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Antropopoiesi di eccezione. Politiche e pratiche contro le occupazioni abusive in alloggi ERP

Nei capitoli precedenti, ho ricostruito il fenomeno della perdita della casa nella Milano contemporanea a partire dalla prospettiva degli sfratti. A più riprese, attraverso un’analisi profonda dei differenti ritmi che contribuiscono alla realizzazione degli sloggi, ho sostenuto che questi ricoprono un ruolo centrale in un più ampio spettro socio-economico relativo alla sfera dell’emergenza abitativa e della marginalità urbana. In questo senso, ho dimostrato come il provvedimento di rilascio dell’alloggio sia intimamente connesso a una certa idea di casa, di appartenenza e di responsabilità pubblica. Allo stesso modo, ho messo in evidenza come la costruzione dei margini e dell’esclusione venga costantemente rinegoziata sul campo da tutti i soggetti che intervengono nell’implementazione del processo. Se il tema della negoziazione emerge come spazio-tempo-vissuto quotidiano privilegiato nell’indagine delle specificità etnografiche del caso analizzato, allo stesso tempo questo rappresenta un modello teorico imprescindibile nella comprensione della produzione dei margini in contesti urbani. Ogni margine risulta infatti l’esito articolato di un insieme di retoriche, di valori, di simboli, di politiche e di pratiche che, interagendo, edificano dei centri e delle periferie, non solo spazio-temporali, ma soprattutto socio-culturali. Nel caso studiato, le peculiarità etnografiche convergono verso questa tesi.

Tuttavia, limitare l’esame dell’emergenza abitativa1 nel contesto milanese al fenomeno degli

sfratti significherebbe escludere dalla ricostruzione della produzione locale dei confini della marginalità e della vulnerabilità sociale alcune forme di precarietà domestica che giocano un ruolo fondamentale sul territorio. Questa necessità di allargare il campo d’analisi è emersa dalla ricerca etnografica. Una narrazione particolarmente significativa in questo senso riguarda quanto mi è stato raccontato da Federica de Pretis, funzionario del Comune di Milano, operante all’interno dell’Assessorato alla Sicurezza durante il mandato del Sindaco Pisapia (2011-2016). Invitata da me a inquadrare l’emergenza abitativa nel contesto locale, de Pretis disse:

L’emergenza abitativa ha due fonti: entrambe mettono le persone sulla strada e quindi in emergenza abitativa. Da un lato gli sfratti, dall’altro gli sgomberi. […] Il secondo è legato al fenomeno delle occupazioni, che ha avuto un picco fino a qualche anno fa, adesso l’impressione generale che abbiamo noi è una progressione, ma non a picco, soprattutto di case ERP e

soprattutto in quartieri degradati, con vere e proprie catene migratorie (Federica de Pretis, Intervista 14 giugno 2016).

Ho riscontrato questa percezione della “doppia fonte” dell’emergenza abitativa anche in relazione all’operato del sindacato. L’organizzazione, infatti, ha dimostrato, attraverso la promozione di specifiche attività, di valutare sia il fenomeno degli sfratti che quello degli sgomberi sullo stesso piano in relazione alla produzione locale dell’emergenza. Secondo questa prospettiva, sia gli sfratti che gli sgomberi rappresenterebbero dei sintomi di un più ampio disagio abitativo relativo a un ritmo strutturale, concernente la condizione socio-economica della città, del Paese e dell’intero globo. Da un punto di vista interpretativo, credo che il nesso causale debba essere invertito: infatti, gli sfratti e gli sgomberi non rappresentano delle spie di una nebulosa emergenza, ma le cause della produzione della stessa (cfr. Desmond 2012, 2015, 2016). Entrambi i casi contribuiscono infatti ad allargare i confini della marginalità urbana e a restringere le frontiere del benessere, situando i soggetti che li subiscono in categorie ambigue (sfrattati e sgomberati), dotate dei caratteri dell’eccezionalità extra-giuridica (Agamben 2003) e della “nuda cittadinanza” (Appadurai 2014).

Il caso delle occupazioni e degli sgomberi è particolarmente significativo per comprendere il ritmo della perdita della casa. Infatti, se lo sfratto prevede la privazione di uno spazio domestico a partire da una situazione in cui si risulta legittimamente in possesso di un bene immobile, lo sgombero rappresenta l’esito di una doppia sottrazione. I soggetti sgomberati vengono infatti privati di qualcosa che già era precluso in precedenza: la stabilità abitativa. Non intendo sostenere una passività strutturale degli occupanti rispetto all’accesso all’abitazione. Allo stesso modo, credo sia utile da un punto di vista interpretativo non cadere nella trappola di “un’iper-agentività resistenziale” dei soggetti marginali (cfr. Saillant, Kilani, Bideau, Favole 2012). In questo senso, le persone soggette a sfratto e sgombero con cui ho condotto parte della ricerca hanno dimostrato di non essere né solo vittime di un sistema socio-economico che li esclude né eroi metropolitani che resistono strenuamente (e consapevolmente) alle forme contemporanee di marginalizzazione e precarizzazione

dell’esistenza2. Gli “occupanti” si situano infatti in una posizione trasgressiva, intesa come uno

spazio-tempo-vissuto quotidiano che tenta di negoziare costantemente i limiti della propria collocazione sociale, così come l’immaginario e le retoriche che la riguardano (Cfr. Foucault 2004).

In questo capitolo intendo analizzare il fenomeno delle occupazioni abusive di alloggi ERP sul territorio milanese. Cerco innanzitutto di contestualizzare queste pratiche, ricostruendo

2 Un caso significativo al riguardo è la web serie “Gli eroi delle case popolari”, scritta da Claudio Bernieri e interamente disponibile sulla piattaforma youtube.

alcune retoriche politiche che emergono dall’analisi dei documenti che le regolano. La produzione burocratica si situa in continua tensione tra piano locale, nazionale e internazionale. L’analisi dimostra che queste rappresentazioni contribuiscono a produrre un’immagine stereotipata, moralmente connotata e essenzializzata dell’informalità abitativa – e dei soggetti che idealmente la incorporano – in contesti di proprietà pubblica. In questo senso, non mi limito a riflettere sulle fonti documentali che veicolano questa rappresentazione semplicistica, ma prendo in esame anche le pratiche lavorative di alcuni soggetti che incarnano nella quotidianità professionale il contrasto alle occupazioni. Mi riferisco nello specifico, da un lato, ai gruppi di Tutela Patrimonio e Sicurezza degli enti gestori di case popolari attivi nel contesto milanese e, dall’altro, a figure del terzo settore coinvolte, in qualità di mediatori di conflitto, nella gestione degli sgomberi.

“Un reato molto subdolo”. Il contrasto istituzionale all’abusivismo

Le scienze sociali hanno dedicato una certa attenzione al fenomeno delle occupazioni

abusive. Il tema è stato affrontato da diverse prospettive analitiche3. Da un punto di vista

socio-antropologico le pratiche di squatting4 sono state studiate principalmente in relazione ad

altre tematiche, quali i sistemi di welfare contemporanei (Cattaneo, Martinez 2014; Sqek 2014; Vereni 2015a; Staid 2017), la cittadinanza (Appadurai 2014, Grohamm 2015, Vereni 2015b), le migrazioni (Buillon 2003; Bouillon, Muller 2009; Gonzalez 2011; Rossi 2016; Lotto 2017), la marginalità e l’informalità (Fava 2008; Holston 2008; Bouillon 2011; Portelli 2014, 2017), i movimenti sociali (Graeber 2009; Martinez Lopez 2011, Aguilera, Bouillon 2013; Sqek 2013; Harvey 2013; Van der Steen et al. 2014; Armati 2015), le nozioni di domestico e parentela (Vereni 2012, Starechesky 2017). Questa pluralità non deve essere intesa come una dispersione analitica, ma al contrario come un’articolazione puntuale delle diverse questioni che il tema delle occupazioni abusive apre.

3 Pur consapevole della fluidità delle frontiere disciplinari, per quanto riguarda le ricerche sul fenomeno delle occupazioni abusive in ambito sociologico si veda Adell 2004; Dines 1999; Berzano e Gallini 2000; Ruggiero 2000; Montagna 2006; Martinez Lopez 2007, 2013. Nell’ambito della geografia umana si veda Mudu 2004, 2012, 2104; Harvey 2013. Per quanto riguarda invece la riflessione urbanistica si veda Membretti 2007; Holm e Kuhn 2011; Sebastianelli 2009, 2012; Cognetti e Cellamare 2016. Nell’ambito delle scienze politiche, si veda Prujit 2003, 2004 e Piazza 2016. Di rilievo inoltre la letteratura prodotta dagli stessi soggetti, sia individuali che collettivi, che hanno partecipato in prima persona ad azioni di squatting. In relazione a questi si veda AA.VV. 1996; Bailey 1973, Cox18 2010, Boni e De Finis 2015.

4 Secondo quanto riportato da un dizionario etimologico in lingua inglese: “Squat: mid-14c., ‘to crush’; early 15c., ‘crouch on the heels’, from Old French esquatir, escatir ‘compress, press down, lay flat, crush’; from es- ‘out’ (see ex-) + Old French quatir ‘press down, flatten’, from Vulgar Latin coactire ‘press together, force’, from Latin coactus, past participle of cogere ‘to compel, curdle, collect’ (see cogent). Meaning ‘to settle on land without any title or right’ is from 1800. Squatter (N.): ‘settler who occupies land without legal title’, 1788, agent noun from squat (v.); in reference to paupers or homeless people in uninhabited buildings, it is recorded from 1880.

La categoria “occupazione abusiva” include un’ampia varietà di azioni, rappresentazioni e

retoriche. In questo senso, nel contesto italiano5, si possono distinguere diverse tipologie6 di

squatting. Il principale fattore di differenziazione riguarda lo scopo dell’occupazione, ovvero se

questa sia condotta a fine esclusivamente7 socio-culturale o abitativo. Il caso dei centri sociali

occupati e autogestiti, diffusi in Italia dai primi anni Settanta, si inserisce nel primo tipo identificato (cfr. Mudu 2012, Piazza 2017). Il secondo tipo sembra invece includere diverse esperienze, che possono essere categorizzate più specificatamente. Innanzitutto, l’occupazione a scopo abitativo può essere classificata a seconda della forma di organizzazione della stessa: le

occupazioni possono essere di carattere sia individuale8 sia collettivo. In secondo luogo, le

pratiche di squatting possono essere suddivise a seconda degli spazi di cui si prende possesso (terreni, costruzioni commerciali o edifici a uso abitativo), che possono essere di proprietà privata o pubblica (comunale, regionale, demaniale). Quest’ultimo fattore determina un mutamento contestuale nelle strategie degli occupanti e in quelle delle istituzioni. Infine, un’ulteriore precisazione riguarda le motivazioni che spingono i soggetti a prendere possesso di un bene altrui, che possono essere dettate dalla necessità, dalla volontà e dall’appartenenza politica o dal profitto.

Data questa classificazione, intendo analizzare una peculiare tipologia di occupazioni abusive a scopo abitativo, ovvero quella che prevede l’appropriazione arbitraria (secondo il presupposto del regolamento regionale di assegnazione) di alloggi di Edilizia Residenziale Pubblica, agite nella maggior parte dei casi da famiglie in stato di necessità.

Nello specifico, ricostruisco le retoriche e le politiche relative al tema dell’acquisizione extra legem di case ERP. Tenterò di contestualizzare le politiche in una “narrativa istituzionale” (Shore, Wright 1997) che si articola su più livelli, sia dal punto di vista delle competenze

5 Per un approfondimento del contesto francese si veda Bouillon 2009, del contesto olandese Kadir 2014, di quello spagnolo Cattaneo e Tudela 2014, di quello tedesco Vasuvedan 2014b, di quello inglese Bailey 1973 e Finchett-Maddock 2014, di quello polacco Piotrowsli 2014, di quello austriaco Foltin 2014 e di quello greco Kritidis 2014.

6 Vereni ha proposto una distinzione delle occupazioni abitative presenti sul territorio romano in tre tipi, “sulla base della porta di casa che istituiscono e del tipo di vicinato che sollecitano” (Vereni 2013, pp. 317-320). Vereni identifica innanzitutto i centri sociali, i cui scopi sono principalmente di natura politica. In questi spazi si promuovono attività culturali, strutturate secondo un modello organizzativo teso all’autogestione e all’apertura pubblica. In secondo luogo, Vereni segnala le occupazioni “centrate sulla struttura abitativa”. In questo specifico caso “l’occupazione funziona come un servizio sociale sussidiario” che risponde all’emergenza abitativa locale. L’ultima distinzione proposta riguarda quelle situazioni in cui “nuclei familiari distinti vanno ad occupare un spazio abbandonato, originariamente non progettato a uso abitativo, e che deve essere quindi rifunzionalizzato” (Ibidem).

7 Esistono nel contesto italiano esperienze ibride in cui convergono gli scopi e le funzioni delle occupazioni. I modelli proposti, in questo senso, devono essere intesi come una modellizzazione interpretativa, utile ai fini della mia riflessione e tesa a classificare le diverse forme di occupazioni.

8 Tra le forme di occupazione abusiva a scopo abitativo di carattere individuale considero per esempio le pratiche di squatting di singoli alloggi o spazi di proprietà privata o pubblica da parte di soggetti che non si rappresentano all’interno di una rete sociale più ampia.

territoriali (Municipio, Comune, Provincia, Regione, Nazione) che da quello delle capacità di intervento (normativo, legislativo, esecutivo, pratico-operativo). Mi focalizzo in questo senso principalmente sull’analisi di documenti legislativi, regolamenti attuativi, protocolli d’intesa, scritti programmatici, piani di azione concordata, pamphlet esplicativi e relativi discorsi pubblici in merito. La necessità di questo tipo di analisi è emersa dalla constatazione dell’importanza attribuita dai miei interlocutori a tali materiali, facenti parte di un campo d’azione che precedentemente ho inscritto in un più ampio ritmo burocratico.

Nel contesto milanese, nel giugno 2017 gli alloggi ERP occupati abusivamente risultavano

essere all’incirca 3.500 (2.596 Aler, 980 MM), su un totale di 80.000 unità immobiliari9. Di

questi, al novembre 2014, 9.754 erano vuoti poiché non aventi caratteristiche di abitabilità. Da

un punto di vista legislativo, in Italia l’occupazione abusiva è considerata un reato penale10,

disciplinato dall’art. 633 del Codice Penale:

Chiunque invade11 arbitrariamente terreni12 o edifici altrui, pubblici o privati, al fine di occuparli o di trarne altrimenti profitto, è punito, a querela della persona offesa, con la reclusione fino a due anni o con la multa da centotre euro a milletrentadue euro. Le pene si applicano congiuntamente, e si procede d’ufficio, se il fatto è commesso da più di cinque persone, di cui una almeno palesemente armata, ovvero da più di dieci persone, anche senza armi (Codice Penale, Libro

9 Gli ultimi dati ufficiali reperiti in merito ad Aler risalgono al novembre 2014, mentre riguardo MM risalgono al giugno 2017. Per quanto riguarda invece l’intero patrimonio, gli ultimi dati coerenti risalgono al novembre del 2014 e segnalano 79.742 unità immobiliari. Di queste, 61.134 sono gestite da ALER e il restante da MM. Tuttavia, nel documento programmatico del 2017, MM segnala di essere proprietaria di 27.945. Come si potrà facilmente calcolare, la somma dei due patrimoni supera le 79.742 unità (89.079 unità). Questa incoerenza è determinata dal fatto che non mi è stato possibile reperire i dati aggiornati dell’azienda lombarda, dovendo così riportare per Aler le cifre del 2014.

10 Senza entrare nel merito dell’analisi giuridica dell’articolo, preme sottolineare una questione centrale nell’applicazione della norma, ovvero che la giurisprudenza maggioritaria ha ravvisato il reato di invasione in tutti i casi di occupazione di case, siano queste pubbliche o private, sfitte o disabitate. Nel corso della ricerca etnografica, molti interlocutori, soprattutto membri del sindacato, mi hanno espresso la loro perplessità in relazione all’ampio raggio d’azione giuridica del reato. In generale, il problema maggiore sembrava riguardare non tanto il fatto giuridico in sé, quanto i fattori che condizionano e promuovono l’esecuzione del fatto stesso. Nello specifico, il sindacato e gli occupanti con cui ho lavorato sostenevano che le occupazioni di alloggi ERP fossero la diretta conseguenza di uno stato di necessità, che obbligava i soggetti a compiere tali azioni. Da un punto di vista giuridico, l’art. 54 del codice penale istituisce l’esimente dello stato di necessità, intesa come causa di giustificazione: “Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato né evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al delitto”.

11Il concetto di invasione, come precisato anche dalla giurisprudenza (Cass. 25 settembre - 9 ottobre 2007, n. 37139), non presuppone necessariamente il compimento di atti violenti, sebbene il termine utilizzato nell’articolo veicoli questa percezione. In questo senso, è sufficiente che un soggetto, privo del diritto di accesso, si introduca arbitrariamente in un edificio o in un terreno.

12 “Il delitto d’invasione arbitraria di terreni o edifici altrui, pubblici o privati, al fine di occuparli o di trarne altrimenti profitto, trae le sue origini dall’art. 9 del r. decr. legge 22 aprile 1920 n. 515, portante provvedimenti per le occupazioni e coltivazioni di terreni, trasfuso nell'art. 36 del testo unico per la coltivazione e concessione delle terre. Invadere significa occupare arbitrariamente un luogo, entrarvi senza averne diritto: anche senza violenza o inganno. Dopo la [prima] guerra mondiale, il fenomeno dell’occupazione delle terre e degli edifici, conseguenza delle violente crisi sociali sopravvenute, con riverberi notevoli anche nel campo agricolo ed edilizio, assunse tale importanza e gravità da suggerire al legislatore di punire l’invasione di terreni o altri edifici con la legge speciale sopra citata ora inserita nel codice penale” (Lavori preparatori, V, parte 2ª, Roma 1929, p. 454, in Arangio-Ruiz-Novelli, Enciclopedia Treccani, “Usurpazione della proprietà immobiliare”).

Secondo, Dei delitti in particolare, Titolo XIII – Dei delitti contro il patrimonio [artt. 624-649] – Capo I – Dei delitti contro il patrimonio mediante violenza alle cose o alle persone, 1930).

Anche da un punto di vista sociale, l’occupazione abusiva di alloggi ERP sembra rappresentare un fenomeno interpretato dalle istituzioni e dai cittadini come un atto criminoso, moralmente iniquo ed economicamente dannoso. Secondo questa prospettiva, tale atto lede non solo l’efficacia del servizio pubblico di assegnazione di case popolari, ma anche lo stato di sicurezza dei quartieri in cui queste situazioni si riproducono, oltre a un principio di legalità tout court. In generale, questo discorso dominante sembra riprodursi grazie all’interazione di diversi piani narrativi e operativi, incorporati in primis nell’odierna normativa regionale dei servizi abitativi

pubblici13, disciplinati oggi dalla l.r. 16/2016 (ex l.r. 27/2009) e dal regolamento regionale per

l’assegnazione e la gestione degli alloggi pubblici (r.r. 1/2004).

Il piano normativo in questione è soggetto a una peculiare profondità storica e spaziale, connessa da un lato alle politiche pubbliche sulla casa (cfr. Vereni 2015a sul caso romano) e, dall’altro, alla progettazione urbanistica della città di Milano, intesa come modificazione spaziale tesa a ordinare i tempi e gli spazi di lavoro (Boffi et al. 1972). In questo senso, gli alloggi ERP, la loro dislocazione urbana e la selezione dell’inquilinato residente hanno ricoperto un ruolo fondamentale nella costruzione dell’immaginario locale relativo alla figura – a tratti “mostruosa” – dell’occupante abusivo (Alasia, Montaldi 2010). Seguendo Vereni, le politiche di costruzione e gestione delle case popolari fin dalla loro creazione hanno veicolato una specifica forma di antropopoiesi di classe (cfr. Vereni 2015a). Se è vero dunque che l’abitare può essere inteso come un processo relazionale in continuo divenire tra uomo e ambiente, la pianificazione governamentale dell’accesso alle case ERP sembra identificarsi con un tentativo di controllo di questa relazione. Dal punto di vista della selezione delle classi sociali alloggiate e della costruzione della figura dell’inquilino modello, questo tentativo sembra aver ottenuto un discreto successo, con l’esito di estromettere strutturalmente i soggetti più svantaggiati dalla tutela sociale della vulnerabilità abitativa. Tosi ha spiegato chiaramente la storicità di questo modello di esclusione:

Dietro la difficoltà di rendere disponibili case decenti per i poveri possiamo immaginare ostacoli sistemici e avvertiamo il peso di una lunga tradizione. Modelli e pratiche consolidate pesano negativamente sui modi di affrontare la questione e ostacolano i tentativi di innovazione. Pesa una tradizione di maltrattamento abitativo dei poveri. Dopo tutto, l’esclusione dei gruppi marginali da decenti sistemazioni abitative è stata la regola nella storia dello housing. Conviene che ci interroghiamo su questa tradizione storica, ripetutamente rinnovata lungo il secolo delle politiche abitative, e che oggi potrebbe trovare nuove ragioni nella crisi del welfare state. Anzitutto costituisce questa tradizione l’esclusione intenzionale dei poveri dai benefici del (buon) abitare: lungo tutta la

13 Per una rassegna della storia della regolamentazione giuridica dell’Edilizia Residenziale Pubblica si veda Tosi 1994, Minelli 2004, Zanzoterra 2011.

storia dell’housing, i poveri sono stati in qualche misura intenzionalmente esclusi dai provvedimenti abitativi oppure sono stati oggetto di interpretazioni riduttive dell’abitare. È sempre esistito, nella tradizione del social housing, un trattamento differenziale delle popolazioni povere o marginali: programmato, perseguito dalle politiche, non accidentale. […] Anche fuori dalle sue forme estreme, il trattamento differenziale di popolazioni marginali è stato parte costante della storia dell’intervento sociale dello stato. Nella maggior parte dei regimi di welfare europei l’edilizia sociale non ha avuto come popolazioni di riferimento i più poveri o i più bisognosi di case, quanto i “lavoratori”. Lungo tutta la storia delle politiche sociali le popolazioni marginali sono state piuttosto oggetto di un trattamento assistenziale e regolativo che non li prevedeva come destinatari di case, bensì di strutture speciali: dormitori, centri di accoglienza, istituti, campi nomadi ecc. […] Naturalmente la marginalità abitativa dei poveri non è dovuta soltanto alla intenzionale, programmatica selezione/esclusione operata dalle politiche. Essa è anche l’esito dell’interpretazione che viene data dei bisogni abitativi dei poveri e della generale configurazione delle politiche sociali e abitative, che si rivela particolarmente inadeguata per i poveri: così ad esempio per la visione quantitativa e fisicistica dei bisogni abitativi, per l’universalismo astratto della tradizione amministrativa ecc. (Tosi 2008, p. 152).

Nella contemporaneità, questo processo di esclusione strutturale appare ancora in vigore. All’interno di questa configurazione, la costruzione sociale delle categorie degli inquilini “adeguati” sembra ricoprire un ruolo fondamentale. In questo senso, la legge e il regolamento regionale contribuiscono a produrre le classi di occupanti regolari e irregolari. Così facendo,