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Aporie della transdisciplinarità

«Il modello scientifico non è meno mitico (anzi, in verità lo è di più) di molti miti».

René Girard

0.

Il tea tro è la flagranza dell’unità corpo-mente. Nel Novecento si è avuto uno scat- to decisivo di ricerca e consapevolezza, una sorta di movimento di emancipazione dell’attore dalla sudditanza all’arte retorica, e ciò anche grazie alla conoscenza sempre più diffusa dei tea tri orientali, dove la recitazione è integrata anzitutto con la danza e il canto. I rivoluzionari della scena come Stanislavskij e poi Mejerchol’d, con Craig, Appia, Brecht e altri hanno sviluppato le rispettive poetiche con tecniche da laboratorio che tenevano in parte conto delle culture tea trali orientali, mentre per altri teorici e creatori, da Artaud a Grotowski e oltre, la visione o lo studio delle “tecniche recitative” di altre culture (non solo dell’Oriente geografico) hanno costi- tuito un riferimento essenziale. Ma soltanto negli anni Settanta, per merito anzitutto di Eugenio Barba e della sua ista (International School of Theatre Anthropology)

da lui fondata si è dato vita alla disciplina detta «antropologia tea trale»,1 un vero

e proprio movimento mondiale di artisti e studiosi che hanno rivolto una nuova attenzione alla globalità delle arti performative.

Tra essi si segnala uno dei primi collaboratori dell’ista, Jean-Marie Pradier,

fondatore della disciplina della «etnoscenologia».2 Il contributo di questo ricer-

1 Si vd. innanzitutto Eugenio Barba, Nicola Savarese, L’arte segreta dell’attore, (nuova edizione),

Edizioni di Pagina, Bari 2011. Questo libro, con il titolo Anatomia dell’attore, è stato pubblicato per la prima volta nel 1982 come risultato delle prime sessioni dell’ista. Per il funzionamento della scuola

il regista italiano si è avvalso della collaborazione di maestri di tea tro, docenti, attori e registi prove- nienti da tutto il mondo. Dal 1980, le sessioni dell’ista si sono moltiplicate e il volume ha aggiunto,

nel tempo, sezioni, brani e immagini senza però cambiare la sua caratteristica di dizionario-album, con un intenso rapporto fra testo e figure (più di settecento) e la creazione di sorprendenti accostamenti di forme nel tempo e nello spazio. Cfr. anche E. Barba, La canoa di carta. Trattato di antropologia

tea trale, Il Mulino, Bologna 2004, dove l’autore sintetizza i principi transculturali che stanno alla base

dell’arte dell’attore e del danzatore. È importante rimarcare che l’antropologia tea trale non si occupa dell’espressione artistica, ma di ciò che la precede e la rende possibile.

2 Vd. Jean-Marie Pradier, La Scène et la fabrique des corps. Éthnoscènologie du spectacle vivant

catore, assolutamente pionieristico e serio, appartiene comunque ai primi passi di questa investigazione interdisciplinare. Nel suo volume qui citato, il tema delle «arti asiatiche dello spettacolo vivente» viene messo a confronto con la storia del nostro tea tro, dalla grande stagione ellenica al Settecento. Naturalmente la cultura ellenica è considerata nel suo complesso e di conseguenza la vicenda tea trale si intreccia con la storia della filosofia e della medicina, mentre grande importanza è accordata allo sviluppo della scrittura alfabetica tra il vi e v a.C. La stagione tragi-

ca segna per Pradier l’inizio del tea tro occidentale. Lo studioso francese trascura il plesso delle cosiddette arti dinamiche e il loro rapporto con la paideia; ha ben presente che il «tea tro greco non è il frutto della letteratura, ma di una unione a tre: la musica, la danza e la poesia»,3 però resta sulle generali e utilizza per le proprie

argomentazioni soprattutto i testi di Euripide e Aristofane, definendo contestual- mente l’educazione in questi termini: «L’educazione classica mira a formare un cittadino “bello e buono” per mezzo della musica, del tea tro, della filosofia che arricchiscono l’anima e la mente, e la ginnastica e l’atletismo che rendono bello il corpo» e poi si volge verso la pederastia, «integrata nel processo educativo», ciò in un quadro che assegna alla sessualità un ruolo centrale, in tal senso riallacciandosi alle tesi di Michel Foucault.

Nella prospettiva soprattutto medica di Pradier, l’attore è portatore, in un certo senso “sano”, di follia e mania, comunque è un corpo ancora non iscritto in una prospettiva dualista. In continuità con questa prospettiva Pradier propone la propria fondazione disciplinare: «L’etnoscienza chiamata “etnoscenologia” (1995) ha forgiato il proprio nome a partire da questa polisemia e si propone come la scienza dell’intelligenza del corpo manifestata nelle pratiche spettacolari». Quando arri- va al confronto con Aristotele su mimesi e catarsi, Pradier continua a utilizzare il paradigma medico omeopatico, secondo il quale “simile cura simile”, fino alla definizione della catarsi come meccanismo di espulsione, deiezione ed eiaculazio- ne. Pur confermando il carattere enigmatico di alcuni passaggi aristotelici, l’autore è certo è che la Poe ti ca si allontani dal sacro, considerando le passioni in un quadro razionale e politico di «igiene emozionale» di massa. La sua conclusione è che nei grandi tea tri greci si riuniva «il corpo sociale, da cui bisognava espellere gli escrementi, i residui e i rifiuti». L’analogia tra tea tro e medicina – le cui prime età dell’oro coincidono – riguarderebbe dunque il controllo delle passioni attraverso tecniche di integrazione (yogiche), tecniche di attivazione (droghe) e tecniche di razionalizzazione (trasferimento in forma di pensiero); salvo che successivamente più recente J.-M. Pradier, Éthnoscénologie et interdisciplinarité, in André Helbo, Catherine Bouko et Élodie Verlinden (dir.), Interdiscipline et arts du spectacle vivant, Honoré Champion, Paris 2013, pp. 45-55.

3 J.-M. Pradier, La Scène et la fabrique des corps cit., p. 45. Le citazioni seguenti sono tratte, salvo

si sarebbe verificato un allontanamento della medicina e del tea tro da quel «proget- to macrocosmico»: «Il tea tro e la medicina si sono progressivamente evoluti in parallelo del sacro verso il profano». Questa evoluzione ha manifestato, secondo Pradier, la «superiorità evidente della scienza occidentale, provata dall’efficacia dei suoi risultati», per quanto nell’ambito dello spettacolo dal vivo si sarebbe preser- vata una «realtà artificiale più suggestiva e piacevole del quotidiano». Sulla base di queste premesse lo studioso intende «esporre la dinamica dei rapporti di alleanza e disaccordo che intercorrono tra il corpo rappresentato in scena e il corpo interpre- tato dalla scienza».4

La tesi centrale di Pradier coincide in parte con quanto Grotowski ha esposto negli anni Ottanta al Collège de France nel ciclo di conferenze intitolato La “ligné

organique” au théâtre et dans le rituel, dove organique indica il substrato vivente a

partire dal quale si elabora la “verticalità”. La verticalità è prodotta dalla macchina attoriale, ma Grotowski e Pradier non utilizzano questo concetto, insistendo sul fatto che abbiamo bisogno di una scienza del tea tro e non di un «lapidario divino», nonché di un «pratica sociale e culturale singolare» basata sul «modello dell’au- toma». Gli attori («L’Uomo, animale imitatore») sarebbero macchine che mimano la vita e il movimento affermando una «verità mimetica» che può essere intesa nei modi più diversi. Grotowski per parte sua rivolge l’attenzione alle tecniche dei mistici, sia d’Oriente che d’Occidente, non alle rispettive visioni del mondo, ideo- logie e teorie. Nel libro con il quale presentava l’etnoscenologia, Pradier si propo- neva di prendere in considerazione, in futuro, protagonisti del Novecento “tea trale” come François Delsarte, Rudolf Steiner, Georges I. Gurdjieff e Antonin Artaud, mentre in questa prima fase guardava piuttosto a storici come Jean-PierreVernant e Pierre Vidal-Naquet, e trascurava tanto i filosofi, ignorando anche Pierre Hadot, l’autore di Esercizi spirituali e filosofia antica, quanto i nuovi scienziati umanisti come Francisco Varela. Alla fine del suo saggio Pradier tornava a una riflessione sulle arti performative di varie tradizioni orientali – soprattutto nell’ambito dell’i- sta – e giustamente faceva appello alla necessità di conoscerle in loco.

4 Pradier non fa riferimento a un autore capitale come Viktor von Weizsächer (cfr. il suo Pathosophie,

Millon, Grenoble 2011) però rimanda implicitamente alla tematica “patosofica”, sviluppata in Francia dalla clinica La Borde, fondata da Jean Oury e alla quale ha collaborato fino dagli anni Cinquanta Félix Guattari. Se Darwin è da considerarsi il campione del dualismo materialista che separa corpo, anima e mente, da cui consegue l’idea del tea tro come letteratura messa in scena, l’istanza pionieristica di questa clinica psichiatrica, che ha ispirato in Francia molta letteratura filosofica e non solo, è quella di un bio-materialismo liberato dai dogmi e dalle tare che allora caratterizzavano gran parte della filosofia marxista.

1.

Le scienze dure attestano il perché e il come dei fenomeni, dunque di qual- cosa che già accade e di cui sappiamo o intuiamo l’esistenza, e al tempo stesso danno inizio a una nuova storia, perché la conoscenza interpretante dei protocolli li rende riproducibili e suscettibili di variazioni e sviluppi. La metabolizzazione della nuove conoscenze solleva enormi problemi nella loro espressione linguistica perché ognuna delle discipline interessate, a cominciare da quella di partenza, scol- pisce con precisione nel proprio gergo alcuni termini chiave, mentre per la globalità del proprio “testo” utilizza spesso in modo poco meditato il gergo di altre disci- pline, così rischiando un corto circuito di senso. A ciò si aggiunga che l’effettiva impossibilità da parte delle scienze di circoscrivere il corpo vivente, vale a dire ciò che le contiene, non è consapevolezza diffusa e anche in questo campo domina la superstizione di avere scoperto o di fondare una verità anziché di proporre soltanto una interpretazione che si dimostra efficace qui e ora. Il dialogo tra diverse disci- pline, dunque, si sta svolgendo tra manifestazioni di buona volontà e apertura, ma rischia di soffocare nelle aporie cui si è fatto cenno e soprattutto per la perdurante incapacità di fondare un linguaggio comune (da intendere quindi come una praxis da sottoporre a un continuo monitoraggio degli effetti che produce). Può essere che questo processo richieda tempi e modi che non siamo ancora capaci di programma- re, dunque nel frattempo non resta che vagliare l’esito dei possibili incontri, tanto sul piano delle pratiche di espressione quanto su quello del confronto teorico.

In tale quadro la questione dell’esperienza artistica nelle sue varie declinazioni e soprattutto delle arti sceniche si presenta come una questione centrale. La consa- pevolezza del nesso arte-sapere appartiene ormai al senso comune ed è assoda- to che i processi creativi risvegliano e utilizzano risorse inedite rispetto a quelle previste dai protocolli delle singole discipline, con evidenti benefici sia sul piano dell’espressione sia su quello della “salute” individuale.

Siamo entrati in una nuova fase dell’antropologia culturale e ciò si manifesta nelle strategie di tutte le discipline. In questo cambiamento generale, imposto dalla crisi di civiltà che Husserl ha per primo evidenziato, le novità positive si mescolano a equivoci e pericoli, come stiamo per vedere anche nel nostro caso. È bene perciò partire da una definizione accorta dello stesso concetto di cultura:

La cultura è un automa, una macchina che si produce e riproduce da sé, o a partire da sé. La macchina è quello strumento esosomatico (trans-naturale) il cui uso si riflette sull’agente, rendendolo consapevole dell’azione del medio (cioè dello strumento) tra l’intenzione e il compimento. […] Naturalmente la prima fondamentale macchina che genera l’umano è il linguaggio: vero e proprio strumento algoritmico che analizza il fare

di ognuno e che ne comunica i tratti, generando un’intesa, una risposta diffusa e un abito di tutti, cioè un’intersoggettività comunitaria, il mondo umano appunto.5

Sini non allude al concetto di «macchina attoriale» proposto da Carmelo Bene come originale interpretazione di un passaggio di Gilles Deleuze, ma è evidente che tra le pratiche della «intersoggettività comunitaria» quella dell’attore è la più evidentemente implicata dall’esosomatismo. Il contributo del filosofo va inteso comunque come un invito al confronto interdisciplinare e aiuta a rendersi conto che l’orientamento di diversi saperi riguardo alle stesse tematiche non serve a decre- tare quale di essi corrisponda alla verità ma piuttosto a interrogarci sul motivo del questionamento contemporaneo che si manifesta nei più diversi ambiti alla ricerca di nuove “forme di vita”.

2.

Dobbiamo il recente avvicinamento tra neurobiologia e arti sceniche tra gli altri a Vittorio Gallese, docente di Fisiologia presso il Dipartimento di Neuroscienze dell’Università degli Studi di Parma, la cui ricerca si concentra sulla descrizio- ne incarnata degli aspetti più rilevanti della cognizione sociale. Il suo principa- le contributo consiste nella scoperta, in quanto membro di una più vasta équipe guidata da Giacomo Rizzolatti, dei «neuroni specchio»;6 e poi nella elaborazione

di un modello teorico di cognizione sociale, la teoria della Simulazione Incarnata (Embodied Simulation).7

I neuroni specchio sono una classe di neuroni che si attivano quando un sogget- to osserva l’azione compiuta da un altro soggetto. Gli scienziati hanno scoperto che

5 Cfr. Carlo Sini, Il potere invisibile, «Nóema», 4, 2 (2013), pp. 1-28:3:

<http://riviste.unimi.it/index.php/noema>.

6 Cfr. Giacomo Rizzolatti, Corrado Sinigaglia, So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni spec-

chio, Cortina, Milano 2006.

7 Cfr. Intervista a Vittorio Gallese, «Ricerche di s/confine», v, 1, 2014, pp. 1-8, da cui si cita; e Arte,

corpo, cervello: per un’estetica sperimentale, «Micro Mega», 2, 2014, pp. 49-67. Cfr. anche «Culture

tea trali», 16, primavera 2007, Teatro e Neuroscienze. L’apporto delle neuroscienze cognitive a una

nuova tea trologia sperimentale, a cura di Francesca Bortoletti, e in particolare il saggio di V. Gallese, Il corpo tea trale: mimetismo, neuroni specchio, simulazione incarnata, pp. 13-37. Rizzolatti nel 1992

ha reso pubblica la scoperta dei neuroni specchio, definendo così le basi fisiologiche dell’empatia e gettando luce sul processo tramite il quale si trasforma l’informazione visiva in azione. Attualmente Rizzolatti, dopo il cosa e il perché conduce nuove ricerche sul come, ovvero sulle «vitality forms» (definizione di Daniel Stern) dell’azione. Tra i primi risultati la constatazione che il come ha un substra- to neuronale diverso da quello delle azioni dette «fredde» ed è localizzato nell’insula, lobo corticale profondo (da qui per esempio una nuova possibile comprensione dell’autismo, in quanto sembra che la sua causa principale sia da individuare nei primi mesi del rapporto madre-bambino, allorché si mani- festa un deficit di vitality forms).

i neuroni attivati dall’esecutore durante l’azione sono gli stessi attivati nell’osser- vatore della medesima azione, mentre prima si pensava che si attivassero soltanto per le funzioni motorie. Molti scienziati considerano la scoperta dei neuroni spec- chio una delle più rilevanti degli ultimi anni nell’ambito delle neuroscienze perché una migliore comprensione delle azioni compiute da altre persone può agevolare l’apprendimento attraverso imitazione.8 Gallese, tra gli altri, ritiene che il sistema

specchio, simulando le azioni osservate, possa contribuire a una teoria della cono- scenza, mentre altri lo mettono in relazione con le caratteristiche del linguaggio. Tra le rilevanti conseguenze sperimentali e applicative, in primo piano vi è il possi- bile collegamento tra il sistema specchio e le patologie della conoscenza e della comunicazione; sia come sia, l’esperienza suggerisce di tenere distinta l’osserva- zione neurofisiologica dalle opinioni interpretative sul possibile ruolo dei neuroni specchio.

Gli esperimenti hanno confermato che questi neuroni fungono da mediatori per la comprensione del comportamento altrui e quindi si è indotti a pensare che codifichino concetti astratti concernenti le azioni, sia quando esse sono compiute direttamente, sia quando giunge l’informazione che l’azione è compiuta da altri. Il sistema umano dei neuroni specchio codifica atti motori transitivi e intransitivi, è cioè capace di codificare sia il tipo di azione che la sequenza dei movimenti di cui essa è composta. Nell’uomo non è necessaria una effettiva interazione con gli oggetti: i suoi neuroni-specchio si attivano anche quando un’azione è “mimata”. Il sistema specchio ha dunque tutto il potenziale necessario per fornire un meccani- smo di comprensione delle azioni e dell’apprendimento attraverso l’imitazione e la simulazione del comportamento altrui. In questo senso è opportuno ribadire che il riconoscimento non avviene soltanto a livello motorio, ma come riconoscimento dell’azione intesa in quanto evento biofisico. Le ricerche collegano i neuroni spec- chio anche alla comprensione dei comportamenti conseguenti una intenzione non ancora manifestata ma tesa a risultati futuri. Ne consegue che ogni individuo è in grado di agire in base a un meccanismo neurale per ottenere la cosiddetta “parteci- pazione empatica”: di fronte a una scena coinvolgente i neuroni specchio si attiva- no come se fossimo noi stessi a viverla. Sull’intensità e la qualità emotiva di questa azione la ricerca e la discussione sono però ai primordi. Restano quindi da definire

8 Naturalmente in ambito scientifico non mancano le polemiche. L’indiano Vilaynur Ramachandran

sostiene che la scoperta dei neuroni specchio sia paragonabile per importanza a quella del dna, mentre

lo statunitense Gregory Hickok, nel suo Il mito dei neuroni specchio, Bollati Boringhieri, Torino 2015, cerca di dimostrare la totale inconsistenza della scoperta. Non è il caso, qui, di soffermarsi su questo dibattito, si può notare però che Giacomo Rizzolatti, in alcune interviste e interventi, si smarca da questi due estremi e insiste nell’utilizzare il termine correlazione per indicare il rapporto sussistente tra azioni e funzioni neuronali.

quali debbano essere le caratteristiche imprescindibili di quella scena per ottenere un effetto e quali possano essere le possibili “interpretazioni” dell’osservatore.

Una definizione del fondamento biologico del “tea tro” – in realtà della mime- si peculiare delle arti dinamiche – non poteva che sollevare un enorme interesse. Da quel momento, tra gli estremi di un entusiasmo un po’ fanatico e di un facile scetticismo espressi da entrambe le discipline, è emersa una terra di mezzo fatta di osservazione reciproca e azioni comuni, con tanto di operatori specializzati e prassi terapeutiche che, prima di produrre consistenti risultati teorici, stanno dimostrando in molti casi una sorprendente efficacia. In campo tea trologico si deve al giovane ricercatore Gabriele Sofia una prima monografia sull’argomento il cui terzo dei suoi quattro capitoli è dedicato ai neuroni specchio;9 degno di nota è anche il fatto

che presso l’Università di Messina il Dipartimento di Scienze Cognitive, della Formazione e degli Studi Culturali (csecs) includa un Centro Internazionale di Studi

sulle Arti Performative, intitolato al tea trologo statunitense Richard Schechner.

3.

Ecco dunque che la formalizzazione teorica, anche se fallisce nella sua presun- zione di verità, cambia la realtà, se non altro perché sottopone i fenomeni osservati alla decisione e al controllo umani. Qualcuno alimenta l’illusione che si possa un giorno definire un perfetto e solido statuto scientifico delle discipline performa- tive e magari produrre arte con sequenze di formule e logaritmi. È una illusione simmetrica a quella di una protocollare creatività dei processi scientifici, illusione perché ovunque si operi, scienza o arte, ci si trova immersi in una complessità che vede all’opera diversi saperi ai quali si è soggetti, mai potendola padroneggiare totalmente. Intanto, però, ciò consente ad alcuni giovani ricercatori di specializzar- si nell’applicazione dei protocolli tea trali a varie patologie o situazioni di disagio sociale ed è innegabile che tali attività, svolte da specialisti in diverse discipline, producano risultati positivi.10

In questa prima fase del nuovo corso il linguaggio che si accompagna a questi eventi non è, come si vorrebbe credere, l’espressione di fatti oggettivi, ma senso che si attribuisce, una proiezione dei propri pregetti e progetti che a volte si rivela grossolana ed equivoca proprio nell’utilizzo di linguaggi con i quali si ha scarsa confidenza, come se la sua aderenza alle cose fosse già stata garantita dagli specia- listi dell’altro campo.

9 Cfr. G. Sofia, Le acrobazie dello spettatore. Dal tea tro alle neuroscienze e ritorno, pref. di Eugenio

Barba, Prospettive e fughe dello sguardo di Clelia Falletti, Bulzoni, Roma 2013.

10 Per esempio Sofia riferisce dell’applicazione di tecniche tea trali nel trattamento del Morbo di

I più avvertiti, anche tra gli scienziati, si rivolgono alla fenomenologia, la cui strumentazione interpretativa si è rivelata con il passare del tempo la più sensibile a cogliere le occasioni e i limiti della complessità, tanto sul versante dell’operare quanto su quello della percezione, e sempre lavorando su ciò che in effetti, pur differenziandoli, li assimila.

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