• Non ci sono risultati.

Gli esploratori e i geografi nel XIX secolo

La visione complessiva della realtà storica e socio-culturale bakongo fin qui esaminata fu ricostruita prevalentemente nelle relazioni di viaggio redatte dalla seconda metà del XV secolo da missionari e viaggiatori giunti in Congo e in Angola dalla seconda metà del „600 fino alla fine del „700. Per avere un quadro antropologico più attuale di tale realtà è opportuno ripercorrere i diversi studi successivi che, a partire dalla fine del XVIII secolo fino ad oggi sono stati condotti. Ciò consentirà di individuare quali sono state le teorie e i metodi impiegati nelle relative indagini. Pertanto, anche nella presente ricerca sull‟attuale realtà socio-culturale bakongo e sui recenti processi di cambiamento che l‟hanno caratterizzata si è reso necessario non solo tenere presenti le fonti e la letteratura antropologica che, a partire dall‟Ottocento, è giunta fino ai nostri giorni ma anche i prodromi che hanno causato i cambiamento attualmente in atto. In tutti i casi si partirà dalle relazioni di viaggio della fine del secolo XVIII per poi giungere alle missioni etnografiche condotte per meglio razionalizzare l‟amministrazione coloniale. L‟analisi di questi testi, secondo Maino, è di estremo interesse per capire le risposte che i navigatori e gli esploratori diedero alle prementi curiosità europee sull‟Africa:

«L'analyse des conditions de production de ces textes montre que leur portée dépasse le

simple récit de voyage ou de collecte de curiosités sur les nouvelles terres. Les navigateurs et les explorateurs, bien souvent des lettrés ayant une spécialisation technique, se prêtaient au rôle d'informateurs sur des sujets qui dépassaient leur domaine de compétence. En effet, ils répondaient à une demande explicite de connaissances sur les nouvelles terres, les hommes, la faune et la flore, dont les finalités étaient diversifiées, selon le commanditaire ou le bailleur. Dans ce sens, ils mettaient en oeuvre une démarche pluridisciplinaire qui était le fruit d'une “coproduction textuelle”, d'autant plus que leur publication avait souvent lieu dans un pays tiers ou sous la plume d'un rédacteur étranger» (Maino, 2005 p. 172).

Dal XV al XVIII secolo le società bakongo, lunda, lwena, tchokwe, umbundu e kimbundu con l‟arrivo dei “bianchi” subirono profonde alterazioni provocate da guerre, esodi in massa e schiavitù. I Bakongo non rimasero impassivi davanti a queste tragiche circostanze ma opposero resistenza sia alla schiavitù come all‟acculturazione portoghese con rivolte e migrazioni in

massa. Il commercio dell‟avorio, della gomma e degli schiavi favorì l‟interazione tra società indigene che si organizzarono per difendere il monopolio delle vie commerciali dell‟interno, mentre le coste atlantiche erano battute dalle navi portoghesi e inglesi. Le società angolane stabilirono tra loro rapporti di collaborazione dettati dall‟interesse commerciale che spesso sfociarono in episodi di violenza. Ci fu poca collaborazione per stabilire un fronte comune contro il colonialismo, anzi molti gruppi sociali, regni e individui lottarono tra loro per trarre il maggior vantaggio possibile dalla situazione coloniale. Molti regni angolani approfittarono del coinvolgimento europeo nel traffico di schiavi per rafforzare il prestigio del loro potere militare attraverso l‟acquisizione di armi da fuoco ed alcool. Il monopolio del mercato costiero e il controllo delle vie commerciali contribuirono alla formazione di élite politiche che dominarono le popolazioni dell‟interno. Le relazioni commerciali con gli Europei furono motivo di prosperità e prestigio; in cambio di oro e schiavi le carovane ritornavano all‟interno con manufatti di metallo, stoffe, armi e alcool. Furono le guerre di occupazione coloniale a porre termine all‟amministrazione del territorio appartenente al regno di Matamba (1839), del Congo (1860), di Kakongo (1883), di Katoko (1886) e Vunonge (1877) tra i Nganguela e Kwanhama (1917).

«Se os kaselos (colonos) te perguntarem acerca de reinos, não digas nada, porque o

Vunonge vya Chinhama está preso e em perigo de vida» (O mundo cultural, 1997, p. 30).

L‟impatto con la cultura europea determinò profondi cambiamenti documentati anche prima dell‟arrivo di Diogo Cão nel lontano XV secolo. I vasti possedimenti coloniali consentirono agli Inglesi, Portoghesi, Francesi e Olandesi di entrare in contatto con le popolazioni africane; le ricerche sul campo divennero così sempre più importanti. Apparvero studi monografici che descrivevano la struttura geo-morfologica ed il potenziale di risorse da sfruttare. L‟etnografia ricevette impulso dalle esplorazioni (survey) con la raccolta di dati etnografici, geografici, linguistici, storici e ambientali in una prospettiva socio-economica. Gli studiosi inglesi combinavano spesso l‟attività etnografica con quella missionaria. Si giunse in questo modo a rappresentare le diverse popolazioni studiate come gruppi dotati di una propria cultura distinta da quella degli altri gruppi vicini, e valutati in base alle loro pratiche sociali ed attività economiche. Gli antropologi recensivano la popolazione applicando un metodo di classificazione secondo i criteri fenotipici razziali

«un recensement démographique dont la méthodologie de classement de la population

s'organise selon des critères phénotypiques d'origine géographique et de statut socio- économique, notamment à travers l'indication de la profession, du nombre d'esclaves et des plantations possédés» (Maino, 2005, p. 170).

Erano influenzati dal diffusionismo e ritennero, infatti, che le organizzazioni sociali complesse come i grandi regni africani si fossero estesi a partire dall‟Egitto. Per effetto delle guerre e della situazione politica del Portogallo che ridusse il suo potere nel territorio angolano e per l‟espulsione di tutti gli ordini religiosi, le notizie sui Bakongo che risalgono alla prima metà dell‟Ottocento sono spesso confuse e frammentarie. Sono il frutto dei resoconti di viaggiatori, etnografi e geografi che, durante le loro esplorazioni, si confrontarono con quella realtà mossi da vari interessi.

«Bisogna ammettere tuttavia che, tranne poche eccezioni, i viaggiatori europei di questo periodo erano in buona fede quando cercavano di stabilire un contatto con le popolazioni locali e di assicurare al proprio paese il possesso dei loro territori. Erano, infatti, convinti di contribuire alla costruzione di un mondo migliore. Spesso vivevano in modo eroico le loro esperienze. Si sottoponevano a stenti e privazioni di ogni genere non solo per stabilire dei

primati di arrivo, ma anche perché sinceramente persuasi di aprire la strada a un miglioramento delle condizioni di vita degli africani. Pochi si rendevano conto di quali sarebbero state le conseguenze» (Cavalli 1995, p. 8).

In generale le documentazioni dei viaggiatori riportano sistematicamente il punto di vista dell‟osservatore, spesso interessato a rilevare aree d‟interesse geografico per finalità commerciali. L‟ottica di lettura degli avvenimenti era influenzata dalla prospettiva imperialistica europea, inoltre, portava gli studiosi di quel tempo a interpretare i “segni di civiltà”, presenti nelle culture “altre”, come il frutto della presenza dei bianchi. Con la rivoluzione industriale, il fabbisogno di materie prime per le industrie europee determinò la ricerca di avorio, olio di palma, cera e gomma; in questo modo perse valore la tratta degli schiavi.

«Lo sviluppo industriale stava rapidamente mutando il volto e i bisogni dell‟Europa. La concorrenza rendeva necessario trovare materie prime a costi sempre più contenuti. Per la prima volta, l‟Africa balzava alla ribalta della politica internazionale come una nuova, incontaminata terra promessa. Nelle antiche formazioni cristalline dei suoi suoli c‟erano enormi ricchezze minerarie, nelle foreste legni pregiati e essenze utili o utilizzabili, mentre nelle regioni a cavallo dell‟equatore si poteva impiantare su larga scala colture che i climi temperati dell‟Europa non consentivano, ma che stavano diventando sempre più necessarie: cotone, canna da zucchero, tabacco, caffè, cacao, caucciù, e altre ancora» (ivi, p. 8).

All‟inizio delle esplorazioni l‟attenzione delle compagnie commerciali si concentrò sul fiume Congo in quanto costituiva una tra le più grandi vie commerciali dell‟Africa Australe. Il motivo fondamentale era migliorare il controllo del bacino fluviale con il massimo rientro economico assicurato dai commerci delle materie prime presenti nella regione e i relativi traffici. In tale quadro di interessi concreti una delle priorità era quella di effettuare rilevamenti cartografici del territorio e codificare topograficamente i luoghi ancora sconosciuti. Veniva così enfatizzata l‟Africa Nera come regione sconosciuta, impenetrabile e insalubre; le popolazioni che vivevano nelle foreste, secondo questo approccio, erano primitive e le loro culture inalterate da migliaia d‟anni in quanto prigioniere di un‟eterna immobilità. Nei loro diari gli esploratori riportarono informazioni che destarono particolare interesse e fornirono dati che ci permettono di reinterpretare la situazione socio-politica dei luoghi visitati.

L‟osservazione attenta di molti europei ha fornito informazioni dettagliate su molti aspetti della cultura dei Bakongo, sulla loro organizzazione sociale e le pratiche religiose. Grazie alla griglia teorico-metodologica dell‟antropologia è possibile ricavare, spurgandole dalle visione eurocentriche, numerose informazioni etnografiche dalle relazioni dei viaggiatori; per esempio, uno stereotipo da sfatare è la nozione che le società africane fossero organizzate in tribù, mentre è noto che questo termine deriva dalla terminologia dell‟organizzazione sociale romana. Gli Europei lo impiegarono secondo una prospettiva nazionale per identificare un gruppo di persone unite da un'unica discendenza e caratterizzate da una storia comune.

Per quanto riguarda l‟Angola, gli amministratori e gli antropologi coloniali portoghesi applicarono il modello tribale alle etnie angolane con finalità ideologiche funzionali al servizio dell‟amministrazione coloniale.

Alla fine del XVIII secolo, in epoca illuministica, gli argomenti che dominavano la scena culturale francese furono la lotta contro la schiavitù, la critica rivolta al potere assolutistico del sovrano e l‟elaborazione della concezione positiva sul “selvaggio” purgata quindi dall‟ingiurioso disprezzo denunciato da Louis-François Jauffret nelle Memoires de la Société des Observateurs

de l‟homme. La civilisation française era il punto di riferimento per l‟approccio degli studiosi

alle “culture altre” e allo stile di vita delle popolazioni extraeuropee considerate come felici e quindi “selvaggi buoni” in quanto rimasti allo stato di natura considerata madre benigna e non

“matrigna” ostile.

«In questi termini lo statuto del discorso sul “selvaggio” restava nettamente subordinato a quello del discorso sull‟uomo “civilizzato”» (Fabietti, 1979, p. 2).

Lo scopo era quello di osservare l‟uomo nella sua variabilità fisica, linguistica, geografica e sociale attraverso le griglie interpretative del metodo comparativo. In tale contesto gli antropologi illuministi elaborarono la figura del “buon selvaggio”, cioè un modello di virtù naturali per contrastare la dilagante corruzione degli Europei.

«A l‟inverse, humanistes et libertins voient dans ces peuples qui vivent sans lois, sans rois,

sans prêtres, sans tien ni mien, et qui sont heureux et vertueux, la preuve de la supériorité d‟une morale naturelle, fondée en instinct et en raison. Des premiers récits de voyages, certains s‟etaient empressés de conclure à l‟existence de peuples athées» (Duchet, 1995, p.

10).

Come risposta gli etnologi svolsero un‟indagine sistematica sui costumi e le credenze dei “selvaggi” e dimostrarono che sotto un‟apparente diversità esistevano dei principi comuni che manifestavano la presenza nascosta del divino. In realtà la vita concreta delle popolazioni cosiddette “selvagge” non interessava; venivano individuate le elaborazioni mitiche di quelle popolazioni per presentarle come testimonianze per comprovare:

«Les rêves d‟un Eden primitif ou d‟un Age d‟or situé aux origines de l‟humanité reprennent

chair et vie en abordant des terres nouvelles» (ibid.).

L‟approccio al mondo “selvaggio” fu impedito da un‟insieme di negazioni combinate a seconda del modello costruito da una particolare concezione antropologica:

«peuples sans histoire, sans écriture, sans religion, sans moeurs, sans police» (Duchet, 1995, p. 11).

Coloro che esaltavano la bontà dell‟uomo “selvaggio” non ignoravano che costui conduceva una vita hasardeuse et pénible che, per questo motivo, sarebbe potuto essere malvagio e crudele. Coloro che invece esaltavano la civiltà consideravano le popolazioni cosiddette “primitive” ancora immerse nella miseria sociale e culturale.

«De la misère de l‟homme civil à la barbarie des civilisés, de l‟incertitude de la vie sauvage

au bonheur de l‟homme naturel, toute une thématique de l‟état sauvage témoigne d‟une vision ambiguë, où affleure la perception d‟une réalité contradictoire» (Duchet, 1995, p.

11).

Nella seconda metà del 1700 la tratta degli schiavi entrò in crisi e si manifestò l‟urgenza di adottare altre soluzioni che potessero incentivare

«la culture du sucre établie chez les nègres et par eux-mêmes dans leur pays» (ivi, p. 47).

I primi esploratori osservarono la ricchezza delle risorse africane e si proposero di rimpiazzare

l‟Afrique désolée, languissante, barbare con un‟Africa heureuse, active et civilisée (ibid.). Gli

Africani furono assolti dal peccato della barbarie e divennero i protagonisti di una visione idillica dove il paradiso della civiltà fu finalmente accessibile anche a loro. L‟interesse economico che considerava gli schiavi come beni da commerciare fu spostato sulle risorse naturali quali

«il s‟agissait pour la France de “mettre dans sa disposition des richesses aussi abondantes

que celles du Perou et du Bresil, qui n‟auraient l‟inconvénient d‟être achetées ni par l‟esclavage des nations qui les possèdent, ni par l‟affaiblissement de la métropole”» (ivi, p.

50).

Nella seconda metà del secolo XVIII la Francia cacciata dal Canada e minacciata nelle Antille organizzò la Mission françoise con l‟intento di rafforzare la sua politica espansionistica in Congo e in Abissinia e costituire un impero africano. Nella prefettura del Congo i missionari portoghesi furono sostituiti dai sacerdoti francesi con l‟Abbé Belgarde e nel 1766 il prefetto era l‟Abbé Lievin-Bonaventure Proyart autore dell‟Histoire de Loango.

Da notare che gli ultimi tentativi per evangelizzare il Congo furono messi in atto tra il 1778 e il 1781:

«But native hostility had been increasing, and the missionaries – Italian, French, and

Portuguese – withdrew completely from this region» (Johnston, 1908, p. 74).

Nel 1772 fu formata una nuova missione composta da sei sacerdoti accompagnati da un gruppo di laici che fondarono la colonia del Congo. L‟Abbé Proyart fece parte di questa spedizione e ritornato in Francia pubblicò l‟Histoire de Loango che ebbe un grande successo.

«le tableau d‟ensemble n‟a plus rien qui puisse décourager les tentatives de colonisation:

l‟Afrique maudite des trafiquants d‟esclaves commence à exercer sur les esprits une fascination réservée jusqu‟alors au Perou er au Bresil. Cette “région qui contient tant de trésors” doit être terre de colonisation» (Duquet, 1971, p. 50).

Nel 1800 a Parigi fu pubblicato il suo libro: Louis XVI détrôné avant d'être roi, ou Tableau des

causes nécessitantes de la Révolution françoise et de l'ébranlement de tous les trônes. Ma a

causa delle affermazioni contenute l‟Abbé Lievin-Bonaventure Proyart fu condannato come reazionario e gettato in prigione a Parigi dove morì nel 1808.

Nell‟Histoire de Loango l‟Abbé Proyart non si limitò a descrivere quello che colse di persona nella sua permanenza a Cabinda ma si rifece all‟Histoire Generale des Voyages una delle opere più in voga a quel tempo, scritta da Rousselot de Surgy e modificata dopo da edizioni inglesi e olandesi.

«Il a inséré dans sa collection différents relations de ce qui se passe chez eux: mais après en

avoir faite la lecture, on pourroit demander si ceux qui les ont composées ont jamais été dans le pays? (...) ils nous ont donné, sans doute contre leur intention, des portraits d‟imagination, pour de faits indubitables» (Proyart, 1776, p. 58).

Proyart ironizza sul fatto che in quest‟opera non si faccia

«aucune mention des langues que l‟on parle dans les différents pays dont on nous peint les

moeurs & les usages: & si les Auteurs ne mettoient de temps en temps à la bouche des habitants de ces régions lointaines, quelques mots dont ils donnent la traduction, on seroit tenté de croire qu‟ils n‟ont voyagé que parmi des Peuples de Muets» (ivi, p. 171).

Citerà più avanti un‟altra enciclopedia l‟Histoire Générale de l‟Asie, de l‟Afrique, & de

l‟Amerique per criticare l‟autore mal informé (ivi, p. 110), e per prendere le distanze da plusieurs Auteurs, qui en ce point, comme en une infinité d‟autres, ne font que copier les erreurs les uns les autres (ivi, p. 128).

Scritta in un periodo in cui l‟opinione pubblica denunciava le ingiustizie della tratta, l‟Histoire

de Loango prese le difese delle popolazioni bakongo considerate

«dissolus dans leur moeurs que perfides & inhumains dans le commerce de la vie; &, sans

qu‟ils ayent été entendus sur des chefs si graves, on leur fait le procès (...). Des gens qui n‟ont jamais considéré leur pays que du haut de l‟Observatoire les excommunient» (ivi, p.

3).

I missionari che lasciarono la loro patria per recarsi tra i Bakongo si prefissero lo scopo de les

rendre meilleurs (ivi, p. 5), ma i loro propositi non si realizzarono a causa della cultura e della

lingua kikongo che non conoscevano, infatti, come osserva l‟Abbé Proyart:

«Comme ils ignoroient la langue du pays, à leur arrivée, ils eurent le loisir d‟être

observateurs, avant de pouvoir être Missionaires (...) un pays inconnu & dont il ignore la langue, ne peut prendre qu‟une connoissance bien superficielle des peuples qui l‟habitent»

(ivi, pp. 5. 59).

Nella seconda parte dell‟opera, dedicata alla descrizione dell‟attività missionaria, l‟autore riporta un discorso proferito prima di morire, dal signor Chatelain, della Mission Française che dimostra quanta attenzione ponevano i missionari nello studio del kikongo:

«il faut bien attendre notre guérison (...) & étudier la Langue du pays avant de la parler au

Peuple. Vous ne sauriez imaginer combien nous avons découvert de nouveaux mots, de nouveaux tour de phrases, de nouvelles beautés dans la Langue. Nous avons été obligés de refondre notre Dictionnaire, après avoir rempli un espace considérable que nous avions laissé en blanc à chaque Lettre (...). Il n‟est pas croyable qu‟un Peuple si simple que le nôtre, & si borné dans ses connoissances, ait porté la Langue à un si haut degré de perfection» (ivi, pp. 358-359).

L‟Abbé Proyart stabilisce dei raffronti tra il kikongo, il greco e l‟ebraico, dedica il capitolo XIX della sua opera alla lingua kikongo e dimostrando una sensibilità particolare per la linguistica. Dal titolo della relazione si può cogliere come egli restringa il campo di osservazione alla regione del regno del Congo situata più a Nord e che corrisponde all‟attuale enclave di Cabinda, nella descrizione abbonda in osservazioni quali:

«Les Negres ne savent pas (p. 11). (...) Les Negres ne conoissent point (p. 12. 46). (...) Tous

les Negres (...) se contentent (pp. 13-14). (...) Les Negres ne pensent point (p. 28). (...) Les Negres laissent aussi perdre (p. 29). (...) Les Negres ne le domptent pas» (p. 38). (...) Les Negres les dénichent» (Proyart, 1776, p. 46).

si tratta di espressioni formulate al negativo che potrebbero sottintendere una visione etnocentrica di disprezzo anche se poi Lievin-Bonaventure Proyart afferma:

«nous nous sentons portés, comme naturellement, à mépriser des peuples si simples & si

pauvres: mais si apprenant eux même que nous sommes les laborieux artisans de mille besoins qu‟ils n‟éprouverent jamais (...) ils nous rendoient mépris pour mépris» (ivi, pp. 78).

Per conoscere la realtà culturale dei Bakongo egli si basa sul punto di vista espresso dai missionari che a loro volta davano delle popolazioni giudizi negativi:

«Les Missionaires en ont examiné (p. 37). (...) Les Missionaires ont observé (p. 38). (...) les

Missionaires furent un jour témoins (p. 42) (...) Les Missionaires n‟ont pas été témoins (p.

44). (...) on raconta aux Missionaires» (ivi, p. 48).

Considera perciò le loro osservazioni più attendibili di quelle elaborate a tavolino dagli studiosi che non hanno avuto la percezione diretta della realtà.

Nell‟Histoire de Loango l‟Abbé Proyart analizza l‟organizzazione sociale dei Bakongo e ne deduce che:

«ils offrent l‟image plus sensible de l‟origine des sociétés. Ce sont moins les besoins

réciproques qui les rapprochent, que les liens du sang qui les empêchent de se séparer. Les familles ne se dispersent pas comme parmi nous» (ivi, p. 52).

A questo riguardo è possibile sostenere, tenendo conto del periodo storico in cui si colloca dire, che l‟opera dell‟Abbé Proyart stabilisce il passaggio tra l‟ingenua posizione di chi è portato a giudicare gli avvenimenti e situazioni in modo inadeguato perché condizionato da presupposti etnocentrici e chi invece si pone il problema di un metodo che per certi aspetti avesse cura delle attenzioni in seguito proposte dall‟antropologia scientifica:

«Si le hasard veut que plusieurs jours de suite il soit témoin de quelques traits de crauté et de perfidie, il les représentera comme cruels & perfides. S‟il eût pris une autre route, témoin de quelques actes des vertus contraires, il eût fait l‟éloge de leur amour pour la droiture & l‟humanité» (ivi, p. 59).

Per l‟autore dell‟Histoire si tratta di avere un approccio con la cultura bakongo condotto non a tavolino ma attraverso l‟osservazione diretta sul campo: Pour asseoir un jugement sûr, il faut

Documenti correlati