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4. La bio-immagine: sarebbero le immagini che cercano di essere clonate.

La sezione che sembrerebbe domandarsi sullo sguardo dell’altro, nel libro

Visual Literacy, in realtà si riduce ad un solo capitolo, scritto da William

Washabaugh ed intitolato Basi filosofiche del multiculturalismo visivo a

livello universitario. Ciò che è sicuro è che la domanda sull’“altro”,

nell’insegnamento dell’immagine, si realizza in maniera molto parziale. Le citazioni che si riportano a continuazione cercano di dimostrare tale limitazione:

“Spiegherò come i Visual Studies possano essere più efficaci nella fase dell’educazione pre-universitaria, se combinati con un multiculturalismo critico, durante un unico corso di educazione generale obbligatoria”

(Washabaugh, 2007: 129).

“Per cominciare, si propone che l’obiettivo principale dei Visual Studies nell’educazione generale obbligatoria sia permettere agli studenti di capire ed intervenire nella costruzione di razza e genere, che sono mediati dalle loro esperienze visive”. (Ibidem: 130).

Analizzando la relazione esistente tra l’estetica visiva ed il potere, l’autore inoltre segnala: “Per riassumere la circolarità dell’auto-triage rispetto

all’esperienza visiva, possiamo dire che l’individuo moderno esercita la sua vista all’interno di contesti istituzionali che lo esortano a formulare giudizi di valore su ciò che vede, ad attribuire valore alle immagini così valutate, e a concettualizzare se stesso, basandosi sul modello delle stesse immagini”. (Ibidem: 132).

Infine, Washabaugh segnala che “ gli studi visivi, critici e multiculturali,

proposti in questa sede ci forniscono strumenti particolarmente efficaci per l’esposizione della struttura di base delle identità a cui è stata

assegnata una razza ed un genere, proprio così come gli studenti

possono essere “allenati”, attraverso tutte le fasi necessarie per sollevare il velo di ingenuità che nasconde le più profonde operazioni visive. Così, essi possono essere educati anche per sollevare il velo di ingenuità che nasconde la categorizzazione in genere e razza, nell’informazione identitaria”. (Ibidem: 143).

Quello che risulta più chiaro nei brani che abbiamo citato, è che esiste una visione abbastanza paternalistica di chi forma la sua identità a partire dalla diversità razziale o di genere, che scarta la possibilità di un dialogo paritario. In opposizione a ciò, uno dei capitoli più interessanti da analizzare è stato il Capítolo 2: “Il restante 10%. Il ruolo della conoscenza sensoriale

nell’epoca del cervello auto-organizzato”, saggio di Barbara Stafford.

L’articolo parte da una premessa abbastanza particolare, che sembrerebbe venire dalla neurologia: cognitivamente, avere contatto con un oggetto vuol dire comprenderlo. L’ipotesi è certamente sorprendente, se si pensa che, in termini di immagine, entrare in contatto con essa significherebbe già di per sé lo sviluppo di una comprensione della stessa (Stafford, 2007: 33). Da questa premessa in poi, l’articolo si avvicina all’alfabetizzazione in maniera – non troviamo altro modo per chiamarla – scientifica. Con questo aggettivo si intende che la forma in cui si produce conoscenza risponde a due criteri validanti: 1) la ragione-razionalità; 2) la logica aristotelica. Quest’idea diffusa della forma in cui si costruisce la conoscenza, sembrerebbe rispondere inoltre a quella forma di “illuminazione” che disperde ogni tipo di interpretazione da parte di chi non ha avuto una formazione accademica, o un’altra forma d’istruzione che possa servire da “allenamento”. Tutti gli esempi di visual literacy per metterlo in pratica sono costruiti attorno a immagini prodotte nel centro del mondo. Vedremo nel prossimo capitolo che questa è una delle forme di concepire l’istruzione più criticate da Gramsci.

In generale, il libro Visual Literacy difende l’idea che chi vive nel XX secolo soffre di solito di un’incapacità di lettura dell’immagine, che si può risolvere seguendo gli intellettuali che hanno, invece, studiato. Usando un linguaggio più diretto, si potrebbe dire che l’alfabetizzazione visiva consisterebbe in un’operazione del genere “vedi ciò che io vedo, in quanto ‘illuminato’ ”. Il testo di Peter Felten, Visual Literacy, inizialmente pubblicato nel 2008, ci offre due elementi di riflessione subito visibili e molto interessanti: “La

visual literacy implica l’abilità di capire, produrre ed usare immagini, oggetti ed azioni visibili che siano culturalmente significativi. […] Il processo necessario per diventare “esperti visivi” continua per tutta la

loro vita, attraverso l’apprendimento di nuovi e sempre più sofisticati

modi per produrre, analizzare ed usare immagini. […] Nel mondo attuale, che è in continuo divenire, la visual literacy, sia concettualizzata come un insieme differente di capacità, sia come parte di una più grande alfabetizzazione multimodale, dovrebbe essere inclusa tra gli obiettivi fondamentali di un’educazione liberale”. (Felten, 2008: 1-2).

In tutti i testi citati, le riflessioni riportate girano più intorno al conseguimento di una serie di competenze cognitive, che ad una domanda concettuale a lungo raggio. Grossomodo, le grandi “insufficienze” della tendenza della visual literacy sarebbero:

a) L’espressione visual literacy, che in generale costituirebbe l’oggetto ontologico del campo di studi, non è stata completamente definita dagli autori;

b) L’espressione tende ad essere ridotta ad una serie complessa di competenze epistemologiche nelle quali non è visibile nessuno sforzo per formulare un carattere critico dentro la formazione accademica, in quest’area;

c) Il campo di studi è stato elaborato storicamente in funzione di concetti occidentali, però nessuno dei testi analizzati risponde alle

domande poste da prospettive diverse e molteplici. Al contrario, si propongono prospettive uniche, alimentate dal dialogo tra la scuola europea e quella nordamericana degli studi visivi, cioè in opere di autori come James Elkins, W. J. T. Mitchell e John Simmons. Per essere più precisi, ciò che non si riesce a cogliere dai testi della

visual literacy è un reale interesse per scoprire perché l’immagine

sia pensata come se fosse una costruzione meramente occidentale. d) In senso più complesso, l’immagine in movimento continua ad essere una questione irrisolta (in questo campo, tuttavia, sappiamo che Mitchell ha elaborato questo tema in maniera più ampia, però definitivamente non ha preso in considerazione il contesto della

visual literacy, ma solo quello dei media e dei visual studies).

e) L’analisi dell’aspetto politico è superficiale, e si riferisce soprattutto alla circolazione delle immagini in società di consumo sviluppate. Questi riferimenti minimi alle domande sull’“altro” non solo lasciano il sospetto che la prospettiva della visual literacy difenda il discorso egemonico, ma addirittura precludono a questo “altro” la possibilità di fare domande su se stesso, nella forma in cui gli piacerebbe farlo.

f) Proprio per la stessa particolarità intrinseca della parola “literacy”, si fanno costantemente esempi analoghi su come le differenti maniere di vedere possano confrontarsi ai differenti modi di leggerle. Colui che riesca a dominare le prime, di conseguenza sarà un soggetto “illuminato” (in questo caso, sull’immagine).

g) Il problema reale, in tutto ciò, è che in un certo qual modo ci troviamo davanti ad un paradigma di “illuminazione” visiva, che racchiude tutti i modelli di esclusione che la stessa parola “illuminazione” implica.

7. Alle radici della diagnosi: Gramsci nel pensiero