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Significare come «esercizio spirituale»

Sezione prima Uso e significato

3. Significare come «esercizio spirituale»

3.1 A questo punto è opportuno riassumere il percorso finora compiuto per poi presentare alcune tesi in riferimento all’oggetto proprio della ricerca (cfr. infra §§3.4 e seg.).

Il modo kantiano di intendere il significato di «idee» e «concetti» sembra consistere in certe pratiche molto affini a ciò che Pierre Hadot ha chiamato «esercizi spirituali». Tali pratiche coinvolgono tutto lo psichismo dell’individuo, consentendogli così di realizzare una vera e propria trasformazione di se stesso («conversione»). In ogni «esercizio spirituale» ad essere anzitutto usabile è la propria generica facoltà di usare. Non si dà per Kant alcun significato preesistente a un lavorio duro e «ascetico» su se stessi. Significare vuol dire: tenere a mente certe regole seguendole non senza difficoltà, mantenendosi entro determinati limiti e tenendo costantemente a freno la tendenza a varcarli. Come in ogni autentico «esercizio spirituale», nel significare sono in opera i dispositivi del «canone» e della «disciplina». Di conseguenza: il «significato» non comunica né informa, bensì anzitutto trasforma.

Inoltre, gli «esercizi spirituali» sono pratiche su se stessi destinate ad assicurare il proprio progresso spirituale verso lo stato «ideale» del saggio. Si tratta di un lavoro su di sé in vista della saggezza. Il significare «categorie» e «idee» consiste per Kant in una messa in pratica di quei medesimi atti che sono poi indispensabili per potersi incamminare verso

l’«ideale» del saggio: il controllo, la limitazione delle proprie tendenze naturali e la costante attenzione rivolta a se stessi («anche soltanto la parvenza esterna di un dominio di sé… fa sì ancora oggi che per una certa analogia noi chiamiamo filosofo chi sembra possedere tale dominio»). Non c’è allora differenza tra il significare e il ricordare piaceri passati o svolgere un’operazione aritmetica: si tratta sempre di «esercizi spirituali». Se la «filosofia» — come suggerito da Kant ne L’Architettonica — è la via per giungere alla saggezza (Weisheit) attraverso la scienza (Wissenschaft), allora la conoscenza e l’esperienza oggettiva sono mezzi, non fini. Esercitarle vuol dire impiegare se stessi in tecniche tali da realizzare una «conversione». Significare «categorie» e «idee» è un modo di lavorare su di sé in vista della saggezza alla stregua di: imparare a morire, astenersi dai piaceri sessuali, esercitare l’ironia. Perciò, significare è un «esercizio spirituale» in vista della «saggezza»; un atto da «riferire» anzitutto a essa, e non agli oggetti in vista della conoscenza.

3.2 Esemplare è il caso delle «categorie». Già Claude Levi-Strauss, sottolineando il forte «riferimento a Kant» della sua ricerca, gli riconosceva di aver posto il problema della conoscenza in maniera decisamente peculiare. «Filosoficamente», dichiarava in un’intervista del 1969 rilasciata a Paolo Caruso, «mi sento sempre più kantiano». «Kantiano» — continuava — «non tanto per il contenuto specifico della dottrina di Kant, quanto per la particolare maniera di porre il problema della conoscenza… La mia ricerca verte essenzialmente sulle “costrizioni mentali”, sulle categorie» (cit. in Galzigna 2008: 8). D’altro canto, Michel Foucault, in un periodo in cui aveva fecondamente spostato l’attenzione dalle pratiche disciplinari alle tecniche del sé, inscrivendo il proprio operato nella «tradizione critica che è quella di Kant» (Foucault 1984d: 631), faceva il pendant dell’antropologo con la seguente affermazione: «non è possibile alcun accesso alla verità senza ascesi» (cit. in Galzigna 2008: 11). Le «categorie», condizioni di possibilità dell’esperienza oggettiva, sono allora «costrizioni mentali»; la «verità» o «conoscenza oggettiva» non può prescindere da un certo lavoro su di sé letteralmente «ascetico». Quando si conosce oggettivamente qualcosa è già in atto una trasformazione sensibile di se stessi. Questa è la funzione della Critica: «trasformare» sensibilmente se stessi tramite una serie di «esercizi spirituali» — tra cui il significare le funzioni logiche del proprio intelletto o i concetti trascendentali della propria ragione.

3.3 La concezione kantiana del significato è affatto diversa da quella della tradizione del «discorso filosofico» moderno, secondo la quale il significato di un termine consiste nella sua semplice denotazione. Questo modo di intendere la significazione pare quantomeno lacunoso. Cos’è che manca? Per rispondere a questa domanda è sufficiente rivolgersi al modo in cui «categorie» e «idee» trovano significato: se si presuppone un significato di «categorie» e «idee» a un’ attività trasformativa sensibile rivolta alle proprie facoltà, allora ha luogo un dileguarsi del loro stesso significato. Ciò che solitamente si ritiene essere a garanzia di significato, una neutra e presupposta denotazione, in realtà conduce a una sua totale assenza. La denotazione dei «significanti» è quindi il risultato — e non il movente — di un’attività d’uso. Chi sostiene il contrario cade vittima di un’illusione che confonde l’effetto con la ragione.

Difatti, il significato di categorie e idee non ha in prima istanza a che fare con un «oggetto immediato», bensì con una pratica trasformativa, un lavoro sensibile su di sé. Solo apparentemente il nucleo del significato è un «riferimento» a un oggetto. Di fatto, il «riferimento» viene dopo, e prima, nel «retrobottega», si celano una serie di pratiche su di sé che rendono il caratteristico «riferimento» di concetti dell’intelletto anzitutto possibile. Si presti però ora attenzione a un dettaglio importante: nessuno — tantomeno Kant — in questo modo sostiene che il significato non comporti «riferimento». La questione qui è solo di come il significato significhi. E non si può capire come il significato significhi — questa è la lezione di Kant — se non lo si lega a un’attività trasformativa sensibile rivolta a se stessi. La purezza del «significato» di strutture trascendentali non può prescindere dalle «tecnologie del sé», da strategie di omissione, da difficoltosi processi di canonizzazione, e rimanda a una perenne dimensione che mostra il carattere preliminare di un lavoro «terragno» su se stessi.

3.4 La questione del «significato» mostra un tratto caratteristico di tutta la «filosofia» kantiana: la «filosofia critica» consiste in un’ortoprassi o un’ortochresi (ὀρθὴ χρῆσις), e non in una semplice ortodossia. Perciò, è da prendere alla lettera il celebre monito kantiano: la Critica non contiene i precetti di un determinato «discorso filosofico», bensì insegna a «filosofare». Il «filosofo critico» non è colui che difende strenuamente un certo corpus dottrinale, ma colui che usa le proprie facoltà in un determinato modo.

Queste considerazioni invero inducono a ritenere almeno plausibile l’ipotesi avanzata in principio di questa ricerca: leggere l’intera opera Critica come un Trattato sull’uso. Detto ciò, cosa ne guadagna l’oggetto polemico proprio di questo lavoro? Più specificatamente: come appare qui «uso» al modo del fondamento? Di fatto, quella del «significato» è una delle figure kantiane in cui l’«uso» come fondamento appare più perspicuamente: scaturigine del significato di «categorie» e «idee» è difatti una continua e ininterrotta attività trasformativa sensibile riferita a se stessi. Senza tale «uso» esse non troverebbero alcun significato: completamente materiale — e per nulla «teoretica» — è quell’operazione trasformativa che Kant pone all’origine del significato di «concetti» e «idee». Se con la Scuola di Marburgo si considera ancora la filosofia kantiana alla stregua di una «ordinaria» gnoseologia, si deve tuttavia convenire che il problema gnoseologico sia stato posto da Kant in maniera affatto particolare (cfr. supra §3.2).

3.5 In apertura di questa ricerca si è sostenuta l’ipotesi che le «categorie» siano sorte da un certo uso o attività trasformativa sensibile delle «apparenze»: «apparenze» unità di misura di altre «apparenze». Ora, invece, che esse «significano» mediante un uso o attività 33

trasformativa sensibile riferita al soggetto (significato delle «categorie» come «esercizio spirituale»). Si dà per caso un contrasto tra le due affermazioni? Ovviamente no. Bisogna distinguere i due processi: il come le categorie siano sorte dal come le categorie ricevano di volta in volta «significato». Per riferire ogni volta «apparenze» ad altre «apparenze», di modo che le prime «significhino» in quanto «categorie», il soggetto deve attenersi a un «canone», trattenutovi a forza da una «disciplina».

C’è di più: è proprio il particolare modo di «significare» le categorie che conferma il loro statuto di «apparenze» pure e a priori. È nelle prescrizioni della «disciplina» e nei dettami del «canone» dell’intelletto che si rapprende il particolare statuto materiale delle «categorie».

Le categorie non sono costitutive del pensiero: a differenza delle «idee», esse non sono «innate». In nessun luogo testuale Kant le dice tali; anzi, egli afferma proprio il contrario (cfr. KrV B 167; 209). Semmai, allora, ad essere costitutive sono le regole del loro uso (cfr. supra §2.4). Il che vuol dire: le regole d’uso delle categorie sono «canoniche».

Cfr. supra Introduzione §17.

Dunque, l’Analitica dei principi raccoglie quelle regole in virtù delle quali talune specifiche «apparenze» possono venir riferite a tutte le altre mediante un certo uso della nostra capacità di usare l’intelletto. Detto altrimenti: il «canone» contiene le regole per usare la propria capacità di usare in modo tale da riferire correttamente talune «apparenze» (e non altre) a tutte le restanti.

Il memento! «disciplinare» dell’intelletto è tutto nel concetto «negativo» di noumeno: oggetto non-sensibile (cfr. supra §2.5). Di fatto, porre nel concetto-limite del «noumeno» tutta quanta la «disciplina» dell’intelletto porta un ulteriore elemento a favore dell’ipotesi con cui si aveva esordito all’inizio: che le «categorie» siano «apparenze» pure e a priori. Scrive Kant: «Se [le categorie] vengono separate dalla sensibilità, esse non hanno alcun uso» (KrV B 305; 321). Le categorie perdono il loro uso — e di conseguenza il loro «significato» — qualora vengano inavvertitamente «separate dalla sensibilità». Quale ne è il motivo? Se il divieto «disciplinare» non è arbitrario, ma deve governare l’aderenza del soggetto ad un «canone», ci si chiede ora perché esse non possano venir «separate dalla sensibilità». «Separate dalla sensibilità» vuol dire anzitutto: riferite a oggetti non-sensibili. Perché — di nuovo — le «categorie» possono essere riferite soltanto ad «apparenze»? Per il soggetto sarebbe indifferente, infatti, seguire le prescrizioni di una «disciplina» che stabilisse il contrario. Questa particolare prescrizione «disciplinare» dell’intelletto deve allora svelare qualcosa sulla stessa genesi delle «categorie». Se non venissero riferite esclusivamente ad «apparenze», le «categorie» perderebbero il loro statuto puro e a priori: ciò che le rende tali è il fatto di poter venir riferite a tutte le «apparenze», mentre, se fossero indistintamente riferibili anche ad oggetti non-sensibili, esse mancherebbero la loro presa proprio sulle prime (non potrebbero più essere «condizioni di possibilità dell’esperienza»). Eppure, che il loro riferimento alle «apparenze» sia esclusivo tradisce un’affinità di principio tra «categorie» e «apparenze», sebbene ad entrambe spettino livelli logico-trascendentali diversi. Perciò, a non poter essere «separato dalla sensibilità» non è soltanto il loro impiego, ma anche la loro genesi. Di conseguenza, le categorie hanno un’applicazione esclusiva ad «apparenze» perché esse non sono «separate dalla sensibilità»: le categorie sono «apparenze» pure e a priori.

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