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L’antropologia post-coloniale

La partecipazione di gran parte delle popolazioni africane alle attività belliche della Seconda Guerra Mondiale determinò da parte delle potenze coloniali belligeranti l‟esigenza di mantenere gli impegni presi nei loro confronti con concessioni di autonomia e indipendenza. Così, mentre per i paesi colonizzati dalla Francia, dall‟Inghilterra, dall‟Italia e dal Belgio il coinvolgimento nella guerra segnò l‟inizio della decolonizzazione, l‟Angola che non fu coinvolta, dovette attendere sino agli anni Settanta del secolo scorso.

Negli anni Quaranta la situazione internazionale proponeva il collettivismo e il liberalismo come concezioni economiche e sociali tra loro contrastanti allineate rispettivamente sul blocco sovietico e quello americano. I fattori concomitanti che sul piano della situazione interna dei popoli colonizzati contribuirono alla decolonizzazione furono la ribellione e il dissidio interno alle forze armate coloniali, l‟attività dei movimenti di liberazione anti-coloniali, l‟appoggio militare e politico proveniente dai blocchi ideologici mondiali. Tutto ciò condusse dagli anni Cinquanta, alla decolonizzazione completa del continente africano. In Angola si formarono gruppi di élites intellettuali in grado di esprimere le esigenze indipendentistiche propagandandole ai diversi strati sociali. Il capitalismo coloniale portoghese venne irrimediabilmente minato dalla diffusione di diversi movimenti popolari anti-coloniali, tra cui l‟MPLA, UNITA, FNLA che con la guerriglia destabilizzarono il sistema produttivo coloniale e conseguentemente il livello degli scambi delle merci portoghesi (soprattutto il caffè) sul mercato mondiale. Nelle fazendas i portoghesi si asserragliarono tentando di resistere e fronteggiare i movimenti di liberazione, ma pian piano nonostante la repressione della PIDE, i temuti servizi segreti portoghesi, le loro strategie di occupazione vennero meno. In ambito europeo venne meno anche la giustificazione dell‟occupazione coloniale che sino alla fine dell‟Ottocento aveva dato impulso al Portogallo.

Tutto questo panorama politico internazionale contribuì alla rielaborazione delle prospettive teoriche dell‟antropologia e dei suoi interessi nei paesi africani (Loi, 2008, p. 44). Per quanto riguarda l‟Africa, in tale quadro generale, negli anni Sessanta alcuni storiografi (Van Wing, 1921. Bal, 1963. Balandier, 1965. Cornevin, 1966. Randles, 1968. Vansina, 19762. Hilton, 1985. Thornton, 1983, MacGaffey, 2000) hanno cominciato a ricostruire la storia dei popoli fino a qualche anno prima soggetti alle diverse potenze coloniali; il punto di partenza metodologico è stata l‟ottica e la prospettiva di crescita politica di questi popoli. Questa nuova prospettiva si è affermata con la rilettura critica delle fonti storiche provenienti da amministratori coloniali, esploratori, commercianti e missionari, seguendo una in prospettiva metodologica che affronta l‟analisi delle trasformazioni sociali operate dal colonialismo secondo il punto di vista dei colonizzati (Bontinck, 1964. Filesi, 1968. Filesi, 1970. Bontinck, 1970. Toso, 1976. Filesi, 1978. Porisiensi, 1981). Tra gli inizi degli anni ‟60 e la fine degli anni ‟70 del secolo appena trascorso, quando ormai la decolonizzazione rientrava nei programmi della politica internazionale delle grandi potenze, l‟Angola otteneva l‟indipendenza (Savimbi, 1979). Etnie che fino allora erano state oggetto di studio da parte di etnografi, funzionari e missionari occidentali cominciarono a parlare e ad agire efficacemente per conto proprio. Nasceva una nuova generazione di studiosi africani e i Bakongo diventavano di nuovo oggetto di ricerca (Batsikama, 1971. Ki-Zerbo, 2005.

Abranches, 1980. Fonseca, 1985. Nsondé, 1995. Kimbwandende, 2001. Kabolo, 2004. M‟bemba-Ndoumba, 2006). Uno dei contributi più importanti della storiografia africana è stato quello di svincolarsi sia dal paternalismo missionario sia dal trionfalismo dell‟ideologia imperiale portoghese per creare le basi di una storia del Congo, non più incentrata su movimenti provenienti dall‟esterno, come l‟evangelizzazione o il colonialismo. In questo modo negli ultimi vent‟anni gli storiografi europei (Bender, 1978. Saccardo, 1982. Clarence-Smith, 1985. Hilton, 1985. Chabal, 1999. Chabal, 2002) e africani (Kizerbo, 1981, M‟Bokolo, 2003) partendo dalle fonti documentarie e dai documenti raccolti negli archivi coloniali, sono riusciti a ricostruire la cultura e la società autoctona del recente passato africano. Questo nuovo modo di affrontare le realtà locali, ha messo in crisi le interpretazioni e i concetti classici delle autorità etnografiche coloniali.

Basil Davidson è tra i primi africanisti a studiare il periodo postcoloniale in Angola, e a denunciare l‟etnocentrismo coloniale nella rappresentazione europea delle culture africane. Come giornalista del “New Statesman” ebbe modo di riscrivere la storia africana su basi documentarie ed interpretarla in chiave africana. Per la sua simpatia verso i movimenti di guerriglia anticoloniali e l‟appoggio dato alla rivoluzione di Tito in Jugoslavia fu espulso dall‟Africa anglofona ed accusato di comunismo. Il tenore dei suoi articoli non fu condiviso dai redattori dei giornali londinesi per cui lavorava perciò nel 1951 fu licenziato dal New Statesman, e nel 1956 dal Daily Herald. Tra le sue opere riguardanti l‟Africa, la più nota scritta nel 1961 è

Black Mother. Africa: The years of Trial. Qui Davidson affronta il problema della schiavitù in un

periodo in cui il tramonto del sistema coloniale e la nascita dell‟Africa indipendente erano ormai evidenti (Davidson, 1961, p.7). Con uno stile giornalistico e divulgativo analizzò storicamente il dramma della tratta ed i cambiamenti che operò sia nell‟economia europea sia nella struttura sociale africana, infatti

«con questa degradazione sistematica, con una brutale novità dopo l‟altra, passando da un atto di crudeltà all‟altro, era inevitabile che l‟indifferenza per il dolore umano crescesse, e crebbe a dismisura da entrambe le parti. Abbiamo molte prove, come vedremo, del fatto che per gli africani questo processo contribuì al collasso delle strutture sociali e alla perdita della sicurezza e dell‟amor proprio» (ivi, p. 112).

L‟immaginario europeo si alimentava delle immagini esotiche e bizzarre offerte dalla letteratura di viaggio sui “negri” cannibali che mangiavano i propri simili per gusto e naturale inclinazione. Davidson lo notò nelle incisioni dell‟Historica Descritione di Cavazzi:

«Una bella illustrazione di queste fantasticherie si può trovare ne famoso libro in cui Cavazzi descrive i tre regni africani del Congo, Matamba e dell‟Angola. In questo bel volume in quarto, pubblicato a Bologna nel 1687, l‟artista dava libero corso alle credenze popolari. Vi si trovava una splendida incisione che raffigurava una scena di cannibalismo: diversi angolani nell‟atto di squartare corpi umani e cuocerli su una griglia di ferro» (ivi, p. 116).

Reciprocamente anche la fantasia degli angolani era plasmata da impressioni suscitate dalla crudeltà degli Europei, infatti

«questo mito del cannibalismo operava in tutti i due sensi. La figura è a pagina 32 del libro di Cavazzi. Ma poco più in là, a pagina 164, Cavazzi descrive come gli schiavi dell‟Angola siano terrorizzati all‟idea di essere portati via. Perchè? Perchè , scrive, sono convinti che gli europei non li vogliano per lavorare ma per cambiarli in olio e carbone. In altre parole né più né meno che per mangiarli. Gli europei appresero con stupore che gli africani credevano generalmente che essi fossero grandi e irriducibili cannibali» (ivi, pp. 116-117).

Sembrava che l‟approccio verso l‟alterità fosse concepito in termini di aggressione, di “fagia”. Davanti alla minaccia della diversità scattava un senso di autodifesa e presto si affermò un nuovo

spirito di reazione oscurantista (ivi, p. 120) che portò persone intelligenti a scrivere sull‟Africa

in questi termini

«con la stessa condiscendenza e lo stesso disprezzo usati in passato dai loro predecessori. “Gente più animalesca che ragionevole - aveva dichiarato Cavazzi a proposito degli angolani nel 1687; - la danza tra questi barbari, non avendo per movente l‟abilità virtuosa di mostrare il movimento del corpo o l‟agilità dei piedi, mira solo ala soddisfazione viziosa di un appetito libidonoso”» (ivi, p. 120).

Tra queste persone intelligenti Davidson colloca anche sir Harry Johnston autore di George

Grenfell at the Kongo che nell‟Inghilterra ottocentesca godeva fama di liberale anche se nella sua

opera ripeteva inconsciamente i giudizi dei negrieri di Liverpool

«quest‟esperienza non gli impedì di conformarsi alle teorie del momento, anzi le accettò in pieno. Per lui, come per altri ogni traccia di civiltà in Africa andava attribuita a influssi esterni. “Senza dubbio - scriveva nel 1910, - l‟influsso dei portoghesi... mise in moto alcuni sorprendenti movimenti lungo le regioni costiere dell‟Africa occidentale e nel bacino meridionale del Congo, da cui nacquero regni organizzati che crearono e spronarono il commercio (...). Ma la verità - come ogni ricercatore intelligente poteva sapere anche nel 1910 - era esattamente il contrario. Infatti i regni del Congo erano precedenti all‟arrivo dei portoghesi, e i portoghesi, lungi dal crearli, li avevano in realtà distrutti» (Davidson, 1961, p. 120).

Il trapianto della cultura portoghese in Kongo descritta da Davidson in Black Mother (1961, pp. 133-178) ebbe come finalità quella di creare l‟equivalente africano della società portoghese come avrebbe voluto nel 1512 il re don Afonso in un ingenuo entusiasmo iniziale che poi si trasformò in triste disillusione, infatti

«non prevedendone le conseguenze, Affonso accettò tutto con entusiasmo: in seguito, quando le conseguenze diventarono più manifeste, era troppo tardi per rovesciare il corso degli eventi» (ivi, pp. 140-141).

Come in altre zone dell‟Africa anche in Kongo furono gli interessi commerciali a prendere il sopravvento e a contrastare le ingenue finalità della “missione civilizzatrice”.

Nel 1969 Davidson pubblica in The Africans il frutto di viaggi, inchieste ed incontri con i saggi dei diversi paesi africani secondo la prospettiva metodologica dell‟antropologia sociale inglese (Davidson, 1969, p. 4). Influenzato dal particolarismo storico di Boas critica l‟antropologia coloniale perchè, sotto l‟influenza antistorica di Malinowski, liquida come pure e semplici consuetudini gli elementi culturali e istituzionali dell‟Africa.

«Eppure era ancora necessario inquadrare la realtà africana nel suo contesto storico. Gli antropologi del periodo coloniale non lo fecero. In gran parte sotto l‟influenza rigidamente antistorica di Malinowski consideravano deliberatamente le società africane come entità fuori del tempo, senza passato e senza futuro» (Davidson, 1969, p. 12).

L‟approccio sincronico dell‟antropologia sociale inglese non serviva alla comprensione dei processi storici di cambiamento in atto nelle società africane. Perciò Davidson a favore della prospettiva diacronica del divenire storico, secondo il metodo individuato da Evans-Pritchard, critica la metodologia sincronica di Radcliffe-Brown, discepolo di Malinowski, perchè priva le

società africane della loro storia gettandole nella completa alterità come relitti di un passato remoto, infatti, secondo questo antropologo

«“non possiamo avere una storia delle istituzioni africane”, insegnava l‟ugualmente autorevole Radcliffe-Brown, che per molto tempo condivise le stesse idee; non c‟era semplicemente modo di fare una storia del genere» (ibid.).

In seguito Davidson sintetizza il suo punto di vista considerando il carattere coerente del sistema di pensiero delle popolazioni africane considerate invece da sempre irrazionali

«ogni gruppo definisce se stesso, si rinchiude in se stesso e governa se stesso, entro il proprio statuto esclusivo per giustificare se stesso» (ivi, p. 22).

Individua un fondo comune molto antico che marcò la cultura di popolazioni africane distanti e creò in loro le stesse simbologie che fanno pensare a una stessa origine (Davidson, 1969, p.24). Davidson mantiene le distanze dal diffusionismo quando afferma che

«bisognerebbe lavorare un bel pò di fantasia per arrivare a concludere che i dogon e i bambara derivano le loro idee dalla Babilonia» (ivi, p. 24).

Lui preferisce la spiegazione di Lévi-Strauss sullo sviluppo del pensiero grazie a coppie oppositive che ordinano il mondo socio-culturale anche degli Africani e che stanno al fondo del loro processo di simbolizzazione come strutture della loro realtà mentale e sociale

«concepiscono lo sviluppo della vita come “il perpetuo alternarsi di opposti (destra e sinistra, alto e basso, pari e dispari, maschio e femmina) riflettente un principio di dualità che idealmente presiederebbe alla proliferazione della vita”. Si dice che questo principio dialettico sia racchiuso in un altro: in una “concezione dell‟universo basata da un lato su un principio di vibrazione della materia e dall‟altro su un movimento generale dell‟universo nel suo insieme”. Le coppie di opposti si sostengono reciprocamente in un equilibrio che l‟individuo conserva dentro di sè», mentre “l‟infinita estensione dell‟universo è espressa dal continuo avanzare della materia lungo questa spirale” (ivi, p. 25).

Insomma in uno sforzo continuo di valorizzazione Davidson costruisce la capacità di espandersi della cultura africana e di creare un suo senso di libertà, una sua stabilità e auto-compiutezza soggette però al cambiamento. A questo scopo si rifà ai concetti dell‟antropologia dinamica

«Oggi molte di queste società sono perite e altre vanno incontro alla stessa sorte. Anche con buone testimonianze a disposizione è difficile immaginare la loro antica potenza e vitalità. Troppe cose sono accadute, troppe cose sono cambiate (...). La dinamica di questa civiltà non sta soltanto nei suoi elementi formativi, sociali o ideologici, ma anche nei suoi meccanismi di cambiamento» (ivi, pp. 157. 158).

Dimostra una conoscenza approfondita dei diversi sistemi culturali africani che organizza secondo una

«una nuova sintesi di configurazioni e valori culturali che ha cominciato ad emergere recentemente dal lavoro di molti studiosi di varie discipline, soprattutto di antropologia sociale» (ivi, p. 4).

Si serve, infatti, dell‟antropologia sociale per interpretare sul campo un patrimonio di conoscenze raccolte viaggiando

«su e giù per il continente, percorrendo sentieri non battuti, facendo domande e raccogliendo tutta la saggezza che potei trovare nelle parole scritte, in conversazioni sotto i pioppi, e in vari altri incontri con i saggi dei diversi paesi» (ibid.).

Il suo però non è un lavoro etnografico che si limita a raccogliere dati per poi interpretarli ma costatando l‟importazione massiccia delle armi da fuoco e la presenza irritante dell‟invadenza europea che spezza la tradizione ancestrale africana si rende conto che una semplice modifica

alle antiche soluzioni non poteva più far fronte alla situazione (ivi, p. 219). Erano necessari

nuovi sistemi politici che si opponessero al colonialismo

«se l‟Africa doveva sostenere il proprio sviluppo, o anche la propria indipendenza in un mondo di radicali cambiamenti sociali e economici. Tutto quel che c‟era di valido nelle antiche strutture, il vigore morale, il loro umanesimo, l‟accento posto sull‟esistenza sociale dell‟uomo, poteva alla fine sopravvivere in nuove forme» (Davidson, 1969, p. 219).

Ma pur nell‟asfissia culturale delle colonie gli africani iniziarono ad abbordare i loro problemi fondamentali di cambiamento sistematico organizzando una resistenza primaria quando gli invasori cominciarono ad imporre la loro presenza e la loro autorità. Queste forme di opposizione cedettero sempre più il passo a

«tipi di adattamento nuovi per contenuto e forma, modificazioni genuine derivate dal contatto con il mondo esterno» (ivi, p. 230).

Dopo aver visitato l‟Africa portoghese. prima nel 1954 in Guinea Bissau, poi, nel 1967 in Mozambico ed infine nel 1970 in Angola, Davidson nel 1972 pubblica In the Eye of the Storm,

Angola‟s People. Nella brousse angolana ebbe modo di conoscere Agostinho Neto e i

guerriglieri dell‟MPLA e avendo già avuto contatti con Amilcare Cabral e il PAIGC guineano volle porre al centro della sua attenzione la loro lotta

«les mouvements modernes du XXe siècle. C‟est eux qui sont au centre de ce livre. Eux aussi paraissent présager et contenir le réponse générale des Africains aux Temps Modernes»

(1972, p. 50).

Pur essendo un libro scritto tre anni prima dell‟Indipendenza la prima parte affronta la storia dell‟Angola evidenziando il sistema oppressivo coloniale. Ironizza sull‟estrazione sociale dei coloni portoghesi e osserva che

«la pluspart des Portugais qui sont venus y vivre ont été pauvres, sans grandes prétentions,

encore moins d‟éducation et les idées qu‟ils se faisaient de la richesse, de leurs commodités ou de leur propre carrière n‟étaient pas très différentes des nombreux Africains parmi lesquels ils vivaient (...) la piétaille du Portugal se composait pour la plupart de paysans. Chez eux l‟économie était proche du “niveau de subsistance” et leur instruction nulle» (ivi,

p. 51).

Sembra strano che un gruppo sparuto di poveri degregados abbia potuto sottomettere migliaia di persone una possibile spiegazione si può intuire dalle parole di Marcello Caetano:

«Les indigènes d‟Afrique, déclarat-il, doivent être dirigés et organisés par les Européens,

mais ils en sont les auxiliaires indispensables. On doit considérer les noirs comme les éléments producteurs, organisés ou à organiser, d‟une économie dirigée par des blancs»

Un esempio proviene dallo zuccherificio Hornung che nel 1923 stabilì un contratto con l‟alto commissario per il Mozambico per assumere 3000 operai che avrebbero dovuto lavorare in questo stabilimento per 20 anni a tempo pieno. Tra le clausole del contratto constava l‟articolo 94 dove si stipulava il seguente:

«l‟indigène qui ne remplit pas volontairement l‟obbligation de travailler, qui est le devoir de

tout Portugais peut être amené, comme vagabond, à le faire par le pouvoir des autorités qui adopteront les mesures nécessaires pour l‟éduquer et le civiliser» (ivi, p. 119).

Come si è visto i Portoghesi avevano creato la classe degli assimilados con l‟intento di staccarli dal contesto indigeno e farne una sorta di devoti funzionari competamente dediti alla causa coloniale, i primi intellettuali nazionalisti contrastarono questa manovra con la riafricanizzazione, cioè:

«La régénération de l‟Angola ne pouvait naître qu‟en comblant le fossé qui séparait

l‟assimilado du preto boçal (noir de la brousse) que d‟anciens protestataires avaient méprisé tout en voulant le protéger. Si les assimilados avaient en devoir, disait implicitement Mensagen dans presque tous ses poèmes c‟ètait de “déportugaliser” et de “réafricaniser”; d‟echapper à l‟isolement lusitanien; de retrouver le contact avec “les indigènes”, que ce fût dans le taudis pourissants de Luanda ou dans l‟interieure sauvage du pays, dans la brousse (sertão); et, comblant le fossé, de construire ainsi une identité qui ne serait plus portugaise, mais angolaise» (Davidson, 1972, p. 153).

Il colonialismo aveva costruito un identità africana assimilata a cui avevano accesso solo pochi privilegiati e anche questi dopo tanti sforzi per ottenerla scoprivano che erano solo degli strumenti in mano ai coloni; bisognava perciò contrastare questa immagine lusitana dell‟angolano che secondo Mario de Andrade era

«image d‟un homme qui restait sauvage à moins de devenir Portugais et, jusque-là et même

alors, Portugais de seconde classe» (ivi, p. 155).

D‟interesse per questo lavoro è la prospettiva antropologica da cui parte Kajsa Eikholm in

Power and Prestige. Lo studio scritto nel 1972 si propone di stabilire

«how these states were build up and how contact with the Europe influenced therir tradional

structures. They were not defeated on the battle field, indeed in many cases the very presence of Europeans as trade partners was enough for them to collapse like so many card houses»

(Eikholm, 1972, p. 6).

Ekholm si propone non tanto di narrare eventi storici ma di stabilire le basi su cui si reggeva il potere politico del regno del Kongo

«Our purpose has not been to try to clarify specifics, whether it apply to the structure of the

Kongo kingdom or to the historical course of events: the overall implications already present in the historical and ethnographic literature are our starting point» (ibid.).

Parte innanzitutto dalla distinzione fatta da Evans-Pritchard quando quarant‟anni prima studiando i sistemi politici africani li suddivise in stati organizzati e gruppi segmentari

«states, designated group A, with centralized authority, administrative machinery and

judicial institutions - i.e. a government - where differences in rank and welfare corresponded to the distribution of power and authority. And there were stateless societies, group B, with

segmented structure, where neither government nor any noticeable differences in rank or wealth were to be found» (ibid.).

Il potere politico dei regni africani non poteva reggersi sulla forza, infatti, non avevano un esercito e nemmeno un corpo di polizia che garantisse loro la stabilità, perciò come afferma Ekholm power could not be held by force or the threat of force. (ivi, p. 7). Gluckman ricerca l‟improvviso collasso dei regni africani nel modo di produzione che aveva generato una dipendenza reciproca tra i diversi sistemi segmentari senza garantire loro la proprietà privata delle terre. Il marxismo organizzava la sua analisi a partire dal rapporto dialettico stabilito dall‟uomo con la natura e dalle classi economiche emergenti. In effetti, secondo Ekholm, l‟apparato ideologico di Marx ed Engels era ben lungi dal rappresentare la situazione delle società africane: from the Marxist point of view African kingdoms were strange animals indeed (ibid.).

«In Africa there was no development of the productive forces that could explain the political

,development. Tools were extremely simple» (Eikholm, 1972, p. 7)

Infatti, in Africa le società organizzate e quelle segmentarie non si sono formate e non si differenziano, come vorrebbe il marxismo, secondo i metodi di produzione. L‟idea che

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