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Sezione prima Uso e significato

1. Canone e disciplina

1.1 L’indagine non può esimersi dal prendere le mosse dall’analisi dei particolari dispositivi che costituiscono ogni attività d’uso come attività regolata che dà a se stessa la propria regola; che ne determinano di volta in volta i limiti e ne frenano l’abuso. Il dispositivo atto a limitare, controllare o addirittura sopprimere — in una concertazione di temporanee ipertrofie e omissioni — una costante e naturale tendenza a deviare da certe regole prende il nome di disciplina. Il particolare dispositivo attraverso il quale si istituisce un «uso corretto» della propria generica capacità di usare, invece, quello di canone. Questi sono i dispositivi che producono l’agente e le regole dell’attività d’uso. C’è l’urgenza di leggere — e di riconsiderare daccapo — i finora troppo trascurati capitoli sulla Disciplina e sul Canone della ragion pura.

Claudio La Rocca ha rinvenuto nella Dottrina trascendentale del metodo «la parte costruttiva della ragion pura» (2003: 184), e, costatando come «questa parte della prima Critica non sia stata la più frequentata dai suoi lettori» (ivi: 186), ha proposto di leggere la Dottrina trascendentale del metodo prima della stessa Dottrina trascendentale degli elementi.

La Dottrina trascendentale del metodo, infatti, si presenta come «la porta d’ingresso più ampia e naturale per penetrare nella sostanza e nello spirito dell’opera kantiana» (ibidem). Le pagine sul Canone e sulla Disciplina — ma anche quelle sull’Architettonica — forniscono di fatto «una chiave di lettura essenziale per le stesse pagine della Dottrina degli elementi» (ivi: 203). D’altronde lo stesso Kant scrisse di come dovesse venir interpretata l’intera Critica (KrV B XXII; 27):

«Tale Critica è un trattato sul metodo, non un sistema».

Queste considerazioni a beneficio di «lettori e interpreti» (La Rocca 2003: 186) divengono preziose nella misura in cui si realizza non soltanto che la Dottrina trascendentale del metodo può venir letta come un Trattato sull’uso, ma che l’intero progetto «critico» può assumere a ragione questo titolo fittizio.

Particolare attenzione dovrà essere ora rivolta, allora, al rinvenimento di strategie disciplinari messe in atto da Kant per costituire un «sistema di previdenza (Vorsicht) e di esame di sé (Selbstprüfung)» (KrV A 711/B 739; 713), come alle «proposizioni fondamentali» tramite cui un determinato uso tra gli altri assurge a uso corretto o canonico — e rimane tuttavia sempre soggetto a errori e titubanze. Di seguito si forniscono due tra le caratteristiche fondamentali di uso che mettono in mostra i dispositivi del canone e della disciplina: (a) l’uso è quell’attività regolata che al contempo dà a se stessa le proprie regole; (b) l’uso sempre orienta — e produce — il proprio soggetto. Se con «dispositivo» si intende «letteralmente qualunque cosa abbia in qualche modo la capacità di catturare, orientare, determinare, intercettare, modellare, controllare e assicurare i gesti, le condotte, le opinioni, i discorsi degli esseri viventi» (Agamben 2006: 21-22), allora canone e disciplina sono certo stati compresi da Kant alla stregua di «dispositivi». 18

È allora da delinearne innanzitutto una storia, che non sia però una semplice giustapposizione di opinioni o pratiche. Si tratta ora di fornire in via preliminare, perlomeno

Intendendo il dispositivo in questo modo la dualità a «uso» connaturata (uso come dis-positivo) non

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ne risulta rimaneggiata o soppressa, bensì perfettamente in opera. L’attività d’uso ha la forma logica di ciò che Tommaso chiamava «operazione dispositiva» (Summa, I, quaestio 45, art. 4). Essa, infatti, «si sdoppia» in attività regolata e regolanda; il soggetto d’uso, invece, in costituito e costituendo.

in nuce, un’«archeologia» del κανών («canone») e della ἄσκησις («disciplina»). Da 19

quest’indagine preliminare si evincerà come canone e disciplina siano in realtà quei dispositivi primari e fondamentali propri di ogni «filosofia», e dei quali — come sarà invece evidente in seguito — non si può mai fare a meno persino quando si voglia significare qualcosa.

Κανών e ἄσκησις

1.2 Le ricerche di Pierre Hadot hanno inaugurato una nuova percezione della filosofia antica presso gli studiosi moderni (Hadot 1981: 164-166):

«Nell’antichità, la filosofia è un esercizio di ogni istante; invita a concentrarsi su ogni istante della vita… Questa è la lezione della filosofia antica: un invito per ogni uomo a trasformare se stesso».

A differenza della filosofia delle università, così come si è configurata a partire dalla scolastica medioevale, la filosofia in origine si proponeva di «trasformare» e «formare» l’individuo, non di «informarlo». Anche la conoscenza fisica della natura, la logica e gli studi di matematica avevano il carattere di «esercizi spirituali». Conoscere la natura fisica delle cose «ha precisamente l’effetto di renderci indifferenti di fronte alle cose indifferenti, ossia di farci rinunciare a porre differenze tra le cose che non dipendono da noi», e di farci così astenere dall’«attribuire a certe cose un falso valore, misurandole solo alla scala umana» (ivi: 133). La pratica della matematica, invece, «serve a esercitare l’anima a elevarsi dal sensibile all’intellegibile» (ivi: 21). C’è quindi la «filosofia»: una conoscenza delle cose intesa come un lavoro su stessi «per cui sono necessari esercizi di ogni specie» (ivi: 159), «una maniera di esistere al mondo, che deve essere praticata ogni istante, che deve trasformare tutta la vita» (ivi: 156); e c’è il «discorso filosofico», un corpus di dottrine il cui «insegnamento 20

Per «archeologia» qui si intende un «discorso» sul «principio» storico («principio» come «inizio») e

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logico («principio» come «fondamento») di una nozione.

D’ora in poi quando il termine filosofia figura tra uncinate («filosofia») o nel corrispettivo greco

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non si rivolge più a uomini che si intende formare affinché siano uomini, ma a specialisti, perché imparino a preparare altri specialisti» (ivi: 162).

«La filosofia antica [ma si potrebbe dire: la filosofia] propone all’uomo un’arte della vita, mentre al contrario la filosofia moderna [si legga: il discorso filosofico] si presenta anzitutto come la costruzione di un linguaggio tecnico riservato a specialisti» (ivi: 164).

Un’«arte della vita»: ciò non significa soltanto seguire determinati precetti pratici alla stregua di una «maniera di vivere» (ivi: 156), bensì un modo di stare al mondo. Il nucleo propriamente «filosofico» della «filosofia» è costituito da quelle tecniche mnemoniche, di omissione, di contenimento, di controllo, di separazione, di ordine, di comparazione ecc. applicate su di sé, dal modo costante di impiegarsi per inverare quei precetti secondo i quali si è scelto di vivere. Le tecniche su di sé che costituiscono il nucleo «filosofico» della «filosofia» sono poi le medesime impiegate per indagare la natura, far di conto, elaborare un sillogismo. Da qui il fraintendimento “gnoseologico” della «filosofia».

Sarebbe un errore — mostra Hadot, testi alla mano — ritenere che la «filosofia» così intesa sia sorta soltanto «dopo l’instaurazione del dominio macedone sulle città greche, o nell’epoca imperiale» (ivi: 160): la «filosofia» non ha subito alcuna trasformazione in epoca ellenistica. È un «tenace stereotipo» ritenere che la «filosofia» sia legata a determinate circostanze politiche, al bisogno di evasione, a uno smodato desiderio di riconquistare nel proprio sé quella libertà di cui si è stati privati al di fuori di esso. «La filosofia non ha cambiato la propria essenza nel corso della sua storia nel mondo antico» (ibidem). È con la nascita delle università nel corso del medioevo e dell’età moderna che ha luogo la transizione dalla «filosofia» al «discorso filosofico», ed è sempre in questa cornice che si tende in modo pregiudizievole a considerare la stessa «filosofia» dell’antichità alla stregua di un «discorso filosofico». Anche per Aristotele «la filosofia non si riduce al discorso filosofico, o a un corpus di conoscenze», sebbene sia ancora largamente diffusa la credenza che egli sia «un teorico puro» (ibidem). Per Aristotele, infatti, non diversamente da Platone e dai discepoli diretti o indiretti di Socrate, la filosofia è «il risultato di una trasformazione interiore» (ibidem). C’è allora «una verità profonda nel fatto che egli chiamasse µέθοδοι i suoi corsi» (ivi: 64). Scrive Pierre Hadot a proposito di Aristotele (ivi: 63-64):

«L’opera scritta [di genere filosofico] riflette dunque [nell’antichità] preoccupazioni pedagogiche, psicagogiche e metodologiche. In fondo, sebbene ogni scritto sia un monologo, l’opera filosofica è sempre implicitamente un dialogo; vi è sempre presente la dimensione dell’interlocutore eventuale. E ciò spiega le incoerenze e le contraddizioni che gli storici moderni scoprono con stupore nelle opere dei filosofi antichi… Ogni logos è un «sistema», ma l’insieme dei λόγοι scritti da un autore non forma un sistema. Ciò è evidente nel caso dei dialoghi di Platone. Ma è egualmente vero per le lezioni di Aristotele: sono precisamente lezioni; e l’errore di molti interpreti di Aristotele è stato quello di dimenticare che le sue opere erano state scritte in funzione delle sue lezioni, e di immaginare si trattasse di manuali o di trattati sistematici, destinati a presentare l’esposizione completa di una dottrina sistematica; si sono allora stupiti delle incoerenze e persino delle contraddizioni che incontravano passando da uno scritto all’altro… Del resto Aristotele non pensa affatto a proporre un sistema completo della realtà, [bensì] vuole insegnare ai suoi allievi a impiegare metodi corretti nella logica, nella scienza della natura, nella morale… In questo metodo aristotelico… possiamo riconoscere il metodo che Aristofane attribuiva a Socrate; e, come abbiamo visto, a questo metodo tutta l’antichità è stata fedele».

Se persino Aristotele, il «teorico puro» dell’antichità, sfugge di fatto alle morse del «discorso filosofico», allora davvero la φιλοσοφία — nel senso in cui veniva propriamente inteso questo termine — si proponeva di «trasformare» l’individuo, e non di «informarlo». 21

In che modo ha luogo questa «trasformazione»? Attraverso un insieme di tecniche che consentono di usarsi in una certa guisa nelle più svariate circostanze. Un insieme di tecniche, di cui ogni scuola filosofica possedeva un proprio e peculiare catalogo, che gli studiosi hanno denominato «esercizi spirituali» (ivi: 29), «cultura di sé» (Foucault 1984b: 47) o «tecnologie del sé» (Foucault 1988: 13).

La maggior parte della manualistica ascrive ad Aristotele l’introduzione della rigida distinzione tra

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una filosofia teoretica e una filosofia pratica. Questa volgarizzazione non può dunque spiegare il fatto che proprio Aristotele ponga il βίος θεωρετικός al culmine di una compiuta vita pratica — se non applicando ad Aristotele categorie di fatto inidonee, come quella di «intellettualismo etico» — e non può in alcun modo dar conto di quel necessario mutamento della vita dell’uomo e delle sue precedenti prospettive scaturito dalla conoscenza veritiera delle «cause» (τὰ αἴτια). Il «pratico» trova il suo fine nel «teoretico», il «teoretico» — d’altro canto — ha il suo culmine nel «pratico».

La distinzione manualistica tradizionalmente ascritta ad Aristotele si basa su una sclerotizzazione della metodologica aristotelica, i cui poli sono: ὅτι (il «che») διότι (il «perché»), cfr. EN I, 1: 1095b. Il primo è l’ambito del «come stanno le cose», del «per lo più» (ivi, 1094b: τὸ πολύ) il cui discorso è sempre «a grandi linee» (ibidem: παχυλῶς); il secondo, di contro, che comprende a sua volta la «scienza prima» e la «scienza seconda», è un percorso volto alla conoscenza delle cause. Tuttavia, tanto il «che» che il «perché» — con i rispettivi «metodi» — conducono alla medesima meta: in entrambi i casi si opera una trasformazione di se stessi.

1.3 In tutte le scuole filosofiche dell’antichità venivano «praticati esercizi destinati ad assicurare il progresso spirituale verso lo stato ideale della saggezza, esercizi della ragione che saranno, per l’anima, analoghi all’allenamento dell’atleta o alle cure di una terapia medica» (Hadot 1981: 15). Decisamente varie sono le forme di questi esercizi. L’ampio spettro comprende: «controllare la collera, la curiosità, le proprie parole, il proprio amore per la ricchezza» (ibidem); dimostrare un teorema geometrico; impiegare l’ironia in un dialogo; prepararsi a morire; svolgere un’operazione di calcolo; ricordarsi di piaceri passati; configurarsi sventure prossime; imparare a leggere; ascoltare una lezione; ripercorrere con la mente la propria giornata; esaminare i propri sogni; definire un oggetto fisico dividendolo in parti quantitative o integranti. Queste sono soltanto alcune di quelle

«tecnologie del sé, che permettono agli individui di eseguire, coi propri mezzi o con l’aiuto degli altri, un certo numero di operazioni sul proprio corpo e sulla propria anima — dai pensieri, al comportamento, al modo di essere — e di realizzare in tal modo una trasformazione di se stessi» (Foucault 1988: 13).

Anche se «non possediamo alcun trattato sistematico che codifichi un insegnamento e una tecnica degli esercizi spirituali» (Hadot 1981: 33), di questi «esercizi spirituali» o «tecnologie del sé» è possibile fissare la struttura logica.

Anzitutto si tratta ogni volta di impieghi di sé tali che ne risulti coinvolto «tutto lo psichismo dell’individuo» (ivi: 30). Per esercitare l’ironia nel corso di una conversazione o svolgere un’operazione di calcolo bisogna eseguire «un certo numero di operazioni sul proprio corpo e sulla propria anima». Queste «operazioni» compiute su di sé configurano un uso di sé, coacervo e concertazione di temporanee ipertrofie e omissioni delle facoltà dell’individuo con il fine di seguire alcune regole. La propria «capacità di usare», diviene allora negli «esercizi spirituali» essa stessa una «cosa usabile» (Virno 2015: 174). Ecco che «allorché è trattata essa pure come una cosa usabile, la capacità di usare… si rapprende in usanze, ossia in un complesso di abitudini, disposizioni, posture» (ibidem). Questo scacco spiega come sia possibile mediante la «filosofia» quella «trasformazione profonda della maniera di vedere e essere dell’individuo» (Hadot 1981: 32) che gli antichi chiamavano «conversione» (ivi: 49): ogni «esercizio spirituale» istituisce — o rafforza — usanze.

Qualsiasi «tecnologia del sé» considera anzitutto cosa usabile la medesima capacità di usare; ogni «tecnologia del sé» istituisce usanze e abitudini trasformando la vita di colui che le pratica. Queste sono caratteristiche fondamentali di ogni «esercizio spirituale». Sia che ci si rammenti di piaceri ormai trascorsi o che si definiscano analiticamente gli elementi componenti di un oggetto fisico, è sempre in prima istanza usabile la medesima capacità di usare; è sempre in gioco l’istituzione — o il rafforzamento — di usanze o abitudini.

1.4 Tuttavia, il patrimonio comune degli «esercizi spirituali», pur nella loro svariata molteplicità, non si esaurisce in queste due peculiarità. In primo luogo bisognerà avere sempre «sottomano» (πρόχειρον) quelle regole mediante cui usare la propria capacità di usare. Sebbene queste regole variassero da scuola a scuola, ogni scuola filosofica si premurava di «presentarle nella forma di formule brevi e icastiche» (Hadot 1981: 16) di modo che il praticante potesse disporne senza esitazione nel momento del bisogno. Questo prontuario di regole d’uso per potersi usare prende il nome di κανών, «canone». Tra i più celebri «canoni» dell’antichità v’è quello di Epicuro, il τετραφάρµακον, il «quadruplice rimedio», le cui regole per usare correttamente la propria capacità di usare erano tutte raccolte in una mano.

Ma il «canone» è solo un aspetto delle regole dell’uso corretto della propria capacità di usarsi. Oltre al «canone» vi è anche la «disciplina» (ἄσκησις), quel dispositivo che trattiene una costante e naturale tendenza a deviare da certe regole «canoniche». Occorre una «progressiva attenzione a sé» e una «padronanza su se stessi» (Foucault 1988: 32), affinché un «canone» possa essere in opera: una sorta di necessaria atmosfera «spirituale» entro i cui confini possa realizzarsi un «canone». Sebbene ogni scuola filosofica dell’antichità avesse elaborato il proprio tipo di «disciplina», essa è comunque una parte fondamentale costituente della «filosofia». Per gli stoici, ad esempio, la «disciplina» consisteva in una permanente e sempre vigile «attenzione» o «previdenza» (προσοχή), «una vigilanza e una presenza di spirito continue, una coscienza di sé sempre desta, una costante tensione dello spirito» (Hadot 1981: 34). È «questa stessa vigilanza mentale [che] permette di applicare la regola fondamentale alle situazioni particolari della vita, e di fare sempre “a proposito” ciò che si fa» (ivi: 35). Questo tipo di costante «previdenza» consiste in un permanente «esame di sé».

Michel Foucault ha analizzato questo tipo di atmosfera «disciplinare» in atto nel De ira di Seneca (Foucault 1988: 30):

«A prima vista Seneca [nel De ira] sembra far uso di un linguaggio giuridico che impone al sé sia il ruolo del giudice che quello dell’imputato. Seneca è il giudice, e pone sotto accusa il sé, cosicché l’autoesame diventa una specie di processo. Ma se si guarda più da vicino, ci si rende conto che non ci troviamo di fronte a un processo vero e proprio. Il linguaggio utilizzato da Seneca è in realtà non già di tipo giuridico, bensì di tipo amministrativo: è quello del revisore dei conti che esamina i libri contabili o dell’ispettore edile che controlla un edificio… Le regole [disciplinari] servono ad attuare il corretto comportamento, non sono uno strumento per giudicare il passato… Seneca non è un giudice che deve condannare, ma un amministratore che deve inventariare. È un amministratore permanente di se stesso, non un giudice del proprio passato. Vuole controllare che tutto sia fatto in conformità alle regole, non alla legge».

Quest’analisi di Foucault fornisce spunti interessanti per comprendere la «disciplina» nel modo in cui viene intesa dalla scuola stoica. La metafora giuridica — che in realtà cela un significato «di tipo amministrativo» o «edile» — e l’immagine del «cambiavalute» che esamina ogni singola moneta sono tra l’altro figure non completamente estranee al pensiero kantiano (cfr. infra §1.10). Ma ciò che qui è d’importanza capitale per comprendere la «disciplina» stoica è il fatto che questa «previdenza» e «questo esame di sé» non abbiano per scopo quello di «scavare nella propria colpa» (Foucault 1988: 30), bensì quello di «ricordare le regole dell’azione» (ivi: 31). La «disciplina» non colpevolizza, bensì rammenta. L’ἄσκησις, allora, non è «una tecnica per svelare i segreti del sé, bensì una forma di memoria» (ibidem). Una forma di «costrizione» che non poggia sui meccanismi della colpa o della sanzione, bensì su una mnemotecnica. Mediante una vasta gamma di strategie ammonitrici di questo tipo — I ricordi titolava lo stoico Marco Aurelio la propria «disciplina» — essa ha per scopo «il sorvegliare continuamente le rappresentazioni, secondo una tecnica che raggiungerà il suo apice con Freud» (ivi: 34-35). «Disciplina» è allora da intendersi come «una sorta di esame di sé continuo, grazie al quale si diventa i censori di se stessi» (ivi: 36). È così che prende forma il sub-iectus, «gettato sotto» non come semplice «sostrato», ma come «soggetto» a se stesso.

1.5 È in una determinata fase cruciale della storia della «filosofia» — il passaggio dall’antichità pagana alla dottrina cristiana — che vengono esibiti senza veli gli autentici meccanismi di funzionamento dei due dispositivi di ogni uso: «canone» e «disciplina».

Christian Gnilka ha rinvenuto in questa fase di transizione il primato della categoria di «uso corretto» o «canone»: «Tra i numerosi concetti che applicarono i primi pensatori cristiani per designare il loro rapporto con i beni spirituali antichi, al concetto di “uso corretto” (usus iustus, χρῆσις ὀρθή, δικαία χρῆσις) spetta un ruolo particolare» (Gnilka 2012: 29). E «che debba esserci un uso “corretto”, indica che ce ne debba essere anche uno “falso”» (ibidem). I Padri della chiesa «impiegavano con una certa predilezione le semplici parole χρῆσις, χρῆσθαι o rispettivamente uti, usus, ogniqualvolta designavano il loro commercio con beni spirituali precristiani» (ivi: 39). A queste «semplici parole», poi, anche se non seguivano sempre aggettivi come «ὀρθή», «iustus» «retto», avverbi come «καλῶς», «recte» o costrutti come «εἰς δέον», «opportuno», essi rimanevano per lo più «sottintesi» (ivi: 42). Il «canone» dei Padri non consisteva in un «canone letterario» (ivi: 88); non era un «sistema» (come un “canone” di libri), bensì un «metodo». Come ogni scuola «filosofica» dell’antichità, anche il cristianesimo delle origini aveva le proprie regole per usare la propria capacità di usare. Ogni cristiano doveva avere sempre «sottomano» quelle regole mediante le quali usare la propria capacità di usare, soprattutto quando approcciava i testi o gli insegnamenti della «filosofia» pagana. Ecco allora «le proposizioni fondamentali cristiane del commercio con la cultura precristiana», il τερταφάρµακον del cristiano: «1) Esaminare e distinguere; 2) Trattenere e respingere; 3) Rendere impiegabili le parole e i pensieri (λόγοι), 4) per difendersi dal falso e costruire il vero» (ivi: 166). Ogni cristiano era tenuto ad avere «sottomano» questi principi o «proposizioni fondamentali» ogniqualvolta dovesse usare la propria capacità di usare un testo o una dottrina pagani.

Anche a un cristiano delle origini per usare la propria capacità di usare un «canone» non è sufficiente: è necessario altresì il «momento della previdenza (Vorsicht)» (ivi: 191) o «disciplina»: «Due stati spirituali: il distinguere e il (tacito) correggere sono in questo metodo concatenati» (ivi: 196). Ecco il metodo dei Padri nel commercio con la cultura antica: il canone «distingue», la disciplina «corregge». C’è da dire che «occorre distinguere accuratamente fra questo uso cristiano, e poi moderno, del termine “ascesi”, e l’uso della parola ἄσκησις nella filosofia antica. Per i filosofi dell’antichità, il termine ἄσκησις indica

unicamente… un’attività interiore del pensiero e della volontà» (Hadot 1981: 71). La ἄσκησις cristiana, invece, nel corso del tempo prenderà altre forme rispetto a quelle della «filosofia» antica. Ma ciò che qui importa è che il primo cristianesimo, nella misura in cui — come scriveva Clemente Alessandrino a esergo dei suoi Stromata — è «vera filosofia», della «filosofia» prende il «metodo» e lo mette in mostra. Stando a Pierre Hadot, inoltre, gli

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