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La percezione al di là delle tabelle: i protocolli etnografici sui laboratori di cinema

TOP 15 DEGLI SCARY MOVIES, PUBBLICATA NELLA BACHECA DELLA FONDAZIONE TIEMPO DE JUEGO, SULLA BASE DELLA

4.5 La percezione al di là delle tabelle: i protocolli etnografici sui laboratori di cinema

Questo paragrafo riporta i protocolli etnografici elaborati in ogni visita al campo. Non vogliamo fare una trascrizione completa di tutti i protocolli. Da questi estraiamo le parti più rilevanti, che sono in diretta relazione con i propositi della presente ricerca, e li organizzeremo in maniera strettamente cronologica. Non stiamo cercando di dare, forzatamente, un senso a questa narrazione; stiamo solo cercando di far che questo racconto, e la sua analisi, siano leggeri il più possibile per il lettore.

La mia ricerca è durata tre mesi. Sono arrivata in campo due settimane dopo il mio ritorno in Colombia, mentre mi riabituavo alle dinamiche della città e riprendevo a muovermi, almeno per arrivare al luogo delle proiezioni. Mi sono accorta che, dopo questi tre mesi di ricerca, ricordavo già nuovamente la maggior parte dei punti di riferimento importanti nella realtà di Bogotà e di Cazucà, e quindi il mio distacco davanti a questa realtà è pian piano diminuito. Uno dei principi dell’etnografia afferma che, più lontano si è da una realtà, più si ha l’opportunità di descriverla. Ci si rende conto con più facilità delle differenze.

La prima cosa che notai fu una geografia completamente diversa. Immediatamente ebbi la sensazione che la geografia di un posto ne possa costruire l’immaginario; in seguito, mi resi conto che la geografia, invece, costruisce il linguaggio. Ora, la geografia del Sud di Bogotá è assolutamente diversa da ciò che conoscevo della città prima di lasciarla: questo paessaggio urbano non è il paessaggio urbano al quale io sono abituata.

La mia prima impressione fu che a Cazucá c’era tantissima polvere. Ho pensato, per questo, che è impossibile che la gente del posto non si renda conto che la realtà presentata a loro in una telenovela è assolutamente artificiale. Persino i colori del contesto sono diversi. Il loro “reale” non è rappresentato negli audivisivi che consumano.

Mi chiedo come si possa sentire la propria identità, quando la rappresentazione della realtà che si vede giornalmente sui mezzi di comunicazione non corrisponde assolutamente alla realtà che si è soliti vivere. Inoltre, questa non è una distanza immaginaria che si possa percorrere: questa distanza è un abisso. Non riesco a trovare degli elementi del rappresentato che possano ripetersi nella rappresentazione. Mi chiedo se il problema sono io, che non guardo la televisione colombiana.

Più a sud si va, più tutto si fa brutto: è un pregiudizio quasi universale che hanno gli abitanti di Bogotá. Ci sono pezzi del nord della città, che non so chi ha cercato di riprodurre al sud. Ci sono due cose che identificano la geografia del sud: l’assenza di alberi o parchi e le strade claustrofobicamente strette. Si sente sempre dire la stessa frase: “La vita al nord è più desiderabile che la vita al sud”. Ma i colli non sono delle riproduzioni, nè sono vicini ad esserlo. Si tratta di chilometri su chilometri di invasione. I colli del sud della città, fino a dieci anni fa, erano visibili. Oggi sono tutti coperti di invasioni. Non si può neanche calcolare con esattezza quante persone ci vivono. Mentre aspettavo l’autobus, il mio paese mi produsse dolore. Per una persona che sta bene, ce ne sono mille che stanno malissimo.

Io avevo già percepito che il modo di trattarsi della gente in questi luoghi era molto più spontaneo, però allo stesso tempo anche più violento. Io, almeno, lo percepisco come estremamente scorbutico. E se penso che ciò che la televisione riproduce è il canone di ciò che si considera come vita “normale”, che rappresenta la forma in cui si suppone che la gente “normale’’ viva, e che la gente del sud vede questa televisione che mostra che altri hanno, mentre loro no, allora capisco che la loro relazione con la realtà deve essere più “scorbutica”.

Con una realtà così dura, con la sensazione che ci sia sempre qualcosa che li spinge verso il basso e li fa sentire frustrati, non c’è alcun motivo per cui debbano essere “educati”.

Ciò che mi sembra più curioso è che, a contatto con una persona del nord, come me, che esagerava nell’essere amabile con loro, potevano succedere due cose: 1. O avrebbero esacerbato il loro trattamento scorbutico nei miei confronti, facendomi sentire il loro resentimento; 2. O improvvisamente sarebbero diventati anche loro amabili, pero solo con me.

Iniziai a notare come una pratica ricorrente la violenza tra di loro, come una specie di comportamento difensivo, prodotto dalla stessa violenza – più o meno intensa – che tutti vivono, in contesti del genere. Però, mi resi conto che questa pratica egoista e con i propri interessi, e poco confidente, pregiudicava solo un gruppo di persone: loro stessi.

Mantenere queste distinzioni davanti al comportamento quotidiano, nel quale si distingue facilmente chi viene da una posizione socio-economica privilegiata e chi da una sfavorevole, e nel quale, inoltre, il senso comune legittima come comportamento più auspicabile quello della classe alta, non è altro che una forma di perpetrare l’esistenza della classe bassa e, difatti, di stimolare la dinamica che li riguarda.

Mi chiedo cosa pensano le persone che vivono a sud di quelli che vivono al nord. Come guarderanno l’altra città, l’altro lato.

Mi rendo conto che, probabilmente, per loro la distinzione non sia così forte. I loro lavori si trovano, nella maggior parte dei casi, nell’area denominata nord. Mi sento colpevole, in un certo senso, di vivere dalla parte bella della città e di aver pensato a lor come a dei “diversi”: mi rendo conto anche di quanto sia difficile svelare i meccanismi quotidiani che classificano e sottomettono le persone che vivono in una stessa città.

Penso, poi, all’impatto del paesaggio urbano sulla percezione del resto del visivo. Mi rendo conto di ciò non solo osservando la percezione di tali

popolazioni, ma anche auto-osservando la mia stessa percezione. Ogni giorno mi rendo conto in maniera più chiara che il paesaggio urbano forma la percezione del reale delle persone. Mi sento travolta della sensazione di riscoperta della città. Penso che ciò implichi che, durante la mia assenza, molte cose sono cambiate.

Oggi mi ricordo che la donna delle pulizie di casa mia prendeva due o tre autobus, e ci metteva quasi tre ore per arrivare, dal nord, alla sua casa al

sud. Io, con il Transmilenio6, ci metto un’ora e passa. Lei non prendenva

mai il Transmilenio (perché costa un poco di più degli autobus); io, se non andassi al sud con il Transmilenio, non ci arriverei affatto. Questo nuovo sistema di trasporti, assieme alle piste ciclabili, hanno cambiato la vita della città negli ultimi anni.

Invece, più a sud, i codici di comportamento per la strada sono sempre diversi. Mentre i poliziotti, nelle strade del nord, guardano per aria, i poliziotti al sud guardano in maniera quasi paranoica da tutte le parti. Già a partire dai limiti immaginari che dividono la città tra Nord e Sud, si iniziano a intravvedere prostitute per la strada. Ancora più al sud, alle 10 del mattino di un sabato, su una strada a più corsie, piena di machine e di gente sui marciapiedi, potevo osservare delle prostitute con la maglietta tirata giù sotto il seno, in modo da lasciarlo completamente scoperto. Si accarezzavano fra di loro, come coccolandosi. Guardando poi attentamente le loro mani, mi accorgevo che erano tutte dei trasvestiti.

Non sono solo la geografia e i comportamenti per la strada che cambiano dal nord al sud, ma cambia anche il tessuto sociale, la nozione di ciò che è permesso nell’ambito pubblico.

Tutti i sabati mi reco sempre prima agli allenamenti di calcio e dopo ai corsi di salsa. Io, in qualità di ricercatrice, mi chiedo: “Come possono giocare in queste condizioni, con tanta polvere?”. Ma loro non lo percepiscono allo stesso modo.

Mi ricordo che un mio vecchio coinquilino diceva che i colombiani non si lavano tutti i giorni, e mi sorprende che per me, invece, l’igiene è una caratteristica che distingue i colombiani.

Mi accorgo allora che una delle forme di stratificazione tra questa gente (che sono tutte di estratto sociale 1, o addirittura 0 in qualche caso) è il livello di igiene personale e la pulizia dei vestiti che portano, come se la possibilità di prendersi cura di tali dettagli fosse, in qualche modo, un lusso.

Mi sorprende sempre il modo in cui mi abbracciano, quando arrivo. Anche se sono una persona “nuova” per loro. È una forma di riconoscimento della differenza e dell’autorità. Mi chiedo anche se dietro ci sia un comportamento conveniente, cioè, se per loro conquistare il mio affetto voglia dire vincere qualche beneficio.

Alla stazione del bus, prima di salire sulle montagne, li vedo tutti vestiti con cura, per apparire bene, ben pettinati, le donne truccate. Nessuno di loro veste di marca, nè secondo i canoni del comune buongusto, e chiaramente c’è uno sforzo permanente di imitare l’estetica femminile proposta dalle telenovelas. Le donne formose, con le stesse curve per tutte, negli stessi posti, con la roba stretta e mostrando il corpo, tutte con gli stessi colori e gli stessi tagli dei vestiti, con i tacchi alti, i capelli lunghi e tinti sul biondiccio. È molto triste vedere come questo canone, che già di per sè è poco estetico, si riproduca in maniera così malriuscita, in queste donne.

Io mi sono vestita il più low profile possibile, ma immediatamente mi riconoscono come “differente” e, non so se dipende dal un mio pregiudizio, ma sembra che loro sappiano che io sono una ragazza ricca del nord. Noto una differenza radicale tra me e loro: i colori che uso per vestirmi, i tessuti

dei miei vestiti, i capelli puliti e sani, la pelle senza trucco nè macchie provocate dai raggi del sole.

Molti bambini prendono solo i bus. Un bambino prende un bus che va a Soacha e solo ha una maglietta, senza niente sotto, e fa molto freddo. Tra tutta la gente che c’è, guarda proprio me e diche: “ Che freddo!”. Mi chiedo perchè, tra tutta quella gente, lo dice proprio a me, con lo sguardo sicuro che io lo ascolterò. È un’atteggiamento paternalista il mio?

Quando arrivo alla fondazione, ci sono bambini che aspettano fuori, per il corso di ballo. Mi vedono e pensano subito che devo essere professora di qualcosa, subito mi chiamano “prof”. Penso che questa differenziazione dipenda dal fatto che io sono adulta, però non è così, perché ci sono altri adulti nella fondazione. È più che altro il miscuglio dell’essere adulta, e della mia apparenza. Io comunico loro qualcosa che mi rende perfettamente riconoscibile ai loro occhi. Penso che sia una fortuna, perché in fondo essere “diversa” mi aiuterà a prendere le distanze per lo studio, e a notare con più acume le differenze.

Un bambino si avvicina, mi dice che anche lui sarà professore ed è vero. Mi rendo conto di quanto ciò li faccia sentire orgogliosi e dell’importanza di formulare una metodologia che rafforzi i participanti con conoscenza che essi possano, poi, replicare. La possibilità di replica non solo mi fa pensare che tale conoscenza sia effettivamente convalidata, ma anche che nella replica prodotta dagli stessi membri della propria comunità, l’appropriazione della stessa sarà maggiore e la forma in cui si replicherà necessariamente avrà in sè la visione di un membro della comunità. Riconosco una dinamica aggressiva fra loro, è normale che si trattino con un certo livello di violenza, non è ben visto, difatti, che si comportino troppo bene, perchè così facendo si espongono a critiche e diventano vulnerabili. La casa della Fondazione è piccolissima, io la percepisco in cattivo stato, ma poi mi rendo conto che probabilmente supera gli standard delle persone

che la frequentano. La casa è piena di gente di età diverse, e tutti vogliono aiutare. Uno dei partecipanti, l’unico impegato non volontario, svolge la funzione di prendersi cura della casa. Quando ci vede arrivare si spaventa e chiede: “Queste chi sono?”

Io e la mia accompagnatrice siamo, chiaramente, diverse, e quest’unico fatto ci mette in una posizione di autorità. Riconosco, qui, la dinamica che mi preoccuperà durante il resto della ricerca: il servilismo delle classi basse in Colombia. Mi rendo conto che si dirigono a me dicendo sempre: “Sissignora”, “Comanda”, “Falla passare prima”.

Alla mia seconda visita, i bambini sono annoiati con l’impiegato della casa. Effettivamente c’è stato qualche problema, i ragazzi sono stati aggressivi tra loro, cercano di darmi spiegazioni e di nuovo noto l’atteggiamento servile, come se avessero capito la lezione. Mi guardo attorno e non riesco a capire da dove possa venire. Chi ha insegnato loro questo servilismo? Potrebbe essere un’eredità tramandata per generazioni e generazioni, ma allo stesso tempo mi rendo conto di riconoscere in quel comportamento un certo livello di artificialità, come se fosse stato appreso in una realtà che loro, in realtà, non conoscono. E mi rendo conto che questa realtà può essere quella rappresentazione aliena che si trova nella televisione tutti i giorni: il “normale” èssere benestante, la condizione strana è quella del povero. I poveri non sono rappresentati in TV e, quando questo succede, si tratta di un evento così eccezionale che risulta sorprendente per il pubblico. Mi ricordo che, nella mia famiglia, cuando spiegai che avrei sviluppato la mia ricerca a Cazucá, sentii questa frase: “Hai visto che nelle narconovelas ci sono i poveri?”.

Nei laboratori di fotografia, i beneficiari vedono sempre la tecnologia come qualcosa di inaccessibile per loro. Gli sembra interessante vedere come funziona la macchina, però sembrerebbe che il resto del discorso, che cerca di spiegare loro perché la fotografia è un’arte ed è bellissima, gli sia del tutto

indifferente. Percepisco che loro sentono che ciò che gli si spiega non abbia nulla a che vedere con la loro realtà.

Naturalmente, sono interessati, gli piace vedere le spiegazioni delle fotografie come se fossero uno spettacolo, apprezzano la conoscenza perchè percepiscono che sapere di più – su qualsiasi cosa – li rende più importanti, si divertono per l’accento straniero del professore (che è un italiano che vive da molti anni in Spagna), vogliono che arrivi il momento della mostra, si chiedono se usciranno in televisione. Tuttavia, questa conoscenza “classica” che il professore vuole trasmettere loro, questa spiegazione di stampo occidentale sul perché la fotografia è un’arte ed è bellissima, non sembra penetrare in loro. Io penso, però: Perché nel workshop di cinema non si registra questo distanziamento? Perché nel cineforito i ragazzi verbalizzano che stanno capendo cose che loro stessi volevano comprendere, e che vogliono capire più cose su ciò che vedono tutti i giorni?

Credo che l’origine di ciò sia semplice: la mia intenzione come professoressa è scoprire ciò che interessa loro, l’intenzione del prof di fotografia è far uscire da lì un’opera d’arte. È un’intenzione lodevole, senza dubbi, però non nasce come un’iniziativa propria dei ragazzi.

Quando diamo loro le macchine fotografiche per fargli fare le foto che vogliono, il loro contatto con il workshop si fa più forte. Una volta che le foto sono sviluppate, il professore, io e i ragazzi scegliamo quelle che ci piacciono di più. Tuttavia, chiaramente le selezione la orienta il professore di fotografia. In ogni caso, è evidente qual è il filo rosso dei contenuti di tutte queste foto: fotografarono quello che interessava loro. Che il loro quartiere ha un sacco di problemi e bisogni, che le loro case stanno letteralmente cadendo a pezzi, che le famiglie vivono in spazi molto ridotti, che i loro amici più cari non sono altri ragazzi, ma gli animali del quartiere. La cosa più interessante è che loro presentavano tutto ciò non in una maniera

autoflagellante: lo presentavano orgogliosamente, come parte della propria identità.

Nella mia formulazione, ho visto che la conoscenza li rendeva più forti, più sicuri e autonomi quando loro stessi si convertivano nella fonte dell’azione che produceva tale conoscenza. Che è esattamente la stessa cosa che è successa durante i workshop di cinema.

Questa conclusione marca trasversalmente la lattura della teoria da quel punto in avanti, perché significa che i ragazzi rifiutavano l’imposizione della conoscenza standard di stampo occidentale (e per questo motivo, come vedremo, la prospettiva della Visual Literacy diventa del tutto inadeguata per Cazucá), e significa inolyte che Boa aveva ragione: la fonte più valida di conoscenza emancipatrice è l’azione sociale.

4.6 Il questionario alla fine dei film: il mio regno per un