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Guardare anche altrove

«Il problema dell’arte è in realtà il problema del sapere: equilibrio del ritmo umano-cosmico, che pur esperimentiamo

tutti i giorni, non lo potremmo mai istituire se partissimo da una cieca distruzione totale e radicale del sapere occidentale, oppure da un’altrettanto cieca “resa” a un supposto sapere “orientale”».

Carlo Sini1

0.

Ci si dovrebbe chiedere perché una novità interpretativa di tale portata su Aristotele si sia manifestata soltanto oggi. Una risposta è che gli studi tea trali in tutto il mondo hanno acquisito una propria autonomia disciplinare in ritardo rispet- to ad altre discipline come le letteratura, la musica o le arti plastiche, e lo hanno fatto privilegiando discipline come la semiotica e lo strutturalismo, che poi hanno evidenziato, almeno in questo campo, vistosi limiti. I cambiamenti di oggi hanno a che fare con altre discipline che guardano alla tea trologia e viceversa, sia pure con un ritardo pluridecennale rispetto agli artisti. Non è questa la sede per ritracciare le vicende complessive della tea trologia italiana o internazionale e della mia vicenda personale qualcosa ho raccontato;2 è più utile sottolineare la caratteristica princi-

pale del movimento di pensiero che ha reso possibile la fase attuale. Guardando per esempio alla straordinaria irruzione di Carmelo Bene nel tea tro italiano, alla fine degli anni Cinquanta, ciò che si evince, soprattutto se la si confronta con la coeva trionfante istanza registica che possiamo rappresentare emblematicamente con l’asse Strehler-Brecht (regia-realismo critico), è il manifestarsi di una sensibi- lità affatto diversa, che sempre più precisamente nel corso del tempo si è concre- tizzata in una fenomenologia e anzi ha declinato e sviluppato in ambito tea trale alcuni motivi della ricerca filosofica che aveva preso corpo nel secondo dopoguerra e che poi, a partire dagli anni Settanta con Derrida, Foucault e Deleuze si è arric- chita anche in Italia, dove per merito di studiosi come Umberto Artioli e Maurizio Grande tra i primi, gli studi tea trali hanno fatto passi da gigante. Da allora un mate-

1 C. Sini, La voce, la luce, l’artista cit., p. 233. 2 In Smisurato cantabile, Edizioni di Pagina, Bari 2009.

rialismo integrale e dunque anche “metafisico”, non più ostaggio di storicismo e dialettica, unito a una “sensibilità fenomenologica” sempre più consapevolmente definita, ha cominciato a tracciare una nuova storia del tea tro, proponendo nuove interpretazioni della nostra e di altre tradizioni che ci aiuteranno a meglio operare nel presente. Su questo fronte della ricerca emergono in primo piano le vite degli attori, con tutte le loro declinazioni memoriali e discorsive, monumenti che rila- sciano un sapere a tutta prima invisibile (come in questa raccolta si cerca di testi- moniare), ma destinato forse a conquistare una consistenza che potrebbe diventare un patrimonio comune.

A parte i procedimenti gnosico-patici attoriali, materia di stretta competenza tea trologica, la questione tea trale è presente in Italia in ambito filosofico per merito soprattutto di Carlo Sini, come s’è detto più volte, nella cui opera da diversi anni sono poste in primo piano la dimensione estetica e una sensibilità non dualista unite a una nuova disciplina della distanza e dell’interpretazione. Sini insiste sulla necessità di volgere lo sguardo anche ad altre antropologie, in modo da cominciare a comprendere se, come e perché l’ontogenesi del dispositivo mimetico chiamato tea tro si manifesti in diversi contesti storico-sociali.

Nel contesto del ragionamento che qui si propone, un buon punto di partenza potrebbe consistere nel guardare a coloro che attorno al x secolo erano gli «inti-

mi nemici»3 dei non dualisti del Kaśmīr, vale a dire i filosofi buddhisti che sono

anche alle origini della grande tradizione tantrica tibetana. Su questo versante una delle letture più interessanti da affrontare è il trattato del maestro che è all’origi- ne dell’ordine monastico Gelug, Tsongkhapa (1357-1419), ora intitolato Tantra in

Tibet.4 Il testo è consigliabile nella versione inglese, curata dal Dalai Lama con

alcuni collaboratori.5 Il lettore comprenderà immediatamente tale scelta nell’ap-

prendere che l’edizione italiana traduce come «rito» ciò che i curatori dell’origi- nale rendono in inglese con «performance». In effetti il termine «rito» non sarebbe sbagliato, è soltanto generalmente frainteso. La questione richiede dunque una breve spiegazione.

La radice sanscrita r.t è rintracciabile all’altro capo del contesto indoeuropeo nelle parole rito (= ciò che dà valore; il contrario di rito è irrito, ossia inutile, vano),

arte (= termine che indica colui che danzando padroneggia le forze della vita; il

contrario di arte è inerzia), ritmo (= tempo della rappresentazione; non il tempo

3 Raffaele Torella, Prefazione, in Vasugupta, Gli aforismi di Śiva cit., p. 74.

4 Tsong-ka-pa, Tantra in Tibet. La Grande Esposizione del Mantra Segreto, trad. italiana dall’inglese

di Nazzareno Ilari, introduzione di Sua Santità Tenzin Gyatso, Quattordicesimo Dalai Lama, Ubaldini, Roma 1980.

5 H.H. the Dalai Lama, Tsong-ka-pa and Jeffrey Hopkins, Tantra in Tibet, translated and edited by

Jeffrey Hopkins, associated editor for the Dalai Lama’s text and Tsong-ka-pa’s text: Lati Rinbochay, assistant editor for the Dalai Lama’s text: Barbara Frye, George Allen & Unwin, London 1977.

del mondo ma un tempo speciale e generato nel suo tempo) e diritto (= le regole da rispettare per la composizione, la legge, ovvero la “poetica”). Queste parole deli- mitano i confini del fenomeno performativo tea trale. Per compiere il rito occorre l’arte: perché tutti sappiamo cosa deve accadere ma soltanto l’artista sa come fare, l’utilità della rappresentazione dipende da lui, dal suo modo di espressione. Il rito dice qual è il senso della vita, ne racconta ogni volta l’esito, cioè la morte, o meglio, mostra cosa succede al corpo che vive-e-muore. Ciascuno degli avvenimenti defi- niti “rappresentazioni” accadrà sempre e soltanto una “prima volta”6 dato che li si

esegue con il proprio corpo nel luogo e nel tempo circoscritto del rito (= il tempio). La validazione dipende dal rispetto del diritto comune (le convenzioni tea trali) agli artisti (o performer) e agli spettatori (i loro interlocutori). Non si dà tea tro al di fuori di questi confini, tanto che persino le espressioni tea trali di contestazione si caratterizzano per il restauro di ciò che nelle tradizioni è venuto a mancare, sia esso rito, arte, ritmo o diritto.

Poiché l’attore è l’attuante dell’azione e ogni essere umano è attore, non si tratta di estendere o applicare il tea tro al mondo, ma semplicemente di sapere che il mondo è un tea tro nel quale coabitano attori professionisti della scena e attori sociali: tutti coloro che accedono alla dimensione tea trale, si sottopongono più o meno consapevolmente e rigorosamente alle leggi delineate da quelle quattro paro- le. E i migliori attori non sono necessariamente i professionisti, bensì coloro che sanno e coltivano questo aspetto peculiare della vita umana, ovvero la consapevo- lezza di esseri che sanno della morte e sanno dominare le forze della vita secondo le particolari modalità di composizione alle quali sono stati educati. In ogni caso i protocolli tea trali sono imprescindibili per il buon esito di qualsiasi disciplina, anche scientifica, altra ragione per cui il rito, l’arte, il ritmo e il diritto dovrebbe- ro far parte a pieno titolo della formazione dei cittadini, formazione alla finzione, ovvero al plasmare. Non è il tea tro, dunque, ad avere il compito di modernizzare la formazione; la formazione è di per sé un tea tro, non un passaggio di nozioni ma un educarsi a fingere, fingere la vita e la morte, e imparare con tutto il corpo, come accadeva nella preistoria, quando in fondo alle grotte i dipinti e le performance rituali erano propedeutici alla formazione come cacciatori, insegnavano che occor- reva dare e rischiare la morte per procurarsi la vita, nonché a muoversi a ritmo e secondo il diritto. Il formatore deve essere capace di buona finzione affinché il suo “coro” possa imparare osservandolo all’opera.

In base a questo filo rosso che va dai greci all’antica India passando per l’esal- tazione e le tragedie della modernità, la nuova centralità invocata per il tea tro esige

6 «Riassumendo, il tea tro è solo una “narrazione” fatta di una ri-percezione […] e non una forma di

riproduzione. Se, però, voi dite che è una riproduzione, nel senso che segue la “produzione” della vita reale, ordinaria, non è un errore. Una volta che i fatti sono stati determinati chiaramente, le parole non meritano di diventare fonte di disaccordo». Cfr. Abhinavagupta, The aesthetic experience cit., p. 101.

l’elaborazione di un pensiero inedito o sicuramente molto differente da quello che ci è più familiare, sia per quanto riguarda le professioni della scena in senso stretto sia per il tea tro sociale e il complesso dei sistemi formativi.

1.

Per quanto riguarda la possibile ontogenesi del tea tro ci limiteremo qui ai cenni necessari per predisporsi a un confronto con un testo tanto fondamenta- le quanto poco conosciuto come il Nāṭyaśāstra e con il relativo commentario di Abhinavagupta, fonti di un sapere a fronte del quale il nostro Aristotele rischia di apparire alquanto carente, per lo meno nella riflessione sul processo creativo/ compositivo e, soprattutto, sulla peculiarità dell’esperienza artistica per gli attori e gli spettatori.

La studiosa francese Sonia Sarah Lipsyc7 ricorda che il pensiero filosofico in

Grecia ha inizio verso l’inizio del v secolo a.C., quando la Rivelazione iniziata con il dono della Sinai, atto che fonda l’Alleanza (e la legge) del popolo ebraico con l’Eterno, non è più avvertita come qualcosa di vivo e funzionante. Il Libro di

Ester, il primo “copione tea trale” di quella tradizione, sarebbe stato redatto nello

stesso periodo in cui Eschilo componeva I persiani. Dunque il tea tro sorgerebbe nell’antropologia ebraica al momento dell’eclisse di Dio. Nel Talmud è scritto che dal giorno in cui il primo Tempio è stato distrutto (416 a.C.) «l’ispirazione divina è stata revocata ai profeti e donata ai saggi». Proprio come in Grecia, dove alla eclissi degli dèi corrisponde la comparsa della filosofia. Lipsyc pone una domanda che in realtà è un’affermazione: «Questa assenza di Rivelazione è all’origine del tea tro?»,8

affermazione corroborata da quanto si legge nel finale di un illuminante saggio di Ugo Volli sulla Torah, laddove si afferma che «con la chiusura del canone biblico finisce anche per il mondo ebraico il tempo della profezia e domina il pensiero ermeneutico»,9 pensiero che pur conservando l’accento sulla integrità della “legge”

che costituisce l’enunciazione di qualunque autore (Dio compreso) pone un nuovo e decisivo accento sull’interpretante, sulla sua libertà e responsabilità. Su queste basi il tea tro si conferma essere una manifestazione di gnosi – da intendere come ricerca della conoscenza per mezzo dell’esperienza individuale e collettiva – in

7 Cfr. S. S. Lipsyc, Salomon Mikhoëls ou le Testament d’un acteur juif, Cerf, Paris 2002. Il volume

propone una pièce ispirata alla figura di Michoels con aggiunta di diversi documenti e annotazio- ni critiche. Per l’autrice, attualmente docente all’università di Concordia (Montreal, Canada) si può fare riferimento al blog: <http://soniasarahlipsyc.canalblog.com/archives/theatre/index.html>, dove è proposta un’ampia raccolta di materiali.

8 Ivi, p. 257.

9 U. Volli, Domande alla Torah. Semiotica e filosofia della Bibbia ebraica, L’Epos, Palermo 2012,

entrambe le tradizioni culturali che fondano l’Occidente. Almeno, così potrebbe essere sintetizzato il punto di vista di una teologia negativa – sul cui contenuto avremo modo di ritornare – colta nel suo momento aurorale. Una peculiarità della tradizione ebraica consiste nello scegliere la pagina anziché la scena come luogo primario dell’interpretazione. In una prospettiva più strettamente antropologica e filosofica, invece, potremmo dire che Il libro di Ester è un racconto in forma drammatica che rimanda a qualcosa che viene prima di ogni teologia o ideologia, ovvero alla consapevolezza delineata da Jean-Luc Nancy: «Non bisognerebbe dire pertanto che il culto precede il tea tro e lo genera, bensì che il corpo-tea tro precede tutti i culti e tutte le scene. La tea tralità non è né religiosa né artistica – anche se la religione e l’arte derivano da essa. È la condizione del corpo che è esso stesso la condizione del mondo: lo spazio della comparizione dei corpi, della loro attrazione e repulsione».10

Ciò che qui è in questione è il corpo nella sua duplice accezione di corpo che si conserva in vita e di corpo mimetico, creativo, il corpo che costruisce e utilizza le proprie macchine culturali11 per definire di volta in volta la forma capace di dare

identità e di conseguenza diritto di esistenza a un individuo oppure a una comunità. Essendo la mimesi ricerca di conoscenza e la mimesi tea trale la sua manifesta- zione più completa, la ricerca rappresenta l’opposto di una fede consustanziale alla Rivelazione. Pertanto il tea tro è processo gnosico che naturalmente include il patico.12 Quando la religione è considerata l’ultimo orizzonte si presenta domi-

nata dall’enigma tragico della morte e del male, quando invece è calata nella vita del popolo si arricchisce di ironia, si fa dubitativa, rovesciamento carnevalesco, e naturalmente critica degli apparati di potere che la utilizzano come travestimento.

Dal momento in cui il tea tro diventa un lavoro comune della gnosi comincia a svolgere la propria storia nella storia, modulando i propri atteggiamenti, fino all’i- stanza moderna di “farsi la Rivelazione” e incarnarla. Non a caso gli artisti yiddish arriveranno a definire, per esempio, il proprio tea tro nella Russia sovietica come

10 J.-L. Nancy, Corpo tea tro, Cronopio, Napoli 2010, p. 36. In questo caso chi scrive si avvale dell’au-

torità del filosofo francese per ribadire quando va sostenendo da diversi anni, sempre senza esito rispet- to alla comunità degli studi.

11 Sul concetto di «macchina» si veda Carlo Sini, Il potere invisibile, «Nóema», 4-2 (2013): <http://

riviste.unimi.it/index.php/noema>, pp. 1-25. Oppure, qui, il cap. Aporie della transdisciplinarità.

12 La questione della fede pertiene all’antropologia storica dei sistemi di pensiero monoteisti, nell’am-

bito dei quali, quando la conoscenza raggiunge il limite individuale, e se questo coincide con un punto del confine umano, si ferma il patire e si ferma anche il conoscere, il soggetto si assenta o svanisce e resta il suo vedere. Nelle strategie mimetiche delle tradizioni orientali la questione è differente. Si consideri per esempio nel caso tibetano o indiano, dove la ritualità e il “tea tro” sono concepiti in una declinazione tantrica, come riti di inveramento e verifica che scaturiscono da religioni politeistiche, cioè a-teistiche. In proposito cfr. almeno André Padoux, Tantra, a cura di Raffaele Torella, Einaudi, Torino 2011.

«tempio» oppure «nuova sinagoga»13 e così via via la gran parte dei rivoluzionari

tea trali del Novecento.

2.

La cultura vedica e post-vedica conseguente all’arianizzazione del subconti- nente indiano, a partire dal xx secolo a.C., era dapprima di tipo sciamanico. Solo

successivamente essa si trasformò e si differenziò, dando vita, tra l’altro, al nuovo dispositivo tea trale cui si riferisce il Nāt.yaśāstra. Dunque l’anello di congiunzio- ne tra la fase in cui operatori del culto e “attori” coincidevano e quella delle arti sceniche professionali andrebbe cercato prima del Nāt.yaśāstra stesso.14 Tutto ciò

dice dell’esistenza e dell’importanza, fino da tempi molto antichi, di modalità di rappresentazione differenziate per funzioni e tecniche, nonché correlate tra loro e relativamente impermeabili alle influenze più diverse (prima fra tutte quella elleni- stica dovuta alle conquiste in India occidentale da parte di Alessandro Magno, 326 a.C.).15 Un fattore dinamico è semmai costituito dalla coesistenza e dall’interazione

tra forme alte, cortigiane, e basse, popolari, interazione che favorisce la creazio-

13 A. Attisani, Solomon Michoels e Veniamin Zuskin. Vite parallele nell’arte e nella morte, Accademia

UP, Torino 2013, p. 59.

14 I documenti in proposito scarseggiano, non così le tracce, che senz’altro, con il prosieguo degli studi

comparati, nel tempo acquisteranno maggiore consistenza e probabilmente consentiranno di fissare qualche risultato. Una traccia è offerta da Pān.ini, studioso e grammatico del sanscrito del iii secolo a.C.,

il quale fa riferimento a un testo perduto intitolato Nāt.asūtra, «libro di aforismi sulla drammaturgia».

Nāt.a in sanscrito ha molti significati (attore, danzatore, acrobata…) e dunque i sūtra destinati ai nāt.a

altro non sarebbero che i testi per i primi specialisti o professionisti dello spettacolo, non sappiamo in che misura riferiti ai concreti saperi tecnici. Questi attori si raccoglievano, nell’India vedica, in una casta separata, rispettata o tollerata, almeno fino al iv secolo a.C. Nel Mahābhārata vi sono numer-

sosi riferimenti ai nāt.a e il più tardo Rāmāyan.a cita spesso i nārt.aka (danzatori) e i nāt.aka (drammi). Mentre Patañjali, nel proprio Mahābhās.ya, composto presumibilmente circa centocinquant’anni prima dell’era cristiana, indica tre modi di presentare la storia di Kr.s.n.a: narrazione, esibizione di dipinti e realizzazione di episodi per mezzo di attori.

15 In proposito cfr. L’influence greque, in Sylvain Lévi, Le théâtre indien, (1890), 2 tomi, Collège de

France, Paris 1963, p. 434 sgg. Non si entra qui nel merito delle fiere discussioni condotte per decenni su questo tema dalle sottili implicazioni psico-politiche. Gli studiosi indiani tendevano per lo più a negare l’influenza ellenica sul tea tro indiano, gli occidentali viceversa. La posta in gioco era l’origi- nalità del modello. In realtà, sino dalla fine del xix secolo la questione era stata posta, su ampia base

documentaria, in termini molto sfumati, almeno per quanto riguarda l’ellenismo. Per un riassunto della

querelle, che però non considera Lévi, cfr. Laura Piretti Santangelo, Il tea tro indiano antico – Aspetti e problemi, Clueb, Bologna 1982, p. 78 nota. Di diverso peso e interesse sarebbero altre direzioni d’in-

dagine, prima fra tutte quella riguardante ciò che giungeva in India e nell’Asia centrale dall’altipiano iranico attraverso l’attuale Afghanistan, tema sul quale si può cominciare un non ozioso ragionamento con Giuseppe Tucci, La via dello Swat, (1963), Newton, Roma 1996.

ne nel corso dei secoli di un ambiente culturale straordinariamente ricco, in parte sopravvissuto grazie al rifugio che ha trovato in altre regioni, soprattutto in Tibet.

Il Nāt.yaśāstra (letteralmente «Sapere [o scienza] del tea tro») è un testo di circa seimila distici suddivisi in trentasei capitoli, difficile da ricomporre nella sua presunta integralità e, bisogna ammetterlo, anche da interpretare.16 Secondo

Manomohan Gosh risale a oltre duemila anni fa, al tempo in cui Aristotele compo- neva la propria Estetica.17 Adya Rangacharya è di parere diverso e lo colloca tra il vii e l’viii secolo d.C., precisando però che il testo sarebbe una raccolta e sistema-

zione di testi precedenti. Altri studiosi sostengono che le parti più antiche potreb- bero risalire al i secolo d.C., il nucleo più consistente al iv-vi secolo e la parte più

tarda al vii-viii secolo d.C.18 Se poi si tiene conto della eterogenea datazione dei

materiali e degli eventi ai quali si riferisce, delle redazioni e della presunta stesura definitiva, le cose si complicano ulteriormente. Sin dall’inizio fare copie del Nāt.

16 Il corpo principale del trattato è scritto nel metro śloka, antico, di tradizione popolare e facile da

memorizzare, metro affermatosi dopo la letteratura dei sūtra; anche il Mahābhārata e il Rāmāyan.a, che appartengono alla letteratura epica, adottano il metro śloka. Cfr. Manomohan Gosh, 1. The

Nāt.ya śāstra ascribed to Bharata-Muni, Vol. i, Ch. i-xxvii, prima ediz. 1959, ed. with an intr. and

various readings by M. God, Manisha Grantalaya, Calcutta 1967. Intr. pp. xvii-lxxxii. Testo in sanscri-

to; 2. The Nāt.ya śāstra – A treatise on Ancient Indian Dramaturgy and Histrionics ascribed to Bharata-

Muni, Vol. i, Ch. i-xxii, prima ediz. 1951, completely translated for the first time from the original

Sanskrit with an Introduction, Various Notes and Index by Manomohan Gosh, revised second edition, Manisha Grantalaya, Calcutta 1967. Intr. pp. xvii-lxvii, testo in inglese; 3. The Nāt.ya śāstra – A treatise

on Ancient Indian Dramaturgy and Histrionics ascribed to Bharata-Muni, Vol. ii, Ch. xxviii-xxxvi,

completely translated for the first time from the original Sanskrit with an Introduction, Various Notes and Index by M. Gosh, Manisha Grantalaya, Calcutta 1961; cfr. anche Adya Rangacharya, Nāt.ya śāstra, English translation of the Sanskrit treatise ascribed to Bhārata Muni by Dr. Adya Rangacharya, Prakashana, Bangalore 1986, Intr. pp. vii-xiv by Adya Rangacharya, Usha Desai, Shashi Deshpande.

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