• Non ci sono risultati.

Antropologia pragmatica e filosofia morale: una scelta interpretativa

Capitolo 3. L’Antropologia: l’uomo tra libertà e natura

3.1 Il pragmatico: modalità dell’antropologia kantiana

3.1.1 Antropologia pragmatica e filosofia morale: una scelta interpretativa

Prima di indagare più nel dettaglio i contenuti corrispondenti a questa triplice scansione, sarà opportuno però affrontare ancora una questione preliminare, che costituisce un terreno di confronto particolarmente aspro nell’ambito della Kant–Forschung.8 Se nel capitolo precedente è già stato segnalato, da un punto di vista epistemologico–formale, lo statuto empirico dell’antropologia, non è stata invece ancora chiarita, da un punto di vista più strettamente contenutistico, la sua appartenenza disciplinare. Detto in altri termini: posto che l’antropologia kantiana si configura come una disciplina empirica, come può ulteriormente determinarsi? E’ lecito definirla come il correlato empirico della filosofia morale – come sostenuto, per altro, da un numero piuttosto consistente di interpreti – oppure è piuttosto nell’alveo della filosofia teoretica che essa trova la sua più rigorosa sistemazione?9 La domanda è tutt’altro che banale, poiché, in assenza di una esplicita dichiarazione da parte di Kant, l’interprete ha a disposizione materiali solo difficilmente ricomponibili in un assetto congruo ed unitario. Sarà opportuno, ora, prenderne brevemente visione, per tracciare con più esattezza i termini della questione.

Chi argomenta a favore dell’inerenza dell’antropologia pragmatica alla filosofia pratica, si appella primariamente a due dichiarazioni di Kant, tratte

8

L’excursus che segue non avanza certo la pretesa di risolvere esaustivamente la questione, la cui ampiezza e spinosità richiederebbero una trattazione ben più approfondita. Si è tuttavia scelto di introdurla per non tacere una questione interpretativa che si dimostra coessenziale a quella della collocazione sistematica dell’antropologia. Si auspica, ad ogni modo, che la presente esposizione risulti almeno sufficiente a sensibilizzare il lettore intorno alla portata del problema.

9

Il riferimento classico, per ciò che concerne il primo tipo di impostazione, è al dettato esegetico di N. Hinske (Kants Idee der Anthropologie, cit.), al quale si richiama esplicitamente l’altrettanto

rispettivamente dalle pagine introduttive alla Grundlegung zur Metaphysik der Sitten e alla Metaphysik der Sitten. Nella Prefazione alla prima Kant scrive:

ogni filosofia, in quanto si fonda sui principi della esperienza, si può chiamare filosofia empirica; laddove quella che presenta le sue dottrine traendole da principi a priori può chiamarsi filosofia

pura. Quest’ultima, se è soltanto formale, si chiama logica; se

poi è limitata a determinati oggetti dell’intelletto, si chiama

metafisica.

Nasce così l’idea di una duplice metafisica, metafisica della

natura e metafisica dei costumi. La fisica avrà dunque la sua

parte empirica, ma ne ha anche una razionale; così pure l’etica, sebbene qui la parte empirica potrebbe dirsi specialmente

antropologia pratica, e quella razionale poi propriamente morale.10

Dodici anni dopo, nella Prefazione alla Metaphysik der Sitten, Kant torna a confrontarsi con il problema delle suddivisione disciplinare della filosofia. Al delicato problema del rapporto tra metafisica dei costumi ed antropologia viene riservata un’attenzione particolare:

come però in una metafisica della natura ci debbono pur essere delle regole secondo le quali si applicano agli oggetti dell’esperienza i principi primi e universali della natura in generale, così anche una metafisica dei costumi non può far a meno di regole di questo genere; e noi dovremo sovente prendere ad oggetto la natura specifica dell’uomo, che si conosce soltanto attraverso l’esperienza, per mostrare in essa le conseguenze dei principi morali universali, senza che perciò la purezza di questi ultimi ne risenta qualche danno e possa essere messa in dubbio la loro origine a priori. In altri termini: non si può fondare la metafisica dei costumi sull’antropologia, ma si può ad essa applicarla.11

10

Cf. GMS, pag. 388 (44). L’uso del termine “antropologia pratica” è riscontrabile anche nella lezione kantiana di Enciclopedia filosofica. Cf. I. Kant, Philosophische Enzyklopädie, cit., pag. 12 (117).

11

Cf. I. Kant, Die Metaphysik der Sitten, in KGS, VI, 203–493, trad. it. La metafisica dei costumi, a cura di G. Vidari, Laterza, Roma–Bari: 1983, qui pag. 217 (18).

Opposta alla metafisica dei costumi, quale membro della suddivisione della filosofia pratica in generale, sorge dunque l’antropologia morale,

che però potrebbe indicare soltanto le condizioni soggettive della natura umana favorevoli o contrarie all’adempimento delle leggi della metafisica, per esempio i mezzi di produrre, diffondere e rinforzare i principi fondamentali morali (mediante l’educazione, l’insegnamento scolastico e popolare), e altre simili prescrizioni e dottrine che si fondano sull’esperienza.12

Come già illustrato, diversi interpreti hanno individuato nell’antropologia pragmatica proprio quel pendant empirico della filosofia morale, di cui le formulazioni appena ricordate hanno tracciato sommariamente il profilo.13 Tale proposta esegetica, pur contando su una discreta linearità, si scontra tuttavia con una serie di difficoltà non trascurabili. Anzitutto dev’essere preso in considerazione un incontestabile scarto terminologico: non solo in nessuno dei luoghi citati, ma nemmeno in altre opere a stampa, ad eccezione dell’Anthropologie stessa, il riferimento è ad una antropologia che si caratterizzi come pragmatica; allo stesso modo può essere rilevata l’assenza, nella Anthropologie, dei termini “categorico”, “imperativo” o “autonomia”. Tale annotazione linguistica, all’apparenza banale,

12

Ibidem. L’uso del termine “antropologia morale” si riscontra anche nella trascrizione Mrongovius (risalente al semestre invernale 1784–85) delle lezioni kantiane di filosofia morale: “la metafisica dei costumi o metafisica pura è solo la prima parte della morale – la seconda parte della morale è

philosophia moralis applicata, antropologia morale, alla quale appartengono i principi empirici.

[…] L’antropologia morale è la morale applicata all’uomo. […] La particolare conformazione dell’uomo, e le leggi, che su di essa sono fondate, compaiono nella antropologia morale, sotto il nome di etica” (cf. Moral Mrongovius II, in Kleinere Vorlesungen und Ergänzungen I, hrsg. von G. Lehmann, in KGS, XXIX.1, 595–642; qui pag. 599). La contemporanea trascrizione Collins, in relazione all’oggetto dell’antropologia, si pronuncia in questo modo: “l’antropologia si occupa solo delle regole soggettive pratiche, osserva unicamente l’effettivo agire degli uomini; la filosofia morale cerca di sussumere sotto regole il loro buon comportamento, cioè ciò che deve succedere. […] L’antropologia è una scienza (Wissenschaft) delle leggi soggettive del libero arbitrio.” (cf.

Moralphilosophie Collins, in Vorlesungen über Moralphilosophie, hrsg. von G. Lehmann, in KGS,

XXVII.1, pp. 237–473; qui 244–245).

13

Nella concisione di una nota a piè di pagina, Martinelli osserva come l’indicazione di una antropologia, intesa come il correlato empirico della filosofia pratica, sia riscontrabile unicamente nei trattati morali, dove risponderebbe alla funzione euristica di mettere in risalto il procedere

costituisce una prima indicazione della refrattarietà, da parte dell’antropologia pragmatica, ad un inserimento sistematico nella filosofia kantiana.14

E’ l’appartenere dell’antropologia kantiana alle distinte sfere del reale e dell’ideale – come la formulazione canonica del suo progetto, analizzata nel precedente paragrafo, ha messo in luce – a rendere l’individuazione del suo assetto disciplinare particolarmente spinosa. Nel momento in cui essa riproduce più o meno fotograficamente ciò che l’uomo fa, essa si attesta nell’ambito di quella realtà effettiva (Wirklichkeit) che è prerogativa unicamente della filosofia teoretica. Nella Logik, infatti, Kant enuncia a chiare lettere:

le conoscenze teoretiche […] sono quelle che enunciano non ciò che deve essere, ma ciò che è.15

Attenendosi alla precedente dichiarazione di Kant, si potrà dedurre come solo difficilmente un’antropologia, che si occupi di portare alla luce quella realtà umana effettiva, accessibile all’esperienza, potrà definirsi “pratica”. Non è solo incaricandosi della fedele ritrascrizione del reale, tuttavia, che la prospettiva antropologica dimostra il proprio scarto rispetto ad una trattazione genuinamente morale. Un’altra indicazione, in questa direzione, viene fornita dalla Kritik der Urtheilskraft. Il passaggio, piuttosto denso, merita di essere letto nella sua interezza:

14

Cf. R. Brandt, W. Stark, Einleitung, cit., pag. XLVII. Gli autori sentenziano esplicitamente: “qui si mostra nuovamente come l’antropologia pragmatica non sia integrata sistematicamente nella filosofia di Kant”. Secondo gli interpreti dev’essere accordata alla disciplina kantiana una veste scientifica e sistematica; tuttavia non può essere riscontrato il tentativo, da parte di Kant, di legittimarne il titolo nella cornice della filosofia critica – ciò che, invece, sarebbe documentabile nel caso della fisica, le cui istanze di giustificazione sul piano scientifico porterebbero alle riflessioni dell’Opus Postumum.

In un'altra riflessione sullo stesso tema, Brandt aveva già sostenuto l’illegittimità di identificare l’antropologia pragmatica con l’antropologia pratica (intesa come complemento della filosofia pura). La prima, infatti, pur entrando in contatto con diversi ambiti della filosofia kantiana nel suo complesso, si presenterebbe come del tutto “autarchica nella sua fondazione psicologico–materiale, nella sua finalità pragmatica e nel suo sguardo sul fine (das Wozu) dell’agire mondano immanente ”. Cf. R. Brandt, Erfahrung und Urteilskraft, cit., pag. 32.

15

tutte le regole tecnico–pratiche (cioè quelle dell’arte [Kunst] e dell’abilità [Geschicklichkeit] in generale, ed anche della

prudenza [Klugheit], in quanto attitudine ad avere influenza sugli

uomini e sulla loro volontà), in quanto i loro principii riposano su concetti, debbono essere annoverate soltanto tra i corollari della

filosofia teoretica. Perché esse riguardano solo la possibilità delle

cose secondo concetti della natura, quali sono non soltanto i mezzi reperibili a tal fine nella natura, quali sono non soltanto i mezzi reperibili a tal fine nella natura, ma anche la volontà (come facoltà di desiderare, e quindi come facoltà naturale), in quanto può essere determinata in modo conforme a quelle regole da motivi naturali. Pure tali regole pratiche non si chiamano leggi (come le leggi fisiche), ma soltanto precetti; e ciò perché la volontà non sta solamente sotto il concetto della natura, ma anche sotto quello della libertà, in rapporto a cui i suoi principi si chiamano leggi, e, insieme con le loro conseguenze, costituiscono essi soli la seconda parte della filosofia, cioè la pratica.16

Il lettore dell’Anthropologie non potrà non riconoscere, dietro a queste asserzioni, l’eco di tante dichiarazioni programmatiche, con le quali Kant avrebbe determinato contenuti e metodo della propria disciplina. E’ proprio nell’individuazione delle regole tecnico–pratiche della Geschicklichkeit e della Klugheit che l’antropologia kantiana – specialmente nelle sue trascrizioni più datate – trova la propria ragion d’essere.17 In questo senso, i suoi contenuti non possono che proporsi come “corollari della filosofia teoretica”, senza pretendere di assumere una valenza genuinamente morale – almeno nell’accezione più stretta del suo significato. Dimensione applicativa e dimensione autenticamente pratica, detto in altri termini, sono tutt’altro che coincidenti. A conferma di questo, poche righe

16

Cf. KU, pag. 172 (13–14); corsivo mio. Si veda anche quanto specificato nella EE [pag. 196 (66)]: “le proposizioni pratiche sono […] quelle che considerano la libertà sotto leggi. Tutte le restanti non sono altro che la teoria di ciò che appartiene alla natura delle cose, la quale viene applicata solo secondo il modo in cui queste cose possono essere prodotte da noi in base ad un principio: non costituiscono, cioè, che la possibilità delle cose rappresentata da un’azione arbitraria (che appartiene nondimeno alle cause naturali)” .

17

In questo senso, l’antropologia kantiana può dirsi finalizzata alla promozione di quelle che, come si vedrà dettagliatamente nel prosieguo dell’analisi, possono essere considerate le specifiche

disposizioni dell’uomo. E’ possibile tracciare, infatti, una corrispondenza piuttosto lineare tra Geschichklichkeit e attitudine tecnica da una parte, e tra Klugheit e attitudine pragmatica dall’altra.

più avanti si legge come “l’arte del condursi in società [die Kunst des Umganges], i precetti della dietetica, […] la dottrina generale della felicità e l’arte di frenare le inclinazioni e reprimere gli affetti in vista della felicità stessa” debbano essere sottratti alla giurisdizione della filosofia pratica:18 non si opera certo una forzatura nel riconoscere, negli ambiti appena richiamati, proprio quegli oggetti che, a pieno titolo, appartengono all’indagine antropologica.

Le riflessioni sviluppate sinora dovrebbero essere riuscite a suscitare almeno qualche perplessità intorno a quella proposta interpretativa che asserisce l’appartenenza dell’antropologia kantiana, senza alcun margine di scarto, alla filosofia pratica.19 Ciò, tuttavia, non deve portare a tracciare una conclusione sbilanciata nella direzione opposta. Nel corso dell’analisi, infatti, risulterà chiaro come l’antropologia pragmatica conservi un rapporto del tutto privilegiato con la filosofia pratica: il comportamento accorto (klug), che la prima prescrive, deve rivelarsi, se non identico, almeno compatibile con l’agire morale.20 Se in alcune trascrizioni delle lezioni, infatti, è riscontrabile la tendenza a circoscrivere la portata concettuale del pragmatico alla mera dottrina della prudenza (Klugheitslehre), in altre, invece, è esplicitata più chiaramente la connessione fra la Klugheit e il bene morale.21 Il capitolo precedente, d’altronde, ha messo in luce

18

Ivi, pag. 173 (15).

19

E’ da valutare, inoltre, l’opportunità di una tale proposta interpretativa in relazione all’equilibrio interno al sistema kantiano. Chi ascrive all’antropologia pragmatica lo statuto di correlato empirico della filosofia morale, infatti, finisce per condannarla ad appendice del tutto trascurabile. In questo senso, la riflessione di Marquard è esemplificativa: data la piega pragmatica – e non fisiologica – dell’antropologia kantiana, le sue competenze finirebbero per entrare in concorrenza con la filosofia pratica, ovvero l’etica – e con quella che l’interprete individua come la sua figura concreta, la filosofia della storia. In questo modo, Kant avrebbe reso superflua l’antropologia, ridotta a “seconda e meno importante occupazione dello stesso ambito” (O. Marquard, Anthropologie, cit., pag. 366). Misconoscendo la peculiarità della collocazione dell’antropologia (che, secondo l’ipotesi avanzata in questo paragrafo, non è riducibile a mero pendant empirico della filosofia morale) si finisce, altresì, per delegittimarne il ruolo all’interno del corpus kantiano.

20

Cf. R. Brandt, W. Stark, Einleitung, cit., pp. XLVII–XLVIII.

21

Gli autori riportano, a questo proposito, esempi testuali particolarmente pregnanti. La decisa emancipazione dell’indagine antropologica da riflessioni di tipo morale sembrerebbe essere attestata da dichiarazioni come la seguente, estratta dalla Anthropologie–Busolt: “nulla è immediatamente buono, ad eccezione di una volontà in se stessa buona; ciò si fonda sulla moralità, ed essa non appartiene a questo contesto. Noi consideriamo qui solo il meramente antropologico”(cf. VA, XXV.2, pag. 113). La permeabilità del pragmatico alla riflessione morale è, tuttavia, altrettanto riscontrabile; la stessa triplice scansione del programma antropologico, ormai più volte citata, prevede l’esplicito riferimento alla dimensione morale del “dovere”. Sarà messo in luce nel

come, pur potendo essere diretta a fini arbitrari ed accidentali, la conoscenza empirica dell’uomo possa altresì essere messa in relazione (e, nella prospettiva kantiana, è auspicabile che lo faccia) con i “fini dell’umanità necessari ed essenziali”: fini che solo la purezza dell’indagine morale è legittimata a svelare. L’antropologia kantiana, prendendo le mosse dall’esperienza, non è in grado di sviluppare autonomamente la definizione della Bestimmung dell’uomo – nella quale tuttavia identifica, come si vedrà, il punto di fuga delle sue considerazioni. Proprio per questa ragione, all’antropologia non resta che prenderlo a prestito dalla filosofia morale: come si avrà modo di sottolineare, quest’ultima indica a priori il compito pratico assegnato alla nostra specie, mentre l’indagine più autenticamente antropologica individua, fra le contraddizioni dell’empiria, l’accidentato percorso del suo raggiungimento.

L’antropologia pragmatica kantiana, in conclusione, trova la sua collocazione disciplinare in un ganglio del tutto particolare, sospeso tra il “reale” disponibile all’osservazione teoretica e il “dovere” dispiegato dalla riflessione morale: ben lungi dall’assumere su di sé il ruolo meramente ancillare di correlato empirico della filosofia pratica, si ritaglia un ambito di indagine autonomo – complanare all’esperienza, ma allo stesso tempo permeabile alle sollecitazioni dell’ideale.

3.2 Il carattere: la cifra del pragmatismo kantiano

Le considerazioni svolte sino a qui hanno evidenziato la peculiarità dell’indagine antropologica, che, refrattaria all’identificarsi con la sola dimensione dell’effettività, della possibilità o del dovere, trova il suo oggetto filosofico primario proprio nella modalità della loro interazione. E’ necessario, a questa