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Comprendere l’abitare. Prospettive antropologiche ed etnografiche

Come messo in luce nel capitolo precedente, la riflessione condotta in questa prima parte del lavoro si concentra sul fenomeno della perdita della casa. Nel corso della ricerca, ho interagito con differenti gruppi e attori sociali che, rapportandosi tra loro e con me, hanno prodotto la situazione di campo che analizzo in queste pagine. Politici, funzionari pubblici, agenzie private, assistenti sociali, sindacalisti, inquilini, proprietari, fabbri, occupanti abusivi, ufficiali giudiziari, hanno rappresentato alcuni dei soggetti con cui ho condiviso l’esperienza etnografica. Ognuno di loro partecipa e ha partecipato nella produzione della configurazione complessa in cui si riproduce il fenomeno della perdita della casa.

In questo capitolo intendo mostrare, attraverso le diverse prospettive degli attori sociali e i processi costruiti a partire dalla loro interazione, come è emersa nel campo la categoria di casa. Questa categoria è infatti l’esito di un articolato processo di (ri)significazione socio-culturale, declinato secondo le ritmiche identificate nel capitolo precedente: ritmo burocratico, ritmo strutturale e ritmo intimo. Queste tre configurazioni spazio-tempo-quotidiane emergeranno sincronicamente attraverso la mia narrazione della processualità dei significati socio-culturali osservati, tuttora in continuo divenire.

Il prima paragrafo è costituito da un insieme di riflessioni sul significato della casa negli studi antropologici. Ho selezionato alcuni studi di rilievo che, a mio avviso, possono essere utili per contestualizzare con profondità storica l’approccio antropologico allo studio della casa. In secondo luogo, tratto dei significati sociali dell’abitazione in relazione alle politiche pubbliche che sono emersi dal campo, valorizzando due prospettive egemoniche, che sostengo concordino nelle premesse, attingendo a un comune bacino simbolico locale. In questo senso affronto l’ordine del discorso che intende la casa come un servizio, veicolato principalmente – ma non esclusivamente – dalle istituzioni pubbliche locali, e la prospettiva – opposta e dialettica – che intende la casa come un diritto, diffusa specialmente dal sindacato e, in generale, dai movimenti sociali che agiscono nel campo del disagio abitativo. Mostro infine come, nella quotidianità, la coerenza di entrambi i discorsi si articoli secondo forme complesse e frammentarie. Sostengo che, per poter comprendere appieno cosa significhi per i diversi attori sociali il fenomeno della perdita dell’abitazione, sia necessario innanzitutto cercare di situare la perdita a partire dall’oggetto stesso che viene a mancare, ovvero l’abitazione, e i mondi morali e valoriali che lo sostengono, lo attraversano e gli attribuiscono significato sociale.

In generale, sebbene il fenomeno degli sfratti da me studiato riguardi principalmente il mercato immobiliare privato, si è deciso in questo capitolo di valorizzare la questione abitativa locale a partire da alcune riflessioni “indigene” relative all’intervento pubblico nel settore abitativo. Sostengo infatti che il tema dell’abitare locale, sia questo normato dal settore privato o dal settore pubblico, si sviluppi coerentemente in un’unica morfologia profonda, restituendo una fotografia del fenomeno che esula dalla natura contrattualistica della sua regolamentazione. In questo senso, per esempio, esplicitare le narrazioni locali relative all’accesso all’edilizia residenziale pubblica mostra efficacemente i significati sociali relativi alla proprietà della casa e alla sua gestione. Allo stesso modo, analizzare le forme di appartenenza veicolate dal possesso di un’abitazione concede un punto di vista privilegiato sul tema delle case popolari e dell’abitare sociale.

Abitare: riflessioni antropologiche

La riflessione sull’abitare ha rappresentato un oggetto privilegiato d’analisi non solo nella storiografia della disciplina, ma nell’intero campo delle scienze sociali1. Il tema della casa ha ricoperto un ruolo centrale sin dall’antichità. In un passaggio dell’orazione Pro Domo Sua (57 a. C.), Cicerone – nel tentativo di riottenere il terreno su cui sorgeva la sua abitazione, sottratto durante l’esilio – ha esplicitato una delle prime definizioni socio-giuridiche dell’abitare: “C’è nulla di più sacro, più rispettabile agli occhi della religione e dello Stato, della casa di un cittadino? […] È un asilo inviolabile” (Cicerone in Rami Ceci 2000, p. 28). La riflessione di Cicerone si struttura a partire dall’etimologia latina del termine. Come esplicitato da Rami Ceci, “la parola abitare ha la radice comune al verbo latino habeo cioè avere, anzi ‘continuare ad avere’ cioè ‘avere consuetudine in un luogo’” (ibidem). In questo senso, coerentemente con l’apparato simbolico che tuttora caratterizza l’idea di casa nel contesto italiano, abitare indica una continuità spazio-temporale (La Cecla 2005), un sistema istituzionale “perenne” (Levi-Strauss 1984, Godelier 2013), un’abitudine permanente (Minkowski 1971), un’appartenenza inter-attiva in un dato contesto (Ingold 2000), fondata sulla capacità di dare forma e senso al proprio ambiente di vita (Heidegger 1993) e ai propri bisogni (Malinowski 1944, Sahlins 1972). La riflessione socio-antropologica sul tema dell’abitare, a partire dallo spazio codificato della casa, è necessariamente articolata e differenziata. L’eterogeneità delle forme di analisi sono, da un lato, la diretta conseguenza della complessità dell’oggetto di studio e del contesto di riferimento e, dall’altro lato, l’esito del frame storico in cui sono stati prodotti gli studi sul

1 Cfr. Engels 1872; Morgan 1881; Boas 1920; Malinowski 1944; De Martino 1951; Bachelard 1957; Heidegger 1971; Bourdieu 1972; Tentori e Guidicini 1974; Hannerz 1980; Douglas, Isherwood 1984; Lévi-Strauss 1984; Signorelli 1989; Ingold 2000; De Certeau 2001; Callari Galli et al. 2007; Godelier 2013; Tosi Cambini 2014; Remotti et al. 2015; Gudeman 2016.

tema. Fornirò alcuni esempi, suddividendo le riflessioni antropologiche sull’abitare in cinque macro-filoni. La prima prospettiva si è sviluppata in relazione allo studio della parentela nelle società cosiddette tradizionali; la seconda a partire da un’analisi socio-culturale imperniata sulla produzione economica; la terza ha dialogato con un’analisi della cultura materiale; la quarta si è strutturata a partire dallo studio dell’interazione degli esseri umani con gli ambienti di vita; la quinta, infine, propria dell’antropologia urbana contemporanea, si è formata a partire dall’analisi dei contesti cittadini.

Un primo filone di studi fondamentali sul ruolo sociale della casa è emerso dai casi di studio delle cosiddette società tradizionali, nello specifico in relazione al tema della parentela. Nel più ampio contesto di queste ricerche, l’analisi dello spazio abitativo si inquadrava in una prospettiva analitica struttural-funzionalista, intenta a comprendere le società tradizionali come parte costitutiva di un insieme organico e coerente (Fabietti, Malighetti, Matera 2012), denominato “cultura”. In questo senso, la casa poteva rappresentare un elemento tecnico proprio della cultura materiale locale (Leroi-Ghouran 1977), un oggetto/luogo denso di significati simbolici (Bourdieu 1972, Waterson 2000) o il luogo proprio della riproduzione del sistema di parentela (Boas 1920, Leach 1954, Levi-Strauss 1979), di alleanze (Levi-Strauss 1984, Hamberger 2010), di governo (Evans-Pritchard 1940, MacDonald 1987), di produzione economica (Malinowski 1944, Sahlins 1972) e di relazione tra i generi (Bourdieu 1972).

Secondo la prospettiva levi-straussiana sullo spazio abitativo e sulle sociétés à maison (Levi-Strauss 1979, 1984) l’abitazione veniva analizzata non solo come oggetto primario di riflessione – sebbene da un punto di vista strutturalista, ma anche come snodo critico e denso da cui formulare una più ampia teoria antropologica “universale”. La riflessione di Levi-Strauss rappresenta infatti il suo tentativo più recente di ripensare le forme di parentela e di alleanza secondo una prospettiva funzional-strutturalista (Hamberger 2010). L’identificazione della casa come oggetto culturale universale spinge a credere che, in questo tentativo di ripensamento del modello della parentela, Levi-Strauss volesse concentrarsi su un’istituzione che si situa, idealmente, sul confine (inteso come spazio di relazione) tra le società elementari e

le società complesse. Senza entrare nel merito dell’ampia riflessione levi-straussiana2, fondata

inizialmente (Levi-Strauss 1979) sulla reinterpretazione delle analisi di Boas sui Kwakiutl (Boas 1920) e di Kroeber sui Yurok della California (Kroeber 1925) e, in seguito, ampliata comparativamente su scala globale, grazie alla comparazione con il medioevo europeo (Levi-Strauss 1984, Haddad 2014), è importante evidenziare che l’antropologo giunse a definire la

2 Per un’analisi approfondita dell’analisi levi-straussiana e della sua eredità in campo antropologico rimando a Carsten, Hugh-Jones 1995, Joyce e Gillespie 2000, Hamberger 2010, Godelier 2013. Per una riflessione sulla relazione tra storia, antropologia e la nozione di maison si veda Haddad 2014.

casa come “una persona morale”3 che si perpetua nel tempo, principalmente attraverso il sistema linguistico – in alcuni casi mitico – della parentela (cfr. Carsten, Hugh-Jones 1995). Conseguentemente, le sociétés à maison definirebbero dei gruppi sociali i cui legami sono costruiti attraverso proprietà condivise e storie comuni (Starechesky 2017). Questa interpretazione, sebbene comporti alcune criticità (MacDonald 1987), ha avuto importanti ripercussioni non solo negli studi propri all’antropologia della parentela, dell’abitazione o delle società “altre” (Fox 1993; Carsten, Hugh-Jones 1995; Joyce, Gillespie 2000), ma anche in ambiti disciplinari assai differenti, come per esempio l’antropologia urbana e dei movimenti

sociali (Starechesky 2017)4.

Un altro filone di studi ha concentrato la sua riflessione sull’abitazione a partire dall’analisi del sistema di produzione economica, proprio dei differenti contesti di riferimento. Questa corrente interpretativa può essere situata in una più ampia riflessione sulla relazione tra

società, economia e spazio, afferente al pensiero di derivazione marxista5. Questa prospettiva

considerava la casa non solo come un oggetto inserito in un sistema di produzione economica (Salhins 1972, Douglas 1991, Godelier 2013), ma anche come luogo atto alla riproduzione del sistema di produzione economica locale (Gudeman 2016), a partire per esempio dalle relazioni (a)simmetriche esistenti tra i membri che compongono il nucleo familiare. Entrambe le considerazioni sono particolarmente rilevanti per il mio caso di studio e situano l’ambiguità delle interpretazioni locali dell’oggetto/merce/spazio casa in una configurazione storico-economica (Bourdieu 2015), fondata su cicli temporali di lungo raggio. Queste impostazioni analitiche risultano ancora più feconde se si sposta lo sguardo sui modi di produzione, “realizzati” in oggetti, merci e strutture, e sugli “schemi simbolici” di tali modi (Sahlins 1972), “in rapporto ai quali si strutturano i sistemi di azione” (Rami Ceci 2000, p. 119) di un individuo o di un gruppo sociale. Riflettere sugli schemi simbolici invita a prestare attenzione ai processi di significazione culturale propri della contemporaneità (Douglas 1991) e a situare le azioni, i mondi morali e le concezioni degli attori sociali in un’arena sociale articolata su più livelli. In questo modo, i valori, i bisogni e le aspirazioni (Appadurai 2014) legati alla casa, alla proprietà, al possesso o allo status, strutturano in maniera determinante l’azione sociale degli attori, contribuendo alla produzione di un habitus (Bourdieu 1972).

3 “[Une] personne morale détentrice d’un domaine composé à la fois de biens matériels et immatériels, qui se perpétue par la transmission de son nom, de sa fortune et de ses titres en ligne réelle ou fictive, tenue pour légitime à la seule condition que cette continuité puisse s’exprimer dans le langage de la parenté ou de l’alliance, et, le plus souvent, des deux ensemble” (Lévi-Strauss 1983a, p. 1224; 1979, p. 48).

4 Nell’ultimo capitolo di questo lavoro svilupperò un’analisi interpretativa che si situa in questo secondo filone, stimolato dall’analisi levi-straussiana sull’abitazione.

5 Già Engels aveva affrontato la questione abitativa nei contesti caratterizzati da un’economia capitalista, focalizzandosi sul caso degli operai inglesi (Engels 1872).

La casa è stata inoltre al centro di una più ampia riflessione antropologica relativa alla cultura materiale (Miller 1987, 2013; Douglas, Isherwood 1984; Kopytoff 1986; Douglas 1991; Lofgren 1996; Appadurai 2000; Bernardi, Dei, Meloni 2011). Al centro di questa prospettiva si trovano “gli oggetti ordinari” (Dei 2011, p. 5) e i contesti in cui gli artefatti interrogati si situano e si spazializzano (Meloni 2011, p. 184). Gli spazi domestici, in questo senso, si configurano come luoghi privilegiati d’analisi. Sebbene da un punto di vista storiografico questo settore disciplinare abbia preferito focalizzarsi sui contesti rurali (cfr. Bonnin, Perrot 2011) – e il caso italiano ne è una prova evidente (Cirese 1973; Solinas 1990; Dei, Meloni 2015) – ad oggi si assiste a una applicazione di questo approccio anche in ambito urbano (Miller 2013), nel tentativo di promuovere quella che Löfgren e Ehn hanno definito “etnologia europea”, ovvero “una branca dell’antropologia […] che si concentra sulla vita quotidiana nelle società occidentali, passate e presenti. Diversamente dagli studiosi che viaggiano verso contesti culturali esotici, […] [questo] lavoro ci porta di solito nel regno della familiarità quotidiana che circonda tutti noi. Facciamo la nostra ricerca in contesti sia rurali sia urbani, in arene sia domestiche sia pubbliche”. (Löfgren, Ehn 2010, p. 4, in Dei 2011, p. 20). Inteso in questo senso, lo studio della cultura materiale intende proporre una più ampia riflessione sulle società – intese come “località globali” (Appadurai 2012) – in cui questi oggetti vengono prodotti, utilizzati e significati (Meloni 2011, p. 184). Ripensare lo spazio domestico a partire da questi stimoli può essere estremamente efficace: da un lato, per valorizzare il ruolo del sistema di parentela, di scambio, di genere e di narrazione che vi emerge; dall’altro lato, per ripensare la relazione tra pubblico e privato nelle società analizzate, “venendo a patti con la materia” (Leroi-Ghouran 1993).

Inoltre, una recente prospettiva antropologica, denominata ecologica (Ingold 2000), situa la questione dell’analisi interpretativa della casa a partire dall’analisi della produzione dell’ambiente di vita (Malighetti, Molinari 2016). Questo filone di studi si localizza in una corrente di pensiero che possiamo far risalire all’opera di Heidegger e alla sua riflessione filosofica sulle pratiche dell’abitare (Heidegger 1993). La riflessione del filosofo si pone in maniera critica rispetto alla diffusione di una percezione statica e meccanica dell’abitare, a suo avviso propria della modernità (Cfr. Illich 2005, De Certeau 2010). Attraverso un esercizio etimologico, Heidegger analizza la parola tedesca bauen, che significa costruire (to build). Bauen deriva dall’inglese antico buan, che significa abitare – to dwell (Heidegger 1993, pp. 348-353). Secondo il filosofo questo senso dell’abitare (buan) non era limitato alla sfera domestica, ma si espandeva fino al punto in cui “io abito” era come dire “io sono”, racchiudendo un senso più ampio, ovvero “vivere la propria vita sulla terra”. Bauen inoltre possiede altri due significati: il

primo è quello di preservare, prendersi cura o, più specificatamente, coltivare; il secondo è quello di edificare, fare qualcosa, erigere un edificio. Questi due ultimi sensi sono dunque compresi nel significato originario di abitare. Ora quest’ultimo è andato perso e con il termine bauen (to build) ci si riferisce unicamente alla coltivazione o alla edificazione. Così Ingold:

Avendo dimenticato come le attività citate siano radicate nell’abitare, il pensiero moderno riscopre quindi l’abitare come occupazione di un mondo già costruito. In breve, se prima il costruire era circoscritto dentro l’abitare, ora la posizione è ribaltata, con l’abitare circoscritto dentro il costruire. L’obiettivo di Heidegger è recuperare la prospettiva originale, così che ancora una volta si possa comprendere come le attività di costruzione – coltivazione e edificazione – appartengano al nostro abitare nel mondo, al modo in cui siamo. “Non abitiamo perché abbiamo costruito, ma costruiamo e abbiamo costruito perché abitiamo, ovvero perché siamo abitanti. […] Solo se siamo capaci di abitare, solo allora possiamo costruire” (Heidegger 1993, pp. 350, 362) (Ingold 2000, p. 185).

Infine, l’ultimo filone con cui mi sono confrontato racchiude in un’unica configurazione diverse discipline afferenti alle scienze sociali, nel tentativo di valorizzare, a partire dalla produzione quotidiana dello spazio urbano, le forme dell’abitare contemporaneo in relazione alle politiche di governance. Tale prospettiva può essere ricondotta ad alcune analisi proprie della filosofia politica francese. All’interno di una più ampia riflessione storico-filosofica sulle forme di governo occidentali, Foucault (1980) ha posto l’enfasi sull’imprigionamento in spazi di controllo sociale come elemento letteralmente e non metaforicamente fondante di organizzazione della vita moderna, anche urbana. Sotto altra prospettiva, lo stesso Foucault ha messo in risalto il complesso e conflittuale processo di produzione dello spazio, invitando a riconoscere lo spazio stesso come dispositivo privilegiato di governo (Foucault 1984), costituito dal controllo delle reti di relazioni (Hannerz 1992, Agier 2011), delle intersezioni (Massey 2005) e delle sue trasgressioni (Pozzi 2015), influenzato da periodizzazioni temporali (Palumbo 2010) e transizioni storiche (Mumford 1961).

Il gesuita de Certeau (2001), invece, ha basato la sua analisi della quotidianità urbana sulla triangolazione dei concetti di traiettoria, tattica e strategia. Data questa intuizione iniziale, de Certeau ha definito lo spazio urbano a partire dal suolo, “dal basso”, attraverso l’attività del camminare. L’autore ritiene questa attività un vero e proprio “atto di enunciazione” (Guattari 1973). In tal senso i percorsi costituiti dai passi “non sono localizzati, ma si spazializzano” (Harvey 2002, p. 262). De Certeau problematizza la cecità di una prospettiva sulla città che prevede un osservatore situato in una posizione non solo privilegiata, ma sopraelevata rispetto al divenire di questi spazi di azione. De Certeau non si pone sulla cima di un edificio per osservare la spazializzazione tattica degli abitanti urbani, in qualche modo estraniandosi da

quello stesso processo, ma “scende” nelle strade, al fine di ripensare lo spazio urbano a partire dalla sua produzione quotidiana.

Nel contesto disciplinare italiano, queste riflessioni sono state recepite da alcuni antropologi urbani, che hanno proposto uno studio della città a partire dalla produzione dei margini della stessa. Allovio, per esempio, ha suggerito di scoprire “dove si annidino concettualmente e fisicamente quelle moltitudini di vuoti, crepe e buchi che fanno diventare più vivibili i nostri universi urbani” (Allovio 2012, p. 25). Spinto dallo stesso interesse per i margini urbani, Fava (2012) ha narrato della capacità di alcuni residenti palermitani di “rinnovare dall’interno” gli spazi domestici di alcuni edifici di edilizia residenziale pubblica, al fine di combattere la riproduzione socio-politica dell’esclusione sociale.

A livello internazionale, Doron (2000), in opposizione al “bulldozzing habit of mind” (Mumford 1961) della gestione urbanistica tradizionale, ha sostenuto che alcune comunità marginali continuano a trasgredire (Foucault 2004) i limiti spaziali imposti dalle autorità, producendo in tal modo prospettive abitative controegemoniche (Cfr. Holston 2008, Roy 2011, Vasuvedan 2014a). In questa direzione si è sviluppata negli ultimi anni un’importante riflessione sull’informalità abitativa (Hannerz 1987; Holston 2008; Roy 2011; Cachado, Baia 2012; Agier 2013; Appadurai 2014; Vasuvedan 2014; Cellamare, Cognetti 2016; Scandurra 2017; cfr. Pozzi 2017a, 2017b) che credo possa essere efficacemente messa in relazione con la prospettiva ecologica. Questo filone, proprio del campo dell’antropologia urbana, tende infatti a valorizzare una nozione complessa e processuale dell’abitare, concentrandosi sullo studio delle reti (Agier 2013), dell’agency degli attori sociali (Holston 2008), della capacità di ripensare in forma radicale i modelli classici propri del “fare città” (Roy 2011, Appadurai 2014, Vasuvedan 2014), a partire da un tentativo di centralizzazione delle pratiche marginali (Malighetti 2012).

In generale, l’antropologia contemporanea, “abbandonando le epistemologie positiviste che l’hanno fondata come disciplina accademica [..], [e] svincolando la scienza dal dominio della verità e la verità dal dominio di un metodo univoco e fisso” (Malighetti 2011, p. 31; cfr. Clifford 1997, Amselle 2001, Appadurai 2012), si fonda oggi su una pratica etnografica senza pretesa di oggettività e neutralità, attenta tanto all’osservazione quanto alla partecipazione (Tedlock 1991). Come Castells (1983) e, prima, la Scuola di Chicago (Park, Burgess, McKenzie 1915; Anderson 1923; Wirth 1928, 1938; Sutherland, Locke 1936), avevano brillantemente

intuito6, il ruolo dell’etnografia risulta essenziale per la comprensione dei fenomeni e delle

pratiche urbane. Come ho sostenuto precedentemente, una delle maggiori sfide della ricerca

6 Per un approfondimento sul ruolo della Scuola di Chicago in relazione all’etnografia urbana si veda Semi 2006.

etnografica urbana risiede proprio nella sua capacità di relazionarsi con una possibile teoria antropologica della e nella città e con una restituzione pubblica della stessa (Scheper-Hughes 1995; Farmer 2006; Bourgois 2011; Agier 2011, 2013; Allovio 2012). La costruzione di una teoria antropologica sulla città potrebbe dunque emergere dai margini (Malighetti 2012, Ciavolella 2013), dalle crepe (Allovio 2012) o dal concetto di rifugio (Agier 2013). Potrebbe inoltre emergere dall’analisi di quelle che Tully (2002), riprendendo la tesi foucaultiana della “cura di sé” come pratica liberatoria (Foucault 1984), definisce practices of freedom. Tully intende le pratiche di libertà come insieme complesso di atti emancipatori dotati di carattere critico

rispetto a un predeterminato sistema. Queste pratiche di libertà7 sembrano essere nella

maggior parte dei casi periferiche (De Certeau 2010), marginali (Malighetti 2012), multisituate (Marcus 2009), alter-politiche (Boni, Ciavolella 2015), “quieta invasione dell’ordinario” (Bayat 2010). Tali caratteristiche emergono dal costante confronto, non necessariamente oppositivo, con le strutture istituzionali responsabili delle principali politiche di colonizzazione dei ritmi e della vita in contesti urbani (Lefebvre 1991). In questo senso, ipotizzo, che le pratiche e le politiche abitative aprano spazi progettuali la cui comprensione rappresenta un presupposto fondamentale per la formulazione di nuovi spazi e tempi di cittadinanza “attivi” e “flessibili” (Ong 1999).

La casa retorica. Politiche pubbliche e questione abitativa

Nel paragrafo precedente ho mostrato alcune prospettive interpretative che sono state formulate nell’ambito disciplinare antropologico. Idealmente, la mia prospettiva si avvicina a una concezione dell’abitare fondata sull’analisi heideggeriana del termine (Pozzi 2015a) e sviluppata in direzione di una comprensione delle pratiche marginali. Convinto della necessità epistemologica di restituire un sapere che si fondi sulla circolarità interpretativa delle nozioni prodotte dagli attori sociali stessi, dalla relazione tra il ricercatore e gli interlocutori e dal ricercatore stesso (Malighetti, Molinari 2016), intendo ora far emergere le diverse nozioni di casa e abitare con cui mi sono confrontato sul terreno etnografico, nel tentativo di farle dialogare nel corso del testo con la letteratura antropologica.

Le narrazioni raccolte si configurano secondo i diversi posizionamenti assunti degli attori sociali all’interno dell’arena sociale di riferimento. Secondo le mie osservazioni etnografiche,