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Uso delle «categorie», uso delle «idee»

Sezione prima Uso e significato

2. Uso delle «categorie», uso delle «idee»

2.1 Di fatto vi è nella filosofia trascendentale un intreccio che lega «uso» a «significato». La ragione è la seguente: la dimensione del significato, in Kant, non risulta mai statica e non-problematica, inattingibile e presupposta, bensì appare come una dimensione regolata che viene costantemente esposta a una sua violazione. «Significare» vuol dire: seguire, con difficoltà, certe regole; mantenersi entro certi limiti; tenere costantemente a freno la tendenza a varcarli. Caso esemplare è quello del significato delle «categorie» e delle «idee». Nel ghermire i meccanismi di significazione dei significanti per eccellenza della «filosofia trascendentale» ne va tra l’altro dell’eventuale smentita, dell’inattesa conferma, oppure — più semplicemente — della retta comprensione di nientemeno che della celebre ipotesi suggerita da Ludwig Wittgenstein: che non si dia alcun significato preesistente all’uso.

Una prima considerazione di un certo interesse è che nel «significato» sono di fatto in opera i medesimi dispositivi costitutivi di «uso», le medesime «tecnologie del sé». È il

«canone» a fornire le «proposizioni fondamentali» della possibilità del significato. La «disciplina», invece, regola le inevitabili ipertrofie (o atrofie) della capacità di usare secondo «proposizioni fondamentali» di modo che con esse si possa significare qualcosa. Non deve allora risultare sorprendente che Kant tratti del significato delle «categorie» in un «canone dell’intelletto» (Analitica trascendentale); quello delle «idee», invece, trova il suo posto in una «disciplina della ragione» (Dialettica trascendentale).

2.2 La questione del rapporto tra «uso» e «significato» in Kant può essere posta soltanto nella cornice di ciò che Wolfram Hogrebe ha chiamato «semantica trascendentale». 28

Se il significato di un termine consiste in ultima istanza nel suo «riferimento» ottenuto empiricamente mediante l’ostensione deittica di uno stato di cose o di un oggetto, si pone allora il problema della legittimità della possibilità di quel collegamento con la realtà che pure si è posto (Hogrebe 1974: 50):

«Quale carattere ha quel genere di intensione che consente di accreditare le intensioni mediante ostensione o deissi? Questioni di tal genere sono proprie di una semantica trascendentale e possono essere poste e risolte solo entro una tale semantica».

In altri termini: com’è che il pensiero puro avanza una pretesa semantica? Questa cornice problematica risulta decisamente idonea per riflettere sul «significato» di «categorie» e «idee». Una «semantica trascendentale», infatti, indaga proprio il «carattere di quel genere di intensione» tramite cui è possibile che «le intensioni vengano accreditate mediante ostensione o deissi».

Bisogna marcare più dappresso questo genere molto particolare di intensione, che in un certo senso assegna «riferimento» a tutte le altre, mediante una netta e concisa risposta a ciascuna delle questioni fondamentali che «il problema preliminare di una semantica trascendentale» (ivi: 53) porta con sé. Prima questione: come deve essere già pensato «il fenomeno presegnico» per risultare determinabile come segno significante? Come «utilizzabile». Seconda questione: quali sono quei procedimenti che permettono di

Le profonde deficienze di un’impostazione di tipo pragmatistico per porre la questione di «uso» e

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«significato» in Kant sono state evidenziate dallo stesso Hogrebe. Per una discussione tecnica — e fondata su validi argomenti — si rimanda direttamente a Hogrebe 1974: 111-113, in cui questi ravvisa «tre errori sistematici» (ivi: 112) insiti nella proposta pragmatista avanzata da K. O. Apel.

determinare semanticamente il generico carattere di significato di questo «significante»? Essi consistono nei dispositivi di ogni uso: «canone» e «disciplina». Terza questione: attraverso quali proposizioni o quali precetti — e di quale carattere — può venir stabilito oggettivamente un «significato»? Attraverso le «proposizioni fondamentali» contenute in un «canone» e i «precetti» di una «disciplina».

In virtù di questa prima caratterizzazione — che troverà di seguito conferma nei testi kantiani (cfr. infra §§2.3 e segg.) e in un’analisi ontologica di «uso» (cfr. infra §§4.1 e segg.) — è possibile individuare univocamente quel «genere di intensione che consente di accreditare le intensioni mediante ostensione o deissi». Si tratta di un uso di sé, ossia dell’uso della propria generica capacità di usare, attività trasformativa sensibile rivolta a se stessi guidata da un «canone» e controllata da una «disciplina». D’altronde, l’uso di sé ha un carattere innegabilmente intensionale: i suoi atti non possono difatti mai esaurire la potenza cui rimanda. E soprattutto: nel contesto della filosofia kantiana l’uso della propria capacità di usare risulta essere il tipo di intensione primario e fondamentale alla base di ogni significazione.

Uso e significato delle «categorie»

2.3 Già Martin Heidegger scriveva: «Nella questione circa il possibile uso delle categorie la loro propria essenza diviene essa stessa anzitutto un problema» (Heidegger 1929: 110). È quando ne va dell’uso delle categorie che la loro «essenza» — e quindi il loro «significato» — divengono perspicui. Le «categorie» sono concetti puri dell'intelletto, i quali, pur non essendo derivati da alcuna esperienza determinata, ne rendono possibile una oggettivamente valida. L’illusione apparentemente innocua che le categorie in sé — a prescindere dal loro uso — debbano pur significare qualcosa conduce alla nefasta conseguenza di una loro totale assenza di significato.

Kant lega esplicitamente il «significato» delle «categorie» a un «uso». È l’uso che deve catturare con i suoi dispositivi il «significato» delle categorie. Si dà significato delle categorie solo e soltanto per tramite dello schema, «formula» del canone dell’intelletto, né semplice immagine mentale né nozione generica, in cui «il concetto dell’intelletto è ristretto

nel proprio uso» (KrV A 140/B 179; 220). È tramite le «formule» di quel «canone dell’intelletto» che bisogna tenere sempre a mente — e che Kant chiama «schemi» — che le categorie acquistano significato. Senza queste «formule» del canone dell’intelletto alle categorie «non viene dato alcun oggetto, e quindi neppure alcun significato» (A 147/B 186; 225). A fornire «la chiave dell’uso delle categorie», e a gettare così luce sul loro significato, è in definitiva la nozione di schema, che assurge a «formula della proposizione fondamentale» (A 181/B 224; 256), a «formula» del canone. Quando Kant parla di schema, infatti, intende una «condizione restrittiva» (ibidem). Funzione dello schema, quindi, è quella di restringere le categorie nel loro uso corretto, applicare una regola canonica.

È opinione diffusa tra molti interpreti — fra cui Heidegger — che «nel contesto della fondazione trascendentale gli schemi debbano precedere le categorie» (Hogrebe 1974: 83). Qui non si tratta di un semplice ordine di «lettura» della Critica. Ne va di una coerente «fondazione trascendentale». Se il significato delle categorie non è preesistente all’«uso corretto» della facoltà di usare l’intelletto, allora le regole canoniche di quest’uso — seppur in «formule» operativamente efficaci — devono precedere le medesime categorie.

2.4 Le categorie, nella misura in cui hanno significato, si trattengono entro i bordi del «canone dell’intelletto», trovano dimora soltanto al suo interno. È proprio questo «trattenersi» delle categorie entro i bordi del «canone» — senza travalicarlo o trascenderlo — a dischiudergli la dimensione del significato. Le categorie non hanno alcun significato a prescindere dal «canone dell’intelletto», indipendentemente dalle «proposizioni fondamentali» che ne regolano l’«uso corretto». Non c’è alcun significato delle categorie preesistente a un «canone dell’intelletto»: non si dà in alcun modo un significato delle categorie preesistente a un uso corretto della propria facoltà di usare i concetti puri dell’intelletto.

Non a caso delle categorie si ha un «uso costitutivo». Si badi, però, a una sottigliezza che ha portato fuori strada numerosi interpreti: «Kant non indica mai come “costitutive” le categorie (come sostiene la maggior parte dei dizionari [ad es. quello di R. Eisler]), ma solo le regole del loro uso oggettivo» (Hogrebe 1974: 16). Dire che «le categorie hanno un uso costitutivo» non vuol dire che esse siano costitutive del pensiero; bensì che le regole tramite cui vengono usate sono «costitutive». E per «regole costitutive» si intende: «regole

canoniche». Si dà «uso costitutivo» soltanto laddove vi sia «canone». Delle categorie si dà dunque «uso costitutivo» o «uso proprio» perché esse sono regolate da un «canone». «Uso proprio», «uso canonico» e «uso costitutivo» sono espressioni equivalenti. «Costitutive» per Kant «sono soltanto le proposizioni fondamentali che garantiscono un uso di volta in volta ben determinato delle categorie (intelletto teoretico), delle idee (ragione pratica), e delle finalità (facoltà di giudizio estetico)» (ivi: 15). Le «proposizioni fondamentali» per usare la propria capacità di usarsi in riferimento alla conoscenza oggettiva delle cose (= «canone dell’intelletto») divengono allora, rispetto alle categorie, «postulati trascendentali di significato» (ivi: 86). Queste regole canoniche stabiliscono a priori il quadro in cui può essere pensato qualcosa come il «significato» dei concetti puri dell’intelletto: «Dunque, gli schemi dei concetti puri dell’intelletto sono le vere e uniche condizioni per procurare a tali concetti… un significato» (KrV A 146/B 185; 224).

Acquista così un nuovo senso il ruolo svolto dalla Deduzione trascendentale delle categorie, «la spiegazione del modo in cui tali concetti possono riferirsi a priori ad oggetti» (A 85/B 117; 142), la giustificazione della legittimità della pretesa semantica che avanza il pensiero, realizzando che soltanto tramite un certo «uso» è possibile procurare alle «categorie» un significato. La Deduzione nel contesto del «significato» delle categorie come «uso», «non è da intendere nel senso che le categorie abbiano significato empirico, bensì nel senso che la loro pretesa semantica consiste in primo luogo nel fatto che esse possono essere applicate all’empiria» (Hogrebe 1974: 64). Con la «deduzione» non si stabilisce che le categorie abbiano un significato empirico o una denotazione oggettiva (altrimenti non sarebbero «a priori»), ma che esse debbano trovare una tale denotazione mediante un certo «uso» della nostra capacità di usare l’intelletto. Si stabilisce che il soggetto pensante deve cercare soltanto nell’intuizione sensibile le condizioni per usare la propria capacità di usare le funzioni logiche di cui è in possesso. Detto altrimenti: le categorie non trovano «significato» negli oggetti dell’intuizione sensibile perché li denotano, bensì perché il «canone dell’intelletto» stabilisce che è soltanto nell’intuizione sensibile che deve venir usato il patrimonio a priori di cui il proprio intelletto dispone.

2.5 Se il significato delle categorie dipende di fatto dalle «proposizioni fondamentali» del «canone dell’intelletto», allora non deve sussistere alcun significato qualora esse venissero usate scorrettamente o in modo non canonico.

Un primo problema interpretativo sembrerebbe porsi nella misura in cui Kant ascrive alle medesime categorie «un significato indipendente da tutti gli schemi», essendo esse «assai più estese di questi» (KrV A 147/B 186; 225). Pare ora sussistere un «significato» delle categorie a prescindere dal «canone dell’intelletto». «Un significato» — Kant si affretta tuttavia a specificare — «però soltanto logico, di semplice unità delle rappresentazioni: ad esse non viene in questo modo dato alcun oggetto, e quindi neppure alcun significato» (ibidem). Questo significato mutilato ha luogo quando delle categorie si verifica un «uso puro», certo «possibile», «ossia privo di contraddizione», ma tale da non garantire alla categoria un autentico significato (A 253; 328). Di un certo «significato» meramente logico dispone allora ogni categoria, il quale però non può fornirle «neppure alcun significato» (A 147/B 187; 226):

«Le categorie senza schemi sono dunque unicamente funzioni dell’intelletto riguardo a concetti, ma non rappresentano alcun oggetto».

A prescindere dai «postulati trascendentali di significato» le categorie sono generiche «funzioni dell’intelletto», e non hanno alcun significato in senso proprio. Esse, in quanto intensioni, indipendentemente da quella prima e fondamentale intensione che è l’uso della propria facoltà di usare, non giungono mai ad avere «ostensione».

Vi è poi un autentico «uso scorretto» delle categorie, che Kant chiama «uso trascendentale» o «abuso delle categorie» (A 296/B 352; 361). L’«uso trascendentale» delle categorie consiste in un loro uso senza porre «a lato della categoria il suo schema, inteso come condizione restrittiva» (A 181/B 224; 256). Quindi, in un caso concreto: l’«unità» viene riferita a un oggetto non esteso; la «realtà» a un oggetto senza grado, ecc. Le categorie senza canone sono vuote, e di esse rimane solo un certo significato «logico» o «trascendentale» che impropriamente — e soltanto per analogia — Kant chiama «significato». Questo significato «analogico» consiste nel considerare formalmente le categorie come funzioni possibili dell’unità sintetica del molteplice, come condizioni formali di un uso possibile della facoltà di usare il nostro intelletto. Ad ogni modo,

«l’uso trascendentale — o abuso — delle categorie», tuttavia, «è un semplice errore della capacità di giudizio (non imbrigliata convenientemente dalla critica), la quale non bada abbastanza (nicht genug Acht hat) ai limiti del solo terreno, entro cui sia concesso all’intelletto di muoversi» (A 296/B 352; 361).

Bisogna allora concentrare l’attenzione su di sé, e, come il cambiavalute della tradizione stoica, assicurarsi che lo schema sia posto ogni volta «a lato della categoria». In che modo? Mediante un concetto-limite o «negativo» (B 307; 325), un memento! disciplinare dell’intelletto: il noumeno. Difatti, «nel noumeno cessa completamente tutto l’uso — anzi, tutto il significato — delle categorie» (B 308; 327). Usando scorrettamente le categorie se ne annichilisce il significato vero e proprio (cfr. infra §3.5). Così è fornita anche la controprova di come «uso» e «significato» siano legati nella dottrina kantiana delle «categorie». 29

Uso e significato delle «idee trascendentali»

2.6 Le «idee trascendentali» sono concetti trascendentali della ragione per i quali non può essere dato alcun oggetto corrispondente nei sensi (A 327/B 383; 385). Tuttavia, la stessa «ragione» — per un suo certo «interesse» — avanza una singolare pretesa riguardo alle proprie «idee» (Io-anima, mondo, Dio). Pretesa ovviamente vana, dato che per un uso speculativo della ragione «non è propriamente possibile una deduzione oggettiva» (A 336/B 393; 391). Soltanto un abuso della ragione — dovuto all’erronea credenza che le «idee» dispongano di un significato indipendentemente dall’uso, e al difetto di una vigile attenzione rivolta a se stessi — induce a concedere credito alle illusorie pretese semantiche della ragione, sia nel rispetto teoretico che in quello pratico: che Dio sia esistente e causa di leggi

Di seguito una serie di inequivocabili passi kantiani in cui si lega «uso» a «significato» con riguardo

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alle «categorie»: «La proposizione fondamentale della causalità non trova un significato o un segno del suo uso se non nel mondo dei sensi» (A 609/B 637; 632); «In un siffatto uso semplicemente speculativo» le categorie «perdono ogni significato» (A 635/B 663; 652); «Al di fuori di esso [sc. canone dell’intelletto] la categoria non trova alcun uso, anzi è addirittura priva di significato, e risulterebbe del tutto distolta dalla sua destinazione [d’uso] (Bestimmung)» (A 636/B 664; 653); «le proposizioni fondamentali sintetiche dell’intelletto sono infatti di uso immanente», «l’uso trascendente di tali proposizioni», invece, è «un uso cui il nostro intelletto non è affatto preparato» (ibidem).

morali o che l’anima sia permanente e incorruttibile. L’abuso della ragione — come d’altronde quello dell’intelletto — presuppone la chimerica convinzione che vi sia un significato preesistente all’uso, e ha a suo fondamento un difetto dell’uso della propria capacità di usare. È questa la cornice problematica in cui per Kant si pone il problema del «significato» delle «idee» della ragione.

Scrive però Kant: «Sebbene a riguardo dei concetti trascendentali della ragione noi dobbiamo dire: sono soltanto idee, tuttavia non ci sarà affatto lecito di considerarli come superflui e nulli» (A 329/B 385; 386). «Presumibilmente — continua — esse hanno una loro destinazione [d’uso] (Bestimmung), buona e conforme a un fine» (A 669/B 697; 678). Infatti, «tutto ciò che è fondato nella natura delle nostre capacità deve essere conforme ad un fine e in accordo con il corretto uso di esse» (A 642/B 670; 658). Il patrimonio a priori di ogni nostra «facoltà» o «capacità» discorsiva ammette un «uso corretto», e quindi deve soddisfare una certa «pretesa semantica». «Le idee trascendentali avranno dunque il loro uso appropriato», e, dipendentemente da esso, un «significato». O meglio: troveranno unicamente il proprio significato nella dimensione di un «uso appropriato» della «ragione» nel rispetto teoretico. Il che non comporta il materializzarsi di Dio o di un’anima individuale. Anzi: queste eventualità vengono di principio escluse, dato il particolare «uso» necessario per una «semantica» delle idee.

Le «idee» trovano di fatto un «significato» nel loro «uso regolativo assai pregevole e indispensabilmente necessario» (A 644/B 672; 659). La tesi di Kant è la seguente: l’unico «uso» in cui le idee trascendentali possono trovare il proprio significato ha carattere «regolativo». Ogni uso — si è visto — si configura per Kant in endiadi. «Uso regolativo» è nozione opposta e complementare a «uso costitutivo». Se «uso costitutivo» è quell’uso che ha luogo secondo regole canoniche, l’«uso regolativo» non ha un proprio canone, bensì soltanto una disciplina. Le idee non trovano il loro significato nell’«uso costitutivo», a meno di non voler far un uso surrettizio e illusorio della propria ragione. Infatti, «se noi prescindiamo da questa restrizione dell’idea ad un uso semplicemente regolativo, la ragione cade allora in errori di molte specie» (A 698/B 717; 694). È quando «si staccano totalmente» dall’«uso regolativo» che le idee divengono «dialettiche» o causa di «parvenza», e così illegittimamente «creano a se stesse oggetti» (A 565/B 593; 598). «Le idee della ragione non possono mai essere in se stesse dialettiche: dev’essere semplicemente a causa del loro abuso,

piuttosto, che da esse sorge un’illusione ingannevole» (A 669/B 697; 678). Perciò, la ragione nel rispetto teoretico non ha «canone», ma soltanto «disciplina». Peculiare dell’«uso regolativo» è una pervasiva e diffusa attenzione a se stessi, un’atmosfera di costante previdenza e conoscenza di sé. Non a caso, nella topica della Critica, la trattazione del «significato» delle «idee trascendentali» trova il suo posto soltanto in quella «disciplina della ragione pura» o «critica dell’uso sbagliato della ragione» (Hogrebe 1974: 99) che è la Dialettica trascendentale.

2.7 Bisogna caratterizzare più dappresso la peculiarità di questo «uso regolativo». Il significato delle «idee» è anzitutto sempre «soggettivo». Scrive Kant (KrV A 643/B 671; 658):

«Non è l’idea in se stessa, ma è semplicemente il suo uso, che può essere, rispetto a tutta l’esperienza possibile, o esterno (überfliegend) (trascendente) o interno (einheimisch) (immanente), secondo che si rivolga l’idea o direttamente ad un oggetto che, a quanto si presume, le corrisponde, oppure soltanto all’uso in generale dell’intelletto a riguardo degli oggetti con cui l’intelletto ha a che fare».

In parafrasi: c’è un uso delle idee «interno» al «canone dell’intelletto», e un uso delle idee «esterno» rispetto a questo stesso «canone». La ragione non ha «canone» nel rispetto teoretico, ma essa può impiegarsi all’«interno» del «canone dell’intelletto»: questo «uso» della ragione prende il nome di «uso regolativo». Le «idee» acquistano dunque un «significato» soltanto se si usa la propria ragione all’«interno» del «canone dell’intelletto». Proprio perché usabile soltanto «internamente» a questo «canone», «l’idea è propriamente soltanto un concetto euristico, non già ostensivo» (A 671/B 699; 680). Eppure, essa ottiene significato mediante un certo «uso». Continua Kant (A 644/B 672; 659):

«Io sostengo perciò, che le idee trascendentali non devono mai avere un uso costitutivo (in modo che risultino dati così concetti di certi oggetti), e nel caso in cui le si intenda in questo senso, esse sono semplicemente concetti raziocinanti (dialettici). Tali idee, per contro, hanno un uso regolativo assai pregevole e indispensabilmente necessario, che consiste cioè nel rivolgere l’intelletto ad un certo scopo, in vista del quale le direzioni di tutte le regole dell’intelletto convergono in un punto, il quale, pur essendo soltanto un’idea (focus imaginarius), … serve tuttavia a procurare la più grande unità e la più grande estensione a tali concetti. Da ciò, è vero,

sorge in noi l’illusione, che queste linee di direzione siano tracciate a partire da un oggetto, il quale si trovi esso stesso al di fuori del campo dell’esperienza possibile (allo stesso modo degli oggetti che sono veduti dietro la superficie dello specchio)».

E ancora (A 508-509/B 536-537; 555):

«La proposizione fondamentale della ragione è quindi, propriamente, soltanto una regola, che nella serie delle condizioni delle apparenze date impone un regresso, al quale non è mai concesso di arrestarsi ad un qualcosa di assolutamente incondizionato. Tale proposizione non è… una proposizione fondamentale dell’intelletto. Essa non è neppure un principio costitutivo della ragione… Si tratta, piuttosto, … di un principio della ragione, il quale, come regola, postula ciò che noi dobbiamo fare nel regresso, ma non anticipa ciò che è dato in sé nell’oggetto, prima di ogni regresso. Io lo chiamo, di conseguenza, un principio regolativo della ragione ecc.».

Le «idee» della ragione «anima», «mondo» e «Dio» non trovano il loro significato in oggetti dell’intuizione sensibile, bensì nella configurazione di un uso dell’intelletto: «Quantunque mediante essi [sc. i concetti trascendentali della ragione] non possa venir determinato alcun oggetto, essi nondimeno, sostanzialmente e inavvertitamente, possono fornire all’intelletto un canone per il suo uso esteso e coerente: con tale canone l’intelletto, a dire il vero… viene guidato meglio e più in là» (A 329/B 385; 386). Tramite tali idee viene consolidato e rafforzato il «canone dell’intelletto» più di quanto potrebbe avvenire senza tali idee (A 671/B 699; 680). Perciò Kant non esita a definire l’«idea» della «ragione» — quanto alla sua funzione — un «qualcosa di analogo allo schema» (A 665/B 693; 675). Con la differenza, però, che il «principio della ragione» (il regresso all’infinito) non è una regola canonica della

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