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Applicare una regola

Immaginazione e uso dell’immaginazione

1. Applicare una regola

1.1 È bene chiarire fin da subito in quale contesto appaia in Kant il termine «immaginazione». Se nell’Antropologia, nelle lezioni kantiane pubblicate da Karl Pölitz e — più generalmente — nelle considerazioni di carattere antropologico l’«immaginazione» sembrerebbe venir caratterizzata come appartenente esclusivamente al dominio «sensibile», nella prima e terza Critica — di contro — essa assurge a mediatrice tra «sensibilità» e «intelletto» lato sensu. Sebbene i luoghi testuali dello stesso periodo «critico» diano dunque 40

talvolta luogo a talune oscillazioni, è possibile rilevare una certa coerenza nel modo kantiano di trattare la capacità di immaginazione: «immaginazione» fa la sua comparsa in Kant ogniqualvolta ne va dell’applicazione di una regola. Il contesto problematico in cui «immaginazione» gioca il suo ruolo è propriamente quello dell’applicazione concreta di una regola supposta universale. Sennonché, per Kant, ogni applicazione concreta di una regola o legge universale risulta problematica, a causa di quello iato, in linea di principio incolmabile, che separa le due dimensioni — quella della regola e quella del caso particolare cui essa si

Per un organico resoconto delle varie e molteplici caratterizzazioni kantiane della nozione di

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«immaginazione» nelle proprie considerazioni da un punto di vista antropologico cfr. Mörchen 1930: 319-352; Paschi 2005: 51-90.

applica. In questo iato tra regola e sua applicazione, in questa soglia, trova dimora l’«immaginazione». Questo è un punto di cruciale importanza.

Prima di addentrarsi in questa soglia tra regola e sua applicazione, dove secondo Kant l’immaginazione ha fissa dimora, bisognerebbe innanzitutto darne conto. Ossia: specificare che cosa si intenda con questo iato che separerebbe una regola da una sua applicazione concreta. A prima vista, infatti, tutto ciò potrebbe risultare ben sorprendente. Il punto è riconoscere come Kant — e come, successivamente, pensatori della tradizione occidentale alla stregua di Ludwig Wittgenstein (1953, §201: 87), Carl Schmitt (1922: 55-56) e Hans-Georg Gadamer (1960: 36, 10) — avesse coscienza del fatto che vi sia una vera e propria incommensurabilità tra una regola e la sua applicazione. In effetti — e a ben vedere — «nessuna regola dà ragguagli su come la si debba applicare in un singolo frangente» (Virno 2010b: 16). E viceversa: da un gesto, un proferimento o un’azione non si è mai in grado di risalire in modo automatico e certo alla regola di cui essi sarebbero applicazione.

Alcuni esempi tratti direttamente dalla filosofia kantiana. Si prenda l’applicazione delle categorie dell’intelletto agli oggetti dell’intuizione sensibile. Stando a Kant, per poter parlare di «esperienza oggettiva» è necessario applicare «regole a priori» agli oggetti che ci si presentano nella sensibilità. A queste «regole» Kant dà il nome di «categorie» o «concetti puri dell’intelletto». Il problema è che esse non danno ragguagli su come le si debba applicare. Perciò è necessaria una deduzione trascendentale, ossia «la spiegazione del modo in cui tali concetti possano riferirsi a priori ad oggetti» (KrV A 85/B 117; 142). In altre parole: la conoscenza o la coscienza, anche perfetta, di una regola non dice mai nulla sulla sua applicazione. «Nessuna regola fornisce nello stesso tempo tutte le condizioni necessarie e sufficienti per la sussunzione di un caso particolare sotto di essa» (Garroni 1978: 143). Un altro esempio, sempre tratto dalla filosofia trascendentale. Si prenda in considerazione la valutazione estetica di un oggetto, ovvero quando si dice: «x è bello». Per Kant predicare la bellezza di un oggetto deve essere considerato alla stregua di un atto applicativo la cui regola tuttavia non si può addurre. Quando si dice: «x è bello» l’enunciato si presenta come un gesto applicativo da cui non si è in grado di risalire alla regola di cui esso sarebbe… applicazione. In altre parole: esso ha la forma di un gesto applicativo, di cui però non si intravede la regola della propria applicazione. Di conseguenza: si dà il caso che un gesto o un proferimento non diano mai ragguagli sulla regola di cui essi sarebbero applicazione.

Questa eterogeneità biunivoca tra regola e sua applicazione (la regola non dà mai ragguagli sul caso particolare cui andrebbe applicata; da un gesto concreto, a sua volta, non si è mai in grado di risalire alla regola di cui esso sarebbe applicazione) disegna il perimetro dello iato tra regola e sua applicazione. È in questo spazio vuoto — in «quella terra di nessuno che si estende tra il contenuto di una norma e ciò che fa o si dice nell’adempierla» (Virno 2010b: 17) — che prende casa l’immaginazione. Non a caso l’«immaginazione» gioca un ruolo fondamentale tanto nella Deduzione trascendentale delle categorie che nella Critica del giudizio di gusto.

1.2 La peculiare geografia kantiana dell’immaginazione, quella regione nebulosa tra la regola e la sua applicazione, e il suo potere di rendere omogeneo ciò che omogeneo non è, non devono trarre in inganno. Per Kant l’immaginazione non ha nulla a che vedere con un’attività libera da condizionamenti e presupposti. Si pone dunque la questione del suo uso o impiego solo e soltanto ogniqualvolta si presenti l’esigenza di applicare una regola in una situazione contingente; o, viceversa, soltanto laddove, a partire da un gesto, deve essere procurata o istituita una regola di cui esso si presenti come applicazione, non essendo la regola, a partire da esso, direttamente inferibile. È «quando ci si propone di attenersi a una regola in circostanze peculiari» (ibidem) che l’immaginazione si presenta come una risorsa, propria dell’uomo, per colmare l’incolmabile iato tra una regola e la sua applicazione specifica. Questo è il compito essenziale (inteso qui sia come «fondamentale» che come «unico») che Kant ascrive all’immaginazione.

1.3 Dunque, l’immaginazione è ciò che si colloca in quello spazio vuoto tra una regola e la sua applicazione — e ne colma lo iato. Sebbene ciò rappresenti tutto quel che c’è da dire di essenziale sull’immaginazione come «fenomeno unitario» in Kant — esso non è tutto. Vi sono casi speciali in cui acquista massima appariscenza quella «arguzia naturale» («Mutterwitz») mediante la quale l’immaginazione rende omogeneo ciò che omogeneo non è –– «arguzia» che solitamente giace sottotraccia. Vi sono dei casi in cui l’immaginazione fallisce questo suo compito — ma produce una rappresentazione corrispondente al suo fallimento. Alcuni casi, ancora, in cui essa gira a vuoto. Altri, infine, in cui essa stessa funge da regola — e nello stesso tempo da applicazione della regola.

Per questa ragione è necessario accogliere nella considerazione dell’immaginazione in Kant un ulteriore aspetto. L’immaginazione procura a una regola una certa applicazione — e viceversa: fornisce a un gesto applicativo una regola di cui possa dirsi applicazione. È vero: l’immaginazione rende possibile l’applicazione di una regola; dischiude a un gesto, un proferimento o un’azione la possibilità di essere applicazione di una qualche norma. Eppure, talvolta, l’immaginazione, per così dire, abita lo spazio vuoto tra una regola e la sua applicazione in un modo piuttosto irrequieto. Nel movimento che conduce da un gesto, un proferimento o un’azione alla regola cui sarebbero applicazione è possibile che l’immaginazione comporti il cambiamento della regola o il sorgere di una nuova regola. A partire da un gesto, l’immaginazione ha la capacità di salire nella dimensione delle regole, avanzando «lassù» la pretesa di modificare la regola di cui il gesto dovrebbe essere applicazione o, addirittura, di istituire una nuova regola, non avendone ora trovata, per esso, nessuna adeguata. Nel movimento inverso, invece, dalle regole all’applicazione, l’immaginazione può dischiudere alla regola la dimensione di… una nuova applicazione. A quella regola cui era solitamente associato proprio quel gesto applicativo, ora l’immaginazione ne assegna uno completamente diverso. Applicazione delle regole; e al contempo: cambiamento, sorgimento di nuove regole e nuova applicazione delle stesse; è questa la costellazione problematica nella quale si iscrivono le riflessioni kantiane sull’immaginazione.

1.4 Kant ha accuratamente raccolto le arguzie, gli «atti mancati», i giri a vuoto, i fallimenti e le trovate in cui l’immaginazione si imbatte nell’assolvimento dell’arduo compito di rendere omogeneo ciò che è massimamente eterogeneo. Nel gergo kantiano schematismo è la cronaca delle arguzie con le quali l’immaginazione rende possibile l’applicazione di una regola; il gusto il nome del suo girare a vuoto; sublime la constatazione del suo fallimento; genio l’effetto del suo libero uso. Queste arguzie, questi giri a vuoto, questi fallimenti, queste trovate dell’immaginazione accompagnano il suo difficile compito di rendere l’eterogeneo omogeneo. Un paio di questioni si pongono tuttavia in via preliminare: in che modo l’immaginazione colma lo iato incolmabile tra una regola e la sua applicazione? Quando è perché, inoltre, queste arguzie, questi giri a vuoto, ecc. acquistano improvvisamente appariscenza?

Per colmare lo iato tra una regola e la sua applicazione non c’è bisogno di postulare un’immaginazione «creatrice». Tutt’altro: Kant precisa più volte come una «sana» immaginazione sia estranea a questa dimensione fantastica, non essendo l’immaginazione «creatrice» di alcunché (Anth., Ak. VII: 179; 172), perché essa non è in grado di produrre «sensazione», bensì soltanto «intuizioni». Anzi: ritenere che l’«immaginazione» possa essere «creatrice» non causa soltanto cattiva filosofia e «chimere», ma addirittura «malattie della testa». Tuttavia, sebbene non possa dirsi creatrice, l’immaginazione è certo creativa. Tra i 41

meriti di Emilio Garroni, interprete kantiano di grande profondità, vi è l’aver rivolto l’attenzione sull’aspetto creativo della capacità di immaginazione. E così, in Kant, «se e solo se esiste (si può parlare di) legalità, esiste (ha senso parlare di) creatività e, naturalmente, viceversa» (Garroni 1978: 133). È soltanto nella cornice di un contesto regolato o «legale» che si può essere «creativi», e non quando regole e leggi disertano. Se, poi, lo spazio 42

proprio della «creatività» in questa cornice è esclusivamente quello della soglia tra regola e caso cui la regola si applica, allora la «capacità di immaginazione» coincide in tutto e per tutto con la «creatività». «Ogni regola applicativa intellettuale eventualmente fornita [per dar conto di una certa applicazione di una regola] richiederebbe una regola ulteriore per la sua applicazione, e così via» (ivi: 143). Perciò è necessario un «principio» non intellettuale, «costruttivo e creativo» grazie al quale poter applicare una regola, principio «possibile solo in funzione di una capacità costruttiva e creativa, non determinata da concetti» (ibidem). Questa «capacità costruttiva e creativa, non determinata da concetti» è proprio l’«immaginazione». «Principio trascendentale della creatività» (ibidem) è «il principio stesso dell’immaginazione» (ivi: 145). È possibile dunque già ottenere una risposta alla prima questione preliminare: l’«immaginazione» colma lo iato tra regola e sua applicazione «creativamente», ma senza «creare».

Prima di determinare più dappresso i modi specifici di questa «creatività senza creare», è bene prestare riguardo al fatto seguente: sia l’«arguzia» con la quale l’immaginazione abbina la regola a un gesto o a un proferimento; sia i propri lapsus, i propri fallimenti, i propri giri a vuoto e le proprie trovate occorrono sempre e soltanto quando della capacità di

«[Per Kant] la malattia [della testa] è quindi, fisiologicamente, il dare troppa forza ad una immagine

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chimerica al punto che essa agisce nel nostro cervello con la stessa forza della sensazione» (Paschi 2005: 63). Con questa affermazione si trova d’accordo anche Alessandro Bertinetto, che scrive (Bertinetto 2012:

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immaginazione ha luogo un «uso» o «maneggio». È tramite un uso dell’immaginazione che i modi specifici — anche difettivi — della creatività acquistano appariscenza. Perciò quelle caratterizzazioni kantiane meramente antropo-logiche di «immaginazione» in cui Kant si sforza di ripartire scolasticamente in innumerevoli e svariati modi la «bildende Kraft» (facultas fingendi), in quanto scevre di carattere «pragmatico», impediscono di cogliere l’immaginazione come «fenomeno unitario». Natura e funzione dell’immaginazione acquistano particolare appariscenza soltanto ogniqualvolta si verifichi un suo maneggio o uso all’interno della «terra di nessuno» in cui essa è confinata: tra una regola e la sua applicazione.

1.5 Si riassuma quanto detto nel modo seguente. (a) In quanto «fenomeno unitario» l’«immaginazione» ricorre in Kant solo e soltanto quando ne va dell’applicazione di una regola in generale (dalla regola al gesto, dal gesto alla regola). (b) Essa è per Kant «creativa», ma non si tratta di un’attività dello spirito «creatrice» e libera da costrizioni. Anzi, la «creatività» dell’immaginazione è addirittura subnormativa: «si manifesta unicamente nei sentieri laterali e impropri che ci capita di inaugurare mentre ci sforziamo di attenerci a una norma determinata» (Virno 2005: 11). (c) «Arguzie», giri a vuoto, fallimenti e trovate dell’immaginazione — da Kant accuratamente raccolti — occorrono quando dell’immaginazione si dà un «uso» o «maneggio».

Nota. È certo vero — come sostiene Emilio Garroni — che la «creatività» è possibile solo in un contesto legale. E quindi: non bisogna opporre, come fa Noam Chomsky, una rule-changing creativity a una rule-governed creativity, perché «cambiare la regola che ha governato finora la rappresentazione o la condotta pratica significa circostanziare altrimenti quella “attrezzatura precostituita” che sono le [leggi delle] categorie trascendentali» (Virno 2010b: 23). Di conseguenza: anche la rule-changing creativity chomskyana si risolve — in ultima istanza — a una mera «applicazione» di quelle condizioni legali «patrimonio comune a tutta l’umanità» (Garroni 1978: 131). La pratica dell’improvvisazione artistica è un caso concreto in cui rule-changing creativity e rule-governed creativity si rivelano indistinguibili. Scrive a riguardo Alessandro Bertinetto (2012: 132): «La creatività dell’improvvisazione artistica è in

questo senso una buona combinazione di rule-based e rule-changing creativity». Riconosciuta l’«improvvisazione artistica» come il «paradigma» di ogni azione «creativa», è inoltre possibile radicalizzare la stessa affermazione di Bertinetto: la «creatività» dell’improvvisazione artistica mostra perspicuamente come in ogni azione «creativa» di fatto non sia possibile distinguere tra una rule-changing creativity e rule-governed creativity. 43

2. Ἀφή, φαντασία, φαντάσµα: «tatto», «immaginazione» e «immagine»

nel De anima di Aristotele

2.1 Molteplici sono i motivi per cui è imprescindibile partire da Aristotele trattando di «immaginazione» e del suo uso in Kant. Non soltanto perché Aristotele è autore della prima compiuta teoria filosofica dell’immaginazione nella storia della filosofia occidentale; o perché essa fornisca di per sé spunti di notevole valore, degni di venir tuttora ripensati; ma anche — e soprattutto — perché la teoria aristotelica dell’immaginazione, esercitando un’ininterrotta influenza sulle teorie dell’immaginazione fino alla modernità, ha contribuito a determinarne il «vocabolario» e la cognizione. La caratterizzazione kantiana dell’immaginazione presenta difatti notevoli consonanze con l’impianto aristotelico, le quali risultano indispensabili per comprenderne natura e uso.

Scrive Hermann Mörchen, in uno studio di fondamentale importanza dedicato all’«immaginazione» in Kant (Mörchen 1930: 489-490):

«Introducendo questi [sc. Kant] la nozione di immaginazione, egli si appropria di una tradizione che determina in modo non inessenziale le sue nuove tendenze. Egli adotta la tradizionale definizione di immaginazione, la quale, ottenuta da un orizzonte filosofico completamente determinato, è essenzialmente più antica di quella della filosofia scolastica wolffiana, tanto secondo i propri fondamenti che secondo la propria formulazione… Con questo orizzonte generale della posizione tradizionale della questione dovrebbe dunque risultare perspicua anche l’unitarietà originaria da cui sorgono e vengono diretti i singoli problemi di Kant».

Per una trattazione dei modi della «creatività» in riferimento alla questione dell’improvvisazione

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musicale cfr. Bertinetto 2016b, in cui l’autore — con dovizia di argomenti — mette in crisi un paradigma correntemente accettato in ontologia della musica tramite l’analisi della pratica «creativa» dell’improvvisazione.

E ancora (ivi: 493):

«Soltanto in legame con questa tradizione si può riuscire a illuminare ciò che in Kant rimane ancora nell’oscurità».

La tradizione «più antica di quella della filosofia scolastica wolffiana» cui Mörchen fa riferimento è ovviamente quella aristotelica. Il che vuol dire: bene fa, chi, volendo dar conto 44

di tutte quelle caratterizzazioni kantiane di «immaginazione» meramente antropo-logiche (facultas formandi, facultas imaginandi, facultas praevidendi, facultas signatrix, ecc.), si rivolge alla filosofia wolffiana per tracciarne una genealogia, scorgendone là già i semi. Tuttavia, per cogliere l’«immaginazione» come «fenomeno unitario» — e per «illuminare ciò che in Kant rimane ancora nell’oscurità» — è necessario rivolgersi anzitutto ad Aristotele.

2.2 Col De anima la tradizione filosofica occidentale riceve in consegna la prima compiuta teoria dell’immaginazione. Una generale trattazione del peculiare «principio vitale»

Certo, lo studio di Mörchen, una dissertazione dottorale composta sotto la guida di Martin Heidegger

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e discussa nell’anno 1927/1928, con questo fugace richiamo ad Aristotele aveva per scopo quello di inserire la teoria kantiana dell’«immaginazione» in una dimensione propriamente «ontologica». Qui, tuttavia, si prescinde da questa intenzione interpretativa, e, riconosciuta la legittimità dell’istanza generale di Mörchen, ci si rivolge ad Aristotele soltanto come fonte per ottenere una caratterizzazione dell’immaginazione in Kant come fenomeno unitario.

Uno studio recente mostra come l’istanza avanzata da Mörchen sia fondata anche da un punto di vista storico. Scrive infatti Marco Sgarbi (2010: 254): «Si può affermare con certezza che Kant dovette rivolgersi alla scuola aristotelica di Königsberg per risolvere i problemi che la metafisica dogmatica lasciava irrisolti. È possibile indicare l’arco di tempo fra il 1766 e il 1772, cioè quand’egli era bibliotecario alla Schloßbibliothek, come il periodo più probabile di questo interesse, visti anche i suoi drastici e radicali cambiamenti dottrinali e concettuali, sebbene non sia da escludere un’influenza costante durante tutta la sua evoluzione spirituale, dato che la tradizione aristotelica a Königsberg non si era mai completamente sopita. Rimane da chiedersi se Kant fosse o meno un aristotelico. Kant di certo non si professò mai tale, ma… egli utilizzò nel corso degli anni strategie e dottrine aristoteliche per risolvere i problemi che la filosofia contemporanea non riusciva ad affrontare». Tuttavia, più che per «risolvere i problemi che la filosofia contemporanea non riusciva affrontare» — come ritiene Sgarbi — sembra che Kant, al contrario, abbia impiegato Aristotele come «vocabolario filosofico» per la caratterizzazione di alcune nozioni ben determinate (tra cui «immaginazione»). Sgarbi ravvisa inoltre nell’opera di Paul Rabe, autore particolarmente fedele ad Aristotele in questioni di psicologia, la «fonte più diretta e immediata» dell’aristotelismo a disposizione di Kant (ivi: 56): «Gli scritti di Rabe [la cui opera fu continuata e ripresa da Kypke e Burckhard, professori che Kant aveva certamente seguito durante i suoi studi universitari] e quelli connessi alle sue opere risultano essere la fonte più diretta e immediata dell’aristotelismo che Kant poteva avere a disposizione».

dell’animale è difatti la cornice in cui viene messa a punto questa teoria. «Anima» (ψυχή) è intesa anzitutto come quel «principio vitale» di cui «solo partecipano animali e piante» (De anim. I, 5: 411b). Ciò che tuttavia caratterizza e distingue il «principio vitale» peculiare degli animali — gli unici viventi ad avere «immaginazione» — da quello delle piante — che di «immaginazione» sono prive — è il tatto (ivi: II, 2: 413b):

«Per questo principio [vitale comune] spetta dunque ai viventi la vita. Ma è la sensibilità (αἴσθησις) che costituisce principalmente l’animale… Per primo il tatto (ἀφή) è per ciascuno principio della sensibilità. E come la facoltà nutritiva si può trovare separata dal tatto e da ogni altra sensazione, così il tatto dagli altri sensi… Quanto agli animali, tutti possiedono manifestamente il senso del tatto».

Il «principio vitale» o «anima» che animali e piante hanno in comune è detto da Aristotele «facoltà nutritiva». Ma prendere in esame questa «sorta di anima» (ivi: I, 5: 411b) comune a animali e piante non è sufficiente per una caratterizzazione del «principio vitale» proprio dell’animale. Proprio del vivere dell’animale è senza dubbio la «sensibilità» («è la sensibilità che costituisce principalmente l’animale»), e il «tatto» ha in essa un certo duplice primato. In primo luogo, il tatto «è per ciascuno principio della sensibilità». Inoltre: non solo non può darsi alcun tipo di «sensibilità» senza «tatto», ma esso si può trovare anche «separato dagli altri sensi». Non c’è dunque «sensibilità» — e quindi: vita animale — senza «tatto». Il tatto è un ingrediente indispensabile della sensibilità, e per questa ragione nessun senso si può dare senza di esso, sebbene quest’ultimo si possa dare senza tutti gli altri. «Tatto» allora è ciò che possiede ogni animale (ivi: II, 3: 414b): delle sensazioni è «la più necessaria» (ivi: II, 2: 414a). «Senza il tatto nessuno degli altri sensi esiste, esso invece esiste senza gli altri» (ivi: II, 3: 415a).

Il tatto, inoltre, a differenza degli altri sensi come la vista o l’udito, non ha un «sensibile proprio» (αἰσθητόν ἴδιον), bensì ne ha «parecchi differenti» (ivi: II, 6: 418a). Il colore è il «sensibile proprio» della vista, il sapore del gusto, il suono dell’udito. In effetti non è possibile «sentire» il sapore con l’udito, il suono con la vista o il colore con il gusto. E poi, in linea di principio: né la vista può ingannarsi sul colore, il gusto sul sapore o l’udito sul suono. Se «sensibile proprio» di un senso è ciò «che non è possibile sia sentito con altro senso e intorno al quale non è possibile ingannarsi» (ibidem), che significa che il tatto «ne ha

parecchi differenti»? Vuol dire soltanto che ha numerosi «sensibili propri»? E, allora, in cosa si distinguerebbe dalla vista, che ha come «sensibile proprio» non solo il colore, ma, ad

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