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L’antropologia trascendentale: un’ambiguità terminologica

Capitolo 5. Riflessioni conclusive

5.1 L’antropologia trascendentale: un’ambiguità terminologica

Nell’apprestarsi a fornire una valutazione relativa alle indicazioni interpretative sopra citate, può essere utile prendere le mosse da una puntualizzazione terminologica. La corretta impostazione di una problematica, infatti, passa anzitutto attraverso l’adeguatezza dei termini nei quali si sceglie di condurla. Da misure poco accorte, in questo senso, possono scaturire ambiguità che rischiano di precludere l’efficace risoluzione della questione.

Prima di procedere in questa direzione, sarà necessario trarre alcuni punti fermi dall’analisi condotta in precedenza. Essa dovrebbe essere riuscita ad

individuare le specifiche esigenze cui Kant, con lo sviluppo della propria antropologia, andava rispondendo. Che tali esigenze fossero ben presenti alla sua attenzione, lo dimostra incontestabilmente il suo stesso itinerario (ripercorso, quanto meno nelle sue coordinate generali, nel secondo capitolo di questa ricerca). L’antropologia kantiana non è una disciplina improvvisata – volta a colmare, con noncuranza metodologica e terminologica, un vuoto disciplinare qualsiasi. Non è nemmeno il mero abbozzo preparatorio di una disciplina in desideratis. Essa, ben diversamente, è il consapevole punto di approdo di un preciso percorso – che porta Kant, sulla scorta del consolidantesi criticismo, a riconoscere non solo l’estraneità al sapere metafisico della psicologia empirica, ma anche l’irrealizzabilità di un progetto disciplinare che compendi l’indagine sull’uomo nell’individuazione della sua struttura psichica. L’antropologia sorge sin da subito al di fuori del sistema scolastico della metafisica, per proporsi sì come il legittimo raccoglitore di quanto lasciato in eredità dalla psicologia empirica, ma anche – e soprattutto – come l’efficace catalizzatore di quella costellazione in espansione di saperi empirici sull’uomo, riluttanti ad una sistemazione nelle rigide tassonomie scolastiche della psicologia. Questo insieme di conoscenze, infatti, disancorato dal riferimento a qualsiasi istanza metafisica, necessitava con urgenza di compendiarsi in una forma originale, adatta a rispondere positivamente a tutti gli stimoli che una pluralità eterogenea di fonti era in grado di fornire. Per dare forma sistematica a quello che altrimenti si sarebbe irretito in un mero aggregato di conoscenze, Kant aveva dunque bisogno di un collettore che risultasse privo di compromessi con la precedente tradizione metafisica: le rinnovate conoscenze empiriche sull’uomo non potevano prendere forma secondo una scansione “psicologica”, ma richiedevano una curvatura del tutto inedita. L’assegnazione della qualificazione di “antropologia” a tale complesso disciplinare, di recente costituzione, si profilava come un’operazione tutt’altro che casuale da parte di Kant. Questo termine, infatti, si presentava libero da quelle implicazioni metafisiche che, al contrario, alla denominazione di “psicologia empirica” erano intrinsecamente connaturate. Il termine “antropologia” rievocava la scottante attualità di un crescente bisogno: quello di un sapere sull’uomo che, spogliatosi dalle pretese essenzialistiche di

definirne la natura psichica, fosse piuttosto in grado di determinarlo nelle sue concrete configurazioni naturali e storiche.

Il terminus “antropologia” assume dunque, nell’orizzonte terminologico kantiano, una specifica valenza, che rinvia ad una scelta metodologica di taglio squisitamente empirico ed antimetafisico. L’antropologia dichiara l’irriducibilità delle dimensioni dell’uomo alla sola psichica (il cui isolamento, rispetto alla complessa articolazione psico–fisica umana, risulta peraltro un’operazione teoreticamente impraticabile) e cerca piuttosto di cogliere l’inesauribile varietà che l’esperienza (anzitutto esterna) ci fornisce. Il legame con la ricchezza dell’empiria – insieme alla declinazione di ogni pretesa aprioristica – contraddistingue dunque il costituirsi disciplinare dell’antropologia kantiana sin dai suoi esordi. Essa si muove in direzione di una pluralità di saperi nuovi, riorganizzandoli sistematicamente in una forma dinamica, lontana dalle rigidità della precedente tradizione accademica.

La rinnovata indagine sull’uomo non mira, dunque, a definirne l’astorica essenza spirituale (privata del proprio legame con la corporeità), ma aspira a riconsegnarne un’immagine quanto più possibile concreta ed unitaria (attraversata al proprio interno tanto dalle tensioni dell’ideale, quanto dai vincoli del naturale). A divenire urgente è il dischiudersi di un nuovo itinerario, che non si dispieghi nell’illibato regno della metafisica, ma si svolga nel ben più accidentato territorio dell’empiria: ad una variazione prospettica di tali dimensioni non può non corrispondere un adeguato ridisegnamento definitorio. Il termine “antropologia”, privo di un precedente retroterra metafisico, si rivela come l’unico sufficientemente elastico da fornire una copertura terminologica alle nuove esigenze contenutistiche.

Correndo il rischio di apparire un po’ ripetitive, le considerazioni sviluppate sino a qui dovrebbero aver reso ormai evidente l’inscindibile e costitutivo riferimento all’empiria che il termine “antropologia” dischiude. Tale constatazione dovrebbe essere preposta – o almeno questo è quanto la presente ricerca suggerisce – ad ogni riflessione sul sistema kantiano, che ponga il proprio focus interpretativo sulla relazione tra antropologia e filosofia pura. Assumendo come premessa quanto sinora enunciato, non sarà difficile rendersi conto della strutturale ambiguità di

che, come s’è visto, alcune voci interne alla Kant–Forschung hanno coniato. Una formulazione del genere traccia una relazione tra due lemmi afferenti ad ambiti conoscitivi che non solo effettivamente sono, ma, nella concezione epistemologica kantiana, devono rimanere nettamente separati. Lo sforzo di Kant – si eserciti esso nella sfera della riflessione teoretica, o piuttosto in quella della filosofia pratica – è sempre diretto al medesimo obiettivo: la depurazione dell’elemento aprioristico da quelle componenti che, invece, sono passibili di una variabilità empirica.

La purezza dell’indagine critico–trascendentale – conformemente alla sua istanza fondativa – non ammette ingerenze a posteriori: ad essere oggetto di trattazione sono solo quelle strutture che si rivelano trasparenti ad un’analisi esclusivamente a priori.1 In termini prettamente kantiani, essa mira alla “radicale esclusione di ogni concetto che contenga in sé qualcosa di empirico”, ovvero alla “completa purezza della conoscenza a priori”.2

L’orizzonte semantico sotteso all’antropologia, invece – anche qualora il rinvio kantiano sia generico, e non specificamente diretto alla disciplina da egli stesso patrocinata – si presenta sempre circoscritto ad un ambito esperienziale.3 Alla luce di quella rigorosa esattezza metodologica, della quale Kant informa il proprio procedere filosofico - e che

1

Il rinvio canonico, per ciò che concerne la definizione di “trascendentale”, è alla concisa formulazione tratta dall’Introduzione alla KrV: “chiamo trascendentale ogni conoscenza che si occupi, in generale, non tanto di oggetti quanto del nostro modo di conoscere gli oggetti nella misura in cui questo deve essere possibile a priori”. Cf. KrV, A(11)/(B)25; pag. 90.

2

Ivi, A(14)/B(28); pag. 92.

3

In linea generale, può essere osservato come Kant, frequentemente, misuri la purezza dell’analisi trascendentale proprio a partire dalla sua alterità rispetto ad un metodo d’indagine empirico. Se è per lo più su un piano anti–psicologistico che, nell’ambito della filosofia teoretica, il metodo trascendentale si colloca, in quello della filosofia pratica, invece, esso si consolida anzitutto nella presa di distanza da un’impostazione “antropologica”. In tali contesti, lo psicologico e l’antropologico assurgono ad indicatori più o meno generici di una metodologia schiettamente empirica, le cui analisi sono destinate a svolgersi su un binario parallelo rispetto a quello percorso dall’indagine trascendentale. Esse, infatti, si attestano primariamente sul piano dell’effettività, ovvero della registrazione di quei processi direttamente disponibili all’esperienza – e non sulle sue condizioni a priori. Sull’antitesi tra trascendentale e psicologico, si veda a titolo esemplificativo:

KrV, B(152), pag. 175; B(829), pag. 605; Brief an J. W. A. Kosmann (September 1789), in Briefwechsel, cit., XI, pp. 81–82 (219–221), KU, pp. 182 (35); 277 (229); 286 (249). Sulla netta

dicotomia tra l’apriorismo della filosofia morale pura e il procedere empirico di una ricerca a carattere antropologico, si rinvia a quanto già menzionato in questa sede nel paragrafo § 3.1.1. Ulteriori rimandi al carattere empirico di una considerazione antropologica sono presenti in KrV, B(VIII), pag. 40; (B) 578, pag. 451; (B) 869, pag. 629; Metaphysik der Sitten, cit., pp. 385 (235); 406 (259); 477 (355); Logik, cit., pag. 17 (11).

dovrebbe guidarne qualsiasi operazione interpretativa - un’espressione come antropologia trascendentale (di cui pure è dato riscontrare un’isolata occorrenza nel corpus kantiano) appare una costruzione terminologica non solo ardita, ma addirittura inopportuna.4 Nella prospettiva difesa in queste pagine, infatti, l’accostamento di due termini, che Kant stesso contrappose frontalmente in più contesti, appare un’operazione del tutto illegittima. Un principio di sobrietà ermeneutica imporrebbe di evitare, per quanto possibile, l’utilizzo di una locuzione contraddittoria all’interno dell’assetto di pensiero di un autore.5

legittimità

4

Lo stesso vale per quelle locuzioni che, in questa sede, assumono una valenza semantica analoga, ovvero antropologia filosofica o antropologia pura.

5

Nel corpus kantiano, come è stato brevemente ricordato, un’espressione come “antropologia trascendentale” compare in un unico caso, ovvero la Reflexion 903 (cf. RA, XV/2.1, pp. 394–395). Trattandosi di un unicum – riscontrato non in un’opera a stampa, ma nel contesto ben più aleatorio di un’annotazione non pubblicata – appare del tutto eccessivo il peso conferitogli da una parte della critica. Se quest’ultima ritiene fornita un’incontrovertibile prova testuale della legittimità dell’espressione, ciò che qui si vuole confutare, invece, è proprio questo: che l’individuazione di una sua isolata occorrenza sia sufficiente a conferirle diritto di cittadinanza nella terminologia kantiana. E’ solo alla luce dei fondamentali parametri di pensiero dell’autore, infatti, che può esserle assicurata – o sottratta – validità.

E’ opportuno, ad ogni modo, entrare nel dettaglio del passaggio in questione. In esso Kant traccia un’interessante similitudine tra una certa tipologia di dotto ed il ciclope. Così viene descritto: “egli è un egoista della scienza, e gli è necessario ancora un occhio, che gli faccia considerare il suo oggetto anche dal punto di vista degli altri uomini. Su questo si fonda l’umanità delle scienze: ciò significa conferire loquacità al giudizio, sottomettendolo al giudizio altrui. Le scienze raziocinanti, che possono essere effettivamente apprese, e che dunque si accrescono sempre, senza che sia necessaria una verifica e una fiscalizzazione di quanto acquisito, si trovano laddove vi sono dei ciclopi. Il secondo occhio è dunque quello della conoscenza di sé in generale. Il secondo occhio è dunque quello dell’ autoconoscenza della ragione umana, senza il quale non possiamo farci alcuna idea [lett.: stima ad occhio] della misura della nostra conoscenza. Quella fornisce il parametro della misurazione. […] Ciò che qui fa il ciclope non è la forza, ma il fatto di avere un unico occhio. Non è nemmeno sufficiente conoscere molte altre scienze, ad eccezione dell’autoconoscenza dell’intelletto e della ragione. Antropologia trascendentale.” Qui di seguito l’originale tedesco: “Er ist ein egoist der Wissenschaft, und es ist ihm noch ein Auge nötig, welches macht, daß er seinen Gegenstand noch aus dem Gesichtspunkte anderer Menschen ansieht. Hierauf gründet sich die humanitaet der Wissenschaften, d.i. die Leutseeligkeit des Urtheils, dadurch man es andrer Urtheil mit unterwirft, zu geben.Die (vernünftelnde) Wissenschaften, die man eigentlich lernen kann, und die also immer anwachsen, ohne dass das erworbene eine Prüfung und fiscalsirung nothig hatte, find es eigentlich, darin es Cyclopen giebt. (…). Das zweite Auge ist also das der Selbsterkentnis überhaupt. Das zweite Auge ist also das der Selbsterkentnis der Menschlichen Vernunft, ohne welches wir kein Augenmaas der Größe unserer Erkentnis haben. Jene giebt die Standlinie der Messung. (…) Nicht die Stärke, sondern das einäunigte macht hier den Cyclop. Es ist auch nicht gnug, viel andre Wissenschaften zu wissen, sondern die Selbsterkentnis des Verstandes und der Vernunft. Antrhopologia transcendentalis.”

Che, in questo passaggio, Kant si muova sul livello teorico della filosofia trascendentale, è chiarito da R. Brandt (Kommentar zu Kants Anthropologie in pragmatischer Hinsicht, cit., pag. 17). L’antropologia kantiana, invece, operando nell’ambito dell’esperienza possibile, si pone su un

Nell’ambito della filosofia kantiana non può affatto prendere forma una “antropologia trascendentale”: l’antropologia dischiude infatti per definizione quell’orizzonte disciplinare squisitamente empirico, in cui – come unico sito a ciò legittimamente deputato – può affiorare un’immagine dell’uomo dotata di pluralistica concretezza; un’indagine critico–trascendentale, invece, è diretta a portare alla luce quell’ordine, deprivato da ogni variabilità empirica, che struttura la nostra esperienza – sia essa conoscitiva o pratica.