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L’attore sincero nel secolo grottesco

«…e per quanto mi riguarda io tratto l’idealismo come una insincerità divenuta istinto».

Friedrich Nietzsche1

«E questo spirito, che infiammava me e gli altri, animava realmente la recitazione, che era vissuta come una prova di grande sincerità».

Harold Clurman2

«…si deve essere nella sincerità, presentare e non rappresentare».

Carmelo Bene3

0.

In questo volume si tenta di inquadrare, dopo alcune premesse teoriche, il conte- sto attraverso il quale gli eventi-performance e i testi a essi correlati prendono vita e di ricostruire così l’orizzonte intellettuale dei loro attori e del loro pubblico. Su questa base il tea tro esige di essere preso in considerazione nell’ambito degli studi culturali concentrando un’attenzione interdisciplinare sugli attori e la loro cultura, sia quella professata ideologicamente sia quella effettiva e “segreta”; ciò sempre utilizzando il tridente euristico composto dalla distinzione tra materiali, tecniche e funzioni. In una prospettiva estetologica, interdisciplinare e comparatistica ci si trova dunque a fronteggiare questioni filosofiche, psicobiologiche e politiche, in un intreccio di saperi che mira a una impossibile totalità e che condanna il ricercatore a un perenne dilettantismo per molte delle discipline che deve comunque praticare.

1 Lettera a Malwida von Meysenbug, 20 ottobre 1888, in Lettere da Torino, a cura di Giuliano

Campioni, Adelphi, Milano 2008, p. 53.

2 H. Clurman, Svegliati e sogna, in aa. vv., Actoris Studium – Album #2. Eredità di Stanislavskij e

attori del secolo grottesco, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2012, p. 125.

3 Thierry Lounas, «Che i vivi mi perdonino…». Intervista a Carmelo Bene, (già apparsa sui «Cahiers

du cinéma» numero fuori serie «Cinéma 68», 1998), ora in Carmelo Bene contro il cinema, a cura di Emiliano Morreale, Minimum Fax, Roma 2011, p. 184.

Sempre sullo sfondo della storia, le vite, le poetiche e le opere delle attrici e degli attori che qui sono scelti come oggetto di riflessione sono prese in consi- derazione utilizzando il documento audiovisivo, nella convinzione che in questo modo si possano fare scoperte altrimenti impossibili.4 Tutto ciò per espugnare con

la razionalità di un nuovo approccio alcuni segreti di un’arte prima ritenuti inattin- gibili dallo studio “teorico” (che dovrebbe creare, almeno a ogni generazione, una geografia e una storia nuove)5 e soprattutto promuovere la comprensione di un’arte

che contiene in sé una chiave per comprendere meglio anche i comportamenti, i meccanismi più profondi che determinano la vita sociale degli individui, meccani- smi dai quali si può essere posseduti oppure che si possono imparare a governare.

Questo modus operandi, questa nuova disciplina discreta, potrebbe avere un notevole potenziale d’impatto sul complesso degli studi tea trali e culturali, a patto però di non cadere, come avviene negli Stati Uniti e in molti altri paesi, nell’ossessi- va quanto banale proiezione e applicazione del paradigma performativo ai compor- tamenti e alle situazioni di ogni tipo, secondo una semiotica verbosa e alla moda, oppure di barricarsi nelle declinazioni di genere, finendo per provocare una infla- zione di inutili neologismi. I casi che vale la pena di studiare sono modelli supremi, apparentemente irraggiungibili, sempre unici, ma con la consapevolezza che si tratta di modelli la cui lettura e decifrazione è propedeutica alla scoperta della propria unicità da parte del “lettore-attore”. Certo, per ora si sollevano molti più problemi di quanti se ne risolvano e un vero e proprio metodo sembra non assestarsi mai, deve essere conquistato faticosamente caso per caso. L’unica stella polare è lo scopo, il compimento del processo: soltanto guardando lì invece che al dito di una presunta “serietà accademica” si può trovare la strada.

La responsabilità di rivolgersi innanzitutto agli studenti e ai giovani deve indub- biamente tenere conto delle condizioni, spesso misere in termini di formazione cultu- rale, che attualmente caratterizzano la loro età, ma non per questo si deve perdere di vista lo scopo di fare loro intendere cosa sia – o meglio: cosa e come potrebbe essere – il tea tro colto nella sua funzione di conoscenza attraverso l’azione e lavoro nella differenza tra ciò che nel testo-mondo è già dato e ciò che si può plasmare attraverso una cognizione creativa. L’asse portante di una formazione così concepita non può essere costituito dai testi della drammaturgia, che sono una parte pur impor- tante dello sfondo storico, o dai testi teorici, da esaminare sempre in una prospetti- va comparatista e transdisciplinare, dunque all’incrocio delle discipline proprie del tea tro con quelle, umanistiche o scientifiche, che ne costituiscono il nutrimento e che sole gli permettono di conseguire il proprio scopo, sia esso inteso come la «felicità»

4 Cfr. eventualmente il mio Per uno studio dell’attore nell’era della riproducibilità tecnica, «Acting

Archives Review», i, 2, novembre 2011, pp. 1-12.

5 Cfr. anche l’interessante excursus di C. Vicentini, Le zone oscure della recitazione. Questioni di

di cui parla Aristotele, o come «la sostanza di tutte le scienze» del Nāt.yaśāstra, la «grazia» di Zeami oppure l’«arte di vivere» invocata da Brecht. Perciò è importante tenere a mente quanto sottolinea Florinda Cambria nelle sue glosse del trattato di arte scenica hindù, vale a dire che il tea tro è un’attività esclusiva degli esseri umani, i quali a differenza degli dèi muoiono e a differenza degli animali sanno di morire.6

Gli esseri-in-vita-consapevoli-della-mortalità che fanno il tea tro sono gli attori. Riflettere in questo modo sulle arti dinamiche e sul tea tro in senso stretto, ovvero muoversi all’incontro delle sue molteplici culture, impone di lanciare lo sguardo su un vasto orizzonte: l’indagine sulle tradizioni tea trali passate e presenti si accom- pagna alla comprensione del nesso tra la pragmatica tea trale e la vita in tutti i suoi aspetti, individuali e collettivi. Non ci si può limitare a illustrare i testi del passato, a raccontare cosa “veramente è accaduto” in altre epoche, quale sia il senso dei clas- sici e via storicizzando. Indubbiamente l’insegnante dovrebbe possedere un solido bagaglio di conoscenze storiche e un’adeguata strumentazione ermeneutica, però dovrebbe utilizzare questo sapere per evidenziare un fenomeno evidente quanto sottovalutato, ovvero che la composizione tea trale (la rappresentazione, se voglia- mo) è il lavoro che i “composti”, cioè gli attori, compiono su se stessi in pubblico, sia pure cominciando nelle prove, per indurre una trasformazione analoga, benché diversa per grado di intensità, negli spettatori.

Questo movimento (più che insegnamento) può realizzarsi soltanto mobilitando risorse nuove, strumenti efficaci che riorientino la riflessione e la colleghino a prassi artistiche significative. Ecco che allora si pone il problema di identificarle, queste prassi, distinguendole da quelle sterili e da quelle che offrono esempi diseducati- vi. Non è facile: è come quando qualcuno che sta male ha bisogno di un dottore e deve trovare da sé quello giusto, salvo che nel nostro caso non esiste un albo di soggetti abilitati cui fare riferimento, esistono le storiografie in gran parte “scadu- te” e dalle quali comunque si devono prendere le mosse, e ci si trova di fronte a una massa di fenomeni artistico-spettacolari il cui valore raramente coincide con il rilievo che assumono nelle cronache, soprattutto oggi, con la decadenza del gior- nalismo tea trale – la cosiddetta “critica” – e con una saggistica che conosce le sue punte di eccellenza per lo più nel vecchio ambito storicistico. Perciò è giusto che l’attenzione dello studioso si orienti verso le rare esperienze davvero significative che a ognuno è dato incontrare e soprattutto frequentare, poiché soltanto un’assidui- tà, un’attenzione-amicizia, consente di trasformare gli incontri sul campo in sorgenti e trasmissione del sapere. Per cominciare è necessario da una parte individuare nella foresta del tea tro reale alcune esperienze particolarmente significative, osservando le quali si impara a essere potenziali spettatori di qualunque altro spettacolo; e, non

6 Cfr. Florinda Cambria, Il Workcenter e la «Casa del tea tro», in I sensi di un tea tro, Bonanno, Acireale-

meno importante, ci si deve confrontare con il carattere “contemporaneo” del nostro habitat, che al tempo stesso tende velocemente a svanire dall’orizzonte dell’espe- rienza per diventare memoria. In questo senso si è invocato il ricorso al documento audiovisivo, ma occorre partire dalla constatazione che non si tratta di un oggetto ben definito e si devono fare i conti con una realtà dalle mille sfaccettature.

1.

Le questioni metodologiche poste dallo studio della recitazione quando essa diventa “visibile a distanza” sono varie e si è rivelato finora impossibile risolverle

prima di mettersi al lavoro sui singoli casi; non resta dunque che operare nella singo-

larità che consiste nel procedere nel merito deducendo al tempo stesso un metodo. La questione degli exempla deve fronteggiare una miriade di problemi che appa- rivano e talvolta ancora appaiono senza soluzione. Se è vero, infatti, che occuparsi del tea tro e degli attori prendendo in considerazione i reperti audiovisivi indubbia- mente arricchisce le possibilità euristiche, è anche vero che bisogna chiedersi ogni volta quanto e come le caratteristiche dei media cui si fa ricorso e l’impronta indivi- duale degli autori dei documenti abbiano determinato la loro peculiare qualità, non senza interrogarsi sul contesto storico e tecnologico che li ha prodotti. Ciò significa, per esempio, che un monologo inciso da Tommaso Salvini oltre cento anni fa non pone gli stessi problemi di una registrazione di Leo de Berardinis E quale, poi? Quelle della televisione in bianco e nero di trenta-quarant’anni fa sono tutt’altra cosa rispetto a quelle realizzate dall’artista negli anni Novanta, così come l’unico film di Eleonora Duse è incomparabile con quell’altro, pure muto, di soli dieci anni dopo, in cui appare Renée Falconetti, mentre i film interpretati da Michail Čechov, uno muto d’epoca sovietica e altri del periodo americano, ci parlano di “civiltà” e di istanze creative incommensurabili, eccetera. Questo accade non a causa dei rispettivi conte- nuti, sono le lingue a essere diverse tra loro, i mondi in cui sono nati gli audiovisivi sono diversi tra loro, mentre noi apparteniamo a un altro mondo ancora, a un’altra antropologia, forse più distante da quella dei primi attori registrati e filmati di quanto non fosse la loro da quella di un uomo del Rinascimento.

In attesa che appaia qualche decisivo studio che proponga un persuasivo meto- do generale per valutare la recitazione tea trale riprodotta, non resta che procedere empiricamente a compilare almeno una prima casistica che permetta, a partire dai casi affrontati, di enucleare alcune questioni di merito e di metodo, nella speranza che gli evidenti limiti di quanto si è fatto fino a oggi possano essere superati da altri autori.7

7 Tra i contributi più recenti e cospicui si segnala Claudio Vicentini, L’arte di guardare gli attori,

Si definisce “modernariato” il reperimento e il commercio di oggetti prodotti in serie dalla civiltà di massa, appartenenti a diverse “generazioni” della tecnica e del gusto e scomparsi dal nostro orizzonte dopo essere stati per qualche tempo alla moda e poi superati da nuovi oggetti. I supporti relativi alla riproduzione dell’arte attoriale appartengono in un certo senso al modernariato, anche se non si può dire che nello studio del tea tro esista un antiquariato, perché i pezzi unici di fattura artistica o arti- gianale del passato sono di fatto scomparsi con i rispettivi attori e li si frequenta solo indirettamente attraverso le testimonianze e la documentazione “laterale”.

2.

Abbiamo dunque a che fare con “oggetti tea trali” appartenenti a due epoche, per quanto creati dalla medesima categoria di produttori. La loro expertise, il loro “consumo” o il loro impiego sono molto differenziati a seconda dei casi, praticamen- te infiniti a causa della varietà che presentano all’interno di ogni tipo, pur definibile, e pongono una miriade di questioni inedite e peculiari non ancora sistematizzate (sempre se non ignoriamo qualche contributo fondamentale in ambito storico-scien- tifico). In sostanza, sembra di comprendere, siamo soltanto nella preistoria di questa disciplina. Esistono, dai primi anni del ventesimo secolo, molte incisioni audio di attrici e attori, a volte “rubate”, in genere sottovalutate dai loro protagonisti, oppure al contrario concepite come esperimenti di testimonianza o persino come autono- mi prodotti commerciali. A questa specie appartengono i tre dischi Zonophone di Tommaso e Gustavo Salvini, rimasti in un cono d’ombra sia per gli stessi attori sia per gli storici del tea tro, ma anche, per esempio, i dischi di Alexander Moissi,8 al

tempo prodotti di successo, e moltissime altre incisioni realizzate in Europa e in America che, per quanto distanti dalle immagini relative alle medesime interpre- tazioni, hanno il pregio di riproporre brani dei rispettivi repertori tea trali (mentre il cinema, soprattutto con il passaggio al sonoro, a partire dal 1927, inclina sempre più verso la ricerca della propria specificità espressiva). Vi sono poi film muti o sonori un articolato e convincente protocollo di lettura della recitazione di attrici e attori appartenenti a diversi contesti culturali. La differenza più rilevante tra l’opera di Vicentini e il lavoro cui qui si fa riferimento consiste nell’accento, lì posto sulla “lettura” e qui sulla “composizione”. Ma cfr. anche il sito «Acting Archives» nel suo complesso cit.

8 Di Alexander Moissi sono reperibili tre registrazioni: il monologo del Faust di Goethe (1911, Berlino,

Schallplatte Grammophon), il monologo dell’Amleto di Shakespeare (inciso probabilmente nel 1912 a Berlino dalla società Electrola) e il Prometheus di Goethe (1912, Berlino, Schallplatte Grammophon). Le tre registrazioni sono ascoltabili su youtube:

<http://www.youtube.com/watch?v=i66lgFux9jc>; <http://www.youtube.com/watch?v=CnqOMWuc218>; <http://www.youtube.com/watch?v=VFc3cO2oZkQ>.

che riprendono performance tea trali. Può trattarsi di opere adattate allo schermo o meno, oppure di prove o di frammenti. Le loro caratteristiche variano considerevol- mente a seconda del contesto culturale e tecnologico, e degli autori. Questi even- ti recitativi possono essere intenzionalmente adattati alla ripresa cinematografica, possono essere o meno ideati e diretti dagli stessi autori degli spettacoli, possono avere uno scopo di documentazione e memoria oppure essere concepiti come opere autonome, prima cinematografiche e poi anche televisive. Un ventaglio ricchissimo di possibilità, come si vede.

Nel caso degli artisti russi di inizio Novecento si incontrano documenti molto dissimili tra loro. Numerose pellicole appartengono alla stagione del muto. Tra queste vi sono, di particolare interesse, due film realizzati dal regista Yakov Protazanov come L’uomo del ristorante (Čelovek iz restorana, 1927) e L’aquila bianca (Belyy

oryol, 1928):9 il primo registra fortunatamente una performance di Michail Čechov

che, sebbene l’attore non sia ripreso in un’opera tea trale, costituisce un interessante contrappunto alle sue partecipazioni, ricondotte a moduli realistici, proprie dei film americani degli anni Quaranta-Cinquanta, nei quali Čechov appare come interprete di prima o di seconda fila in opere altrui. In questi contesti la sua impronta è comun- que forte (l’attore interviene persino sul proprio copione), ma, come s’è detto, pur mostrando una propria originalità, non può spingersi fino alla grandiosa polifonia recitativa grottesca che tutti gli riconoscevano. Il secondo contiene un dialogo tra il “convenzionalista” V. E. Mejerchol’d e uno dei principali attori stanislavskiani, il “naturalistico” Vasilij Kačalov. Vi sono poi alcuni frammenti riguardanti gli esercizi di biomeccanica e il Revisore (1926) diretto da Mejerchol’d.10 Tra i reperti dotati di

sonoro vi sono due sequenze dell’ineffabile Igor Il’inskij ripreso mentre in camerino “costruisce” uno dei propri più famosi personaggi, e una conversazione dell’anziano Stanislavskij con i protagonisti del suo laboratorio sul Tartufo di Molière. Ognuno di questi reperti esige un’analisi particolare, inapplicabile agli altri casi, per esempio a quello assai lontano di un Louis Jouvet protagonista e in effetti coautore di alcuni film che ripropongono i suoi successi tea trali.

Nel secondo dopoguerra entra in gioco la televisione, da intendere nella sua cangiante specificità e non come una derivazione del cinema o un mero strumento per riprodurre o divulgare il tea tro. Dagli anni Cinquanta il piccolo schermo ha rimodulato e variato continuamente i modi di approccio all’arte della scena e alla recitazione, coinvolgendo tra l’altro attori e registi nell’inedito processo creativo, con esiti che più distanti tra loro non si potrebbe concepire: basti pensare al “tea tro

9 Čelovek iz restorana (L’uomo del ristorante, 1927), regia di Yakov Protazanov, con Michail Čechov,

Vera Malinovskaya, Ivan Koval-Samborsky, Mikhail Narokov. Belyy oryol (L’aquila bianca, 1928), regia di Yakov Protazanov, con Vasilij Kačalov, Anna Sten, Vsevolod Mejerchol’d.

10 Das Theater Meyerholds und die Biomechanik (Il tea tro di Mejerchol’d e la biomeccanica), video di

televisivo” dell’attrice di origine russa Tatiana Pavlova e alle opere, prima in bian- co e nero e poi a colori, di Carmelo Bene. Non meno importanti e più numerosi di quanto si pensi sono, sin dall’inizio del secolo, i casi “misti”, non strettamente riconducibili alla tipologia principale. Sarah Bernhardt, per esempio, appare come attrice in film che riprendono le sue apparizioni tea trali,11 adattandole rozzamente

alla sintassi del muto, mentre la sua contemporanea Eleonora Duse è un’artista che riflette sulla specificità del cinema e realizza una sola opera, di fatto dirigendola in ogni suo aspetto. Un caso affatto diverso e anomalo sarà quello del Principe costan-

te di Jerzy Grotowski, laddove il montaggio di una registrazione audio e una video

separate da anni e realizzate clandestinamente permettono di rievocare l’arte supre- ma di Ryszard Cieślak e uno degli spettacoli chiave del Novecento.

Un principio da applicare a ognuno di essi in effetti esiste, e consiste nella necessità di considerare attentamente il contributo comunque decisivo degli autori della registrazione audiovisiva, il loro orientamento e il loro conferimento di senso. L’autore dell’audiovisivo è il “regista ultimo”, nel senso che è stato lui a decidere, sostituendosi al pubblico del suo tempo, che cosa gli spettatori differiti dovessero vedere e sentire. Da ciò due importanti conseguenze: anzitutto, considerando che noi posteri non siamo i destinatari naturali di quelle riprese, dobbiamo in qualche modo tenere conto di questa discontinuità e valutare attentamente come i medesimi supporti assumano un significato diverso a seconda del contesto in cui vengono presi in considerazione: una lezione, poniamo, un passaggio televisivo o cinematografico propongono percezioni decisamente poco paragonabili tra loro; in secondo luogo non bisogna dimenticare che la testimonianza audiovisiva è orfana di un elemento fondamentale, il pubblico. Qualche volta la presenza degli spettatori è avvertibile sul fondo o persino nelle singole inquadrature (si pensi ad Akropolis di Grotowski), ma anche in questi rari casi la relazione tra le due metà del tea tro è difficilmente perce- pibile, mentre noi spettatori di oggi non esercitiamo alcuna influenza sulla perfor- mance. L’amputazione non riguarda soltanto la documentazione dello spettacolo nel proprio contesto storico-culturale, ma anche, e non in misura secondaria, l’attore e la sua recitazione.

Anche qui occorre distinguere tra casi dissimili. Se i grandi interpreti della tradi-

11 Sarah Bernhardt appare tra l’altro nei seguenti film: Le duel d’Hamlet (Il duello di Amleto, 1900),

regia di Clément Maurice, con Pierre Magnier, Suzanne Seylor; La dame aux camélias (La signora

delle camelie, 1911), regia di Louis Mercanton; Les amours de la reine Élisabeth (Gli amori della regi- na Elisabetta, 1912), regia di Henri Desfontaines, Louis Mercanton, con Lou Tellegen, Max Maxudian,

Mlle. Romain; Adrienne Lecouvreur (1913), regia di Henri Desfontaines, Louis Mercanton, con Max Maxudian; Jeanne Doré (1915), regia di René Hervil, Louis Mercanton, con Raymond Bernard, Jeanne Costa, Suzanne Seylor; Mères françaises (Madri francesi, 1917), regia di René Hervil, Louis Mercanton, con Berthe Jalabert, Gabriel Signoret, Jean Signoret, Georges Melchior, Jean Angelo, Louise Lagrange, Georges Deneubourg; La voyante (La veggente, 1923), regia di Leon Abrams, Louis Mercanton, con Georges Melchior, Harry Baur, Mary Marquet, François Fratellini.

zione in un certo senso “portano con sé” la relazione con il pubblico anche nella registrazione audiovisiva, gli spettacoli di tea tri tradizionali come, poniamo, la

tazieh iraniana o il lhamo tibetano, siano essi integralmente mostrati (come è raris-

simo che accada) oppure oggetto di riprese documentaristiche, perdono qualcosa di sostanziale, proprio come diversamente accade quando vengono adattati alle scene

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