quanto riguarda la distribuzione della ricchezza, ed è il secondo peggiore nell’intero continente.

La seconda considerazione che voglio fare, è la necessità di strumenti

che rendano possibile una lettura contro-egemonica

dell’immagine... se qualcuno la vuole.

Tutta l’esperienza fatta in campo mi ha dimostrato che la conoscenza emancipatrice non può essere un’imposizione di nessuno, e ciò include anche me. Allo stesso modo, se quella necessità di produrre conoscenza emancipatrice è una necessità solo mia, dettata dai miei interessi personali, io non sono nessuno per imporre tale bisogno ad un contesto per il quale sento vicinanza, ma al quale, in realtà, non appartengo.

Ciò che è certo è che la proposta di comprendere perché i ragazzi vedono ciò che vedono, e di essere critici da vanti a ciò, lasciando loro la scelta di come vogliono incontrare le risposte, ha avuto successo, tanto che l’assistenza ai laboratori si è duplicata col tempo, hanno iniziato ad assistervi anche i

genitori, i cicli si ripetono fino ad oggi ed i professori del ciclo, ormai, sono gli stessi ragazzi che, prima che arrivassi io, avevano avuto l’iniziativa di riunirsi a cucinare pop-corn e a vedere film.

Inoltre, gli strumenti classici per la comprensione dell’immagine risultarono insufficienti. La Visual Literacy, la mia prima intuizione di strumento utile, aveva un’impostazione di conoscenza scolastica classica che i ragazzi rifiutarono sin dall’inizio, e sistematicamente.

Riprendendo nuovamente Tota (2002) quando definisce il concetto d’interpellanza: ciò vuol dire interiorizzare e far propia una rappresentazione sociale che acquisisce, perciò, una consistenza reale, anche se di fatto è immaginaria. Resta da chiarire, complementa Tota, come coincidano in questo processo le tecnologie del genere o della razza, e perché dinnanzi a varie rappresentazioni venga scelta quella circolante nella società, molto probabilmente segnata dai media.

I media non parlanno di tutti i problemi, parlano di quelli che convengono loro: questa situazione è chiamata il blocco dell’immaginario.

Un immaginario profondamente classista, sessista e razzista, che si traduce in tal senso in azioni pratiche discriminatorie. La trasmissione va dall’immaginario al reale in maniera praticamente immediata.

Il problema che l’altro scriva un testo nel quale non ci riconosciamo, non è un problema dell’altro, nè del testo. Saremo noi coloro che, in ogni caso, dovremo cercare gli strumenti per rispondere in maniera critica al testo, per dargli un significato che si appropri dello stesso, senza sottommeterci ad esso.

È una scelta nostra quella di riconoscersi nella posizione discorsiva egemonica prevista dal testo, contribuendo così a perpetuare la discriminazione; oppure usare quelle risorse che sono già presenti nel linguaggio per invertire il senso nel processo d’interpellanza.