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Approssimazioni al lavoro di Sovente

3.1. «Vi sono essenzialmente due modi di considerare un’opera di poesia: vi è un modo, per così dire, statico, che vi ragiona attorno come su un oggetto o risultato, e in definitiva riesce a una descrizione caratterizzante; e vi è un modo dinamico, che la vede quale opera umana in fieri, e tende a rappresentarne drammaticamente la vita dialettica» (CONTINI 1974: 233). Se il primo dei «modi» spiegati da Contini sta alla base del lavoro di commento su un’opera compiuta, la cui ultima redazione rispecchia la famosa ‘ultima volontà’, il secondo è quanto viene valorizzato dall’esercizio della critica testuale sulle carte (e non solo) dell’autore. Certo, la qualità del ‘dinamismo’ osservabile

Figura 1: Rappresentazione dell’impaginazione dei testi trilingue in

dipende sempre dalla quantità dei materiali testimoniali a nostra disposizione; di molte, straordinarie opere della letteratura italiana non possiamo ricostruire sin nei minimi dettagli l’iter compositivo, per il semplice motivo che non ci sono giunte le copie di lavoro, le bozze, gli scartafacci su cui prendeva corpo il testo oggi conosciuto.

È opinione diffusa che il Novecento abbia collezionato una quantità addirittura in gestibile di archivi d’autore, in parte a causa di una nuova coscienza da parte degli scrittori del valore dei loro materiali preparatori, in parte a causa dell’allargamento dello stesso statuto di scrittore. In realtà, non è affatto scontato che autori anche maggiori dello scorso secolo abbiano lasciato granché ‘in eredità’ agli studiosi. Si ha notizia di poeti che cestinavano i propri manoscritti una volta mandato in stampa un libro, di altri che avevano in antipatia quegli strani feticisti degli appunti altrui che sono i praticanti della filologia d’autore, o di altri ancora che non hanno dato alcun peso alle proprie carte, al punto da averle lasciate in un disordine che nel migliore dei casi è stato ovviato dalla sensibilità di singoli più o meno coinvolti nel mondo delle lettere, nel peggiore ha trovato il macero. La situazione è insomma ben più complessa di quanto potrebbe sembrare, e sebbene quello di Carlo Emilio Gadda sia assurto a caso massimamente rappresentativo del gioioso caos in cui consisterebbe la pratica filologica applicata al Novecento20, sarebbe bene

figurarsi uno scenario più sfrangiato, dove a casi di bulimia cartacea si susseguono lasciti molto più modesti, se non davvero scarni.

Può capitare allora che il filologo si trovi a dover lavorare con piccoli

indizi, come recita il titolo di un volume di Mario Lavagetto. Indizi provenienti,

20 Il ‘caso Gadda’ è sicuramente uno dei più intriganti della filologia del Novecento. L’assenza di un piano editoriale dettagliato si accompagna a un lascito di bauli traboccanti di scritti, bozze e lavori rimasti incompiuti o inediti. Una quantità di materiali che pone diversi problemi in sede ecdotica, sia per tipologia, genere e struttura degli scritti, sia per la tendenza di Gadda a scorporare o, al contrario, integrare tra loro diverse entità testuali; a ciò, si aggiunga una difficoltà oggettiva a riconoscere compiutezza nel non finito, e ancora a stabilire criteri validi alla resa della variantistica d’autore che falsa o rende obsolete le pubblicazioni ufficiali (è celebre il caso di Eros e Priapo, ma si pensi anche a quello di

Verso la Certosa). Sulla filologia gaddiana sono essenziali gli studi di Paola Italia, che a

Come lavorava Gadda ha dedicato un’intera monografia (Roma, Carocci, 2017); si vedano inoltre i più agili ITALIA-RABONI 2010: 109-113 e ITALIA 2013: 138-171. Doveroso è poi segnalare un’altra meritoria iniziativa della studiosa quale la costituzione del progetto WikiGadda, primo tentativo italiano di creare un network virtuale di discussione e lavoro dedicato ai testi dell’Ingegnere (per cui si veda http://www.filologiadautore.it/wiki/).

è chiaro, dal testimoniale, che vanno sistematizzati al fine di restituire non l’impossibile ricostruzione dell’atto di scrittura21, ma il percorso di

rimaneggiamenti e revisioni che porta il testo allo stato ormai leggibile e noto alla comunità dei lettori.

3.2. La storia del testo ci ha introdotto a un volume dalla lunga gestazione, non ripercorribile in ogni sua tappa ma in ogni caso scandita da pubblicazioni in rivista e altri, variegati avantesti. Una presentazione di Cumae risulterebbe però filologicamente incompleta se non prevedesse qualche ragguaglio, attraverso la consultazione di questi ultimi, sul metodo di lavoro di Sovente. Con opportune integrazioni da documenti non direttamente coinvolti nel processo compositivo del libro marsiliano, ma che si è avuto comunque modo di citare, si può tentare una prima sintesi delle pratiche scrittorie del poeta, anche al fine di capire come si sviluppino i complessi contenuti della poesia di Sovente, o ancora ‘cosa siano’ questi testi in due o tre lingue. ‘Approssimazioni’, non di meno: se si intende procedere con cautela, limitandosi a proporre delle ipotesi anziché definire regole di composizione, è appunto a causa delle caratteristiche del materiale avantestuale a disposizione, che permette di stabilire qualche procedimento ma non altri, rinvenibili piuttosto studiando altre carte d’autore22.

Un’ultima precauzione, per fornire un ulteriore puntello metodologico ai prossimi paragrafi. In linea teorica, bisognerebbe distinguere tra le varianti tratte dai manoscritti, che per dirla con Brambilla Ageno sono «varianti effimere, vissute solo un istante e solo per l’autore» (BRAMBILLA AGENO 1984: 231), e quelle tratte dalle riviste, la cui pubblicazione certifica un riconoscimento di maturità almeno provvisorio. Pur tenendo presenti tali differenze tra fenomeni d’innovazione, si è deciso, dato il numero non esorbitante di varianti e le poche tipologie d’innovazione riscontrabili, di proporre una ricognizione generale e unitaria degli interventi di Sovente sui

21 Scrivono anzi ITALIA-RABONI 2010 che «ripercorrere alla moviola l’atto della scrittura (…) sarebbe un’ingenua e forse inutile presunzione (nemmeno l’autore sa, perché non può ricordarli dettagliatamente, tutti i passaggi che si sono susseguiti nella sua mente, dalla prima idea del testo alla redazione finale» (27-28).

22 È scontato che le nostre non possono che essere conclusioni provvisorie. Uno studio scientificamente esauriente su ‘come lavorava Sovente’ dovrebbe infatti tenere conto di tutto il materiale testimoniale in nostro possesso, dunque anche di quello relativo alle altre raccolte del poeta flegreo. Solo con una visione d’insieme dei procedimenti correttorî si potrà avanzare un’interpretazione organica del metodo soventiano.

testi, nel tentativo di entrare nel laboratorio del Nostro attraverso alcuni casi particolarmente interessanti.

3.3. La tipologia d’intervento più ricorrente, e forse maggiormente rilevante alla luce delle consuetudini linguistico-metriche su cui si è in seguito sviluppata la produzione soventiana23, è senza dubbio lo spostamento dei sintagmi, che

sporadicamente si accompagna alla variazione lessicale o formale, e che soprattutto influenza la costruzione dei versi.

3.3.1. Tra i vari esempi citabili, vale la pena partire da uno dei più vetusti, quello di Di

sbieco, poesia che compare in una delle prime carte del faldone-raccolta Sc. Il testo presenta una variante significativa non solo dal punto di vista dell’organizzazione semantica, ma anche dell’innovazione formale. Si prendano i vv. 4-5 delle due versioni conosciute:

(…) Slittano il prisma e l’enigma. La grazia soccombe. Tutto si tiene. (Sc, f. I, c. 1r, vv. 4-6)

(…) Il prisma slitta l’enigma. La grazia soccombe. Tutto si tiene. (Cu, vv. 4-6)

La versione del 1982-’85 è decisamente limpida: la terza persona plurale chiarisce che «il prisma e l’enigma» sono entrambi soggetti di «slittano». La chiarezza viene meno del testo definitivo: il verbo passa al singolare, ed è molto facile scambiare la frase per una comune costruzione SVO. Solo tenendo conto della versione primitiva e degli usi sia linguistici che stilistici dell’autore si può intendere «Il prisma / slitta l’enigma» come una costruzione formata da due soggetti ai quali si riferisce un unico predicato. Variazioni sensibili dell’ordine e della disposizione servono a ‘sparigliare le carte’ del dettato poetico, complicandone la comprensione e dando così luogo ad associazioni alternative tra i sintagmi, in nome di una ambiguità sintattica che funge da trascrizione della mescolanza morfemica del reale.

3.3.2. Ancora dalla sezione I traiamo il caso della seconda strofa di La distanza. La versione di Sc presenta tre semplici costrutti dello stesso tipo, nei quali è difficile stabilire cosa sia soggetto e cosa predicato:

L’ombra è il passo. La verità è il ragno. La scissura è il fuoco. (Sc, f. I, c. 6r, vv. 6-7)

È sufficiente lo spostamento di un paio di copule perché i ruoli sintattici si opacizzino in misura ancora maggiore:

È l’ombra il passo. La verità è il ragno. È la scissura il fuoco. (Cu, vv. 6-7)

Con l’anticipazione del verbo, soggetti e predicati nominali divengono in pratica sovrapponibili; e la modifica risulterebbe anche abbastanza lieve, se non fosse che le due proposizioni si inseriscono in una terna metaforica che può essere parzialmente sciolta solo riordinando le componenti delle frasi.

3.3.3. La coppia In flatu e Nel fiato offre, nel giro di pochi versi corrispondenti, tre diverse forme di variazione. La prima interessa il rapporto tra testo latino e italiano. Le versioni pubblicate su Le recitano

(…) nunc umbra est parvula in flatus ungula. (Le, vv. 2-4)

(…) ora è piccola l’ombra nell’unghia del fiato. (Le, vv. 2-3)

La In flatu del 1998 recita invece, al v. 4, «in ungula flatus». L’intervento di Sovente avvicina così i due testi, lì dove la prima versione ne decretava l'autonomia anche attraverso la posizione tra preposizione e ablativo del genitivo flatus contro l’organizzazione sintattica dell’italiano. Altrove si verificano perturbazioni anche più radicali. Ancora da «lengua»:

solum de corpore meo, sicut de humo robigo, nascitur-frangitur

flatus. (Le, vv. 7-9)

dalla terra la ruggine, che rotola vortica si spappola il fiato.

Nel caso del latino, la neo-formazione, che pure rientra in un’abitudine linguistica, suggerisce che il flatus nasca e si frantumi nello stesso momento; a questa lettura contribuisce il testo italiano, che pur non presentando conî lessicali che hanno per soggetto il fiato. Modi diversi per verbalizzare la simultaneità e mettere in risalto, anche attraverso la pratica metrica della spezzatura di articolo e nome a cui è riferito, il sintagma fiato-flatus, in posizione isolata nelle due chiusure. La forma, e con essa il contenuto, cambiano in Cu. La formazione «nascitur-frangitur» viene sciolta, e con essa il vincolo di concomitanza tra nascita e separazione; di più: il secondo verbo viene spostato al verso successivo, a rafforzare la divisione temporale dei due momenti. Nel processo scompare la dislocazione dell’ultimo verso sulla pagina, un tratto ancora corrente in Contropar(ab)ola che non trova però spazio nel nuovo stile semplice di Sovente24; di conseguenza viene a mancare il bisillabo finale, anche questo

comprensibile se si considera la prassi metrica delle prime raccolte, ma stravagante in quelle degli anni Novanta e Duemila. Del resto, il v. 8 di Le è una sorta di endecasillabo irregolare che mal si inserisce in un testo basato sull’ottonario. La nuova versione omogeneizza la metrica, redistribuendone i sintagmi al fine di ottenere variazioni meno brusche della primigenia sequenza endecasillabo-bisillabo. Lo stesso discorso vale per Nel fiato; se qui la divergenza di contenuto è mitigata dall’uso ricorrente di riferire più predicati a un soggetto collocato nel mezzo della loro sequenza, sì che l’apparente unità d’azione evocata in Le viene solo leggermente rimandata con lo spostamento di «si spappola» alla fine dell’ultimo verso, è la stranezza prosodica a venir temperata, col riavvicinamento del determinativo al suo sostantivo e la costruzione di una sequenza quinario-senario in rima sdrucciola.

3.3.4. Modifiche spaziali e lessicali vanno spesso di pari passo, come si evince dalle primitive versioni dattiloscritte dei componimenti Carta-mare e Charta-mare (CG, cc. 24r-25r). Limitiamoci a collazionare i primi tre versi della Charta-mare testimoniata dal faldone con quelli di Cu:

Silens charta in dierum silvam intrat, incandescens se charta dat lentissime (…) (CG, c. 24r, vv. 1-3)

Silens in silvam dierum ingreditur charta incandescens offerens se lentissime (…) (Cu, vv. 1-3)

Anche da questo piccolo campione emergono notevoli differenze tra le due versioni: in

24 Nessuna delle raccolte successive a Per specula aenigmatis attesta dislocazioni versali; si può dire che tale pratica si configura come un tic sperimentale, presto superato dalle diverse direzioni di ricerca stilistica intraprese da Sovente.

quella dell’edizione Marsilio, il lemma charta è in fortissimo iperbato, e lo spostamento dal primo al secondo verso consente di sopprimere la sua ripetizione al v. 3; dierum e silvam subiscono inversione, sì che l’accusativo torna alla preposizione che lo regge; il verbo «intrat» viene sostituito con «ingreditur»; l’espressione «se dat» viene sostituita con «offerens», termine più colto e legato, anche da rima interna, al

silens del primo verso.

Quest’ultimo caso vira già verso le varianti lessicali, per le quali valgono due tendenze principali: la variazione e contrario del passaggio, volta a modificarne radicalmente il senso, e una ricerca di quella che, rubando un tecnicismo alla filologia dei manoscritti, si potrebbe definire la lectio difficilior, che consiste non tanto in preziosismi quanto in lessemi anche solo lievemente più connotati o rari dei loro antecedenti.

3.3.5. Sono pressoché antitetiche la prima e l’ultima stesura del v. 13 di Nell’afelio. In Sc (f. I, c. 12) si legge «punto la cieca preda»; se il ‘puntare’ non sembra assimilabile al ‘seguire’ successivamente introdotto, è l’aggettivazione a divergere in maniera netta dal testo di Cu (che definisce la preda «occhiuta»). Le modifiche desumibili dalla carta dimostrano peraltro un tragitto maggiormente orientato a conservare il senso di debolezza espresso dalla cecità: in un secondo momento, infatti, Sovente modifica «cieca» con «stanca»; solo dopo, sovvertendo l’intero verso, raggiunge l’esito definitivo. Può anche accadere che si eviti la sostituzione coatta operando piuttosto d’addizione, al fine di condurre altrove il lettore: è il caso dell’evoluzione di Sotto i

piedi un vuoto…, che in Po2 legge «greche / nervature», poi arricchitesi del tipo romano in Cu («con greche / e romane nervature», vv. 19-20).

3.3.6. Per il secondo tipo possono essere citati almeno due esempi evidenti. Tu cervo

volante… rientra tra i manoscritti più tormentati dell’intero Sc: al v. 10 si legge «di cambiarti», mentre la versione di Cu attesta «di mutarti». Non ci si sposta dal campo semantico del cambiamento, ma certo si ha a testo una scelta linguistica più raffinata del quotidiano ‘cambiare’. Ancora dal dattiloscritto di Carta-mare si legge, al v. 10, «frutti nascosti», che in Cu diventano «segreti frutti». L’anticipazione dell’aggettivo, frequentissima nel libro, concorre all’elevazione del dettato poetico; ma qui conta la sostituzione di «nascosti» col più misterioso «segreti». In qualche caso, poi, l’effetto aulicizzante viene cercato con espedienti classici della lingua poetica come l’apocope: la versione Sc di Cucciolo attesta «a volere ancora sognarlo» (v. 23), ma è sufficiente troncare l’ultima e di «volere» per ottenere un salto di letterarietà, nonostante il verso non subisca altre trasformazioni (rimanendo intatto persino dal punto di vista metrico).

Molto diverse, e pertanto meritevoli di un discorso a parte, le varianti proprie del cappellese. L’antecedente a nostra disposizione è Pa96, che attesta tutte le poesie dialettali presenti nella VI sezione di Cu. Le divergenze tra i due stadi sono quasi esclusivamente di carattere grafico: nelle edizioni in rivista mancano quasi del tutto le vocali chiuse, così come molte parole non presentano l’elisione iniziale.

3.3.7. Basti confrontare le due versioni della terza strofa di Nu munno ’ncantato per rendersi conto della revisione a cui Sovente sottopone la sua scrittura in dialetto:

Trase na luce ’mmiezo î rruvine, ’a luce r’ ’a puisia, nu rrevuòto ’i fiure ca ’nzieme metteno ’a vita cu ’a morte.

(Pa96, vv. 9-12)

Trase na luce ’mmiez’ î rruvine, ’a luce r’ ’a puisìa, nu rrevuóto ’i fiùre ca ’nziéme mètteno ’a vita cu ’a morte.

(Cu, vv. 9-12)

Vengono segnalati numerosi accenti, come «puisìa, ’nziéme, mètteno»; l’accentazione di fiure in fiùre contribuisce inoltre ad evitare di confonderlo con altri vocaboli (un lettore privo di qualunque competenza del napoletano potrebbe confonderlo con sciure, ‘fiori’). Nel caso di rrevuóto, la modifica accentuale è dovuta alla diversa apertura della o nella pronuncia della parola; e a una volontà maggiormente mimetica del parlato risponde anche l’elisione di «’mmiezo î rruvine».

Queste divergenze grafiche non possono essere spiegate con la mancanza dei caratteri meno usuali nei set di «Paragone», visto che tutti quelli a cui si fa riferimento compaiono in almeno un luogo della silloge; né vale l’ennesima diffida dall’attenzione a questa tipologia di microvarianti, quasi che le prime stesure di poesie in un dialetto estremamente localizzato privo di autonoma tradizione letteraria possano essere considerate alla stregua di comuni correzioni di errori di stampa.

3.4. Il microscopio del filologo gioisce di fronte a smottamenti del lessico e intromissioni di virgole, ma la poesia di Cumae costringe a fare i conti con ben altra tipologia di variante: i testi stessi.

radicale equivalenza delle lingue, tra le quali non esiste una gerarchia che obbliga ad adottare una precisa veste linguistica per esprimere un determinato contenuto. Vero è che sarebbero ravvisabili alcune eccezioni a questa regola non scritta, del resto esplicitate dal poeta stesso, come nel caso di alcune lunghe poesie poi confluite in Bradisismo, nelle quali il cappellese viene adoperato perché più consono ai motivi che danno voce ai sentimenti popolari25; ma vale

la pena notare che a questi testi corrispondono le versioni italiane, come sempre dotate di una propria specificità e una musicalità diversa.

Resta dunque valida l’equipollenza testuale, ma diventa a questo punto urgente capire ‘cosa siano’, di fatto, questi testi. Torna utile un celeberrimo saggio di Walter Benjamin, nel quale si legge che

ogni affinità metastorica delle lingue consiste in ciò che in ciascuna di esse, presa come un tutto, è intesa una sola e medesima cosa, che tuttavia non è accessibile a nessuna di esse singolarmente, ma solo alla totalità delle loro intenzioni reciprocamente complementari: la pura lingua. Mentre cioè tutti i singoli elementi – parole, proposizioni, nessi sintattici – di lingue diverse si escludono reciprocamente, esse si integrano nelle loro stesse intenzioni.26

Benjamin sta discutendo l’attività del tradurre, ma non è difficile riconoscere identici procedimenti nel lavoro di Sovente. È proprio il principio di integrazione nella differenza che fa dei testi di Sovente delle ‘singolarità’. Quello che viene espresso in un testo latino si ripete con sfumature differenti nel suo corrispettivo italiano o dialettale, e viceversa. E tuttavia, sarebbe sbagliato parlare di ‘autotraduzione’, non almeno nei termini canonici ai quali si fa solitamente riferimento, e che possono essere sintetizzati nel sintetico enunciato di Rainier Grutman: «The term “self-translation” can refer both to the act of translating one’s own writings into another language and the result of such an undertaking»27. È anche vero che una certa lettura dell’autotraduzione

acconsente e anzi postula la divergenza testuale. Barbara Ivančić osserva per esempio che lo scrittore compie sempre

25 Sovente ha discusso di questo ‘schematismo’ il 20 dicembre 2003 al Parco Fusaro; un resoconto dell’iniziativa è offerto da GIARRITIELLO 2004; si veda anche LIBERTI 2018: 155.

26 BENJAMIN 2014: 44. Già CLAUDI 2013: 115-116 segnalava l’importanza di questo passo per affrontare la scrittura di Sovente.

27 «Il termine autotraduzione può riferirsi sia all’atto di tradurre i propri scritti sia al risultato di una simile operazione» (GRUTMAN 1998: 17; traduzione mia).

quell’attività interpretativa che è presupposto di ogni traduzione, ed è sempre la stessa persona a negoziare tra i due mondi linguistici e culturali che nella traduzione si incontrano. Conseguenza ne è che i confini fra la traduzione e altre operazioni quali il rifacimento, l’adattamento, la ri-poesia (nel caso della traduzione poetica), si fanno vaghi e sfumati.28

Anche Grutman riconosce che, dal punto di vista della produzione, l’autotraduzione somiglia più a un processo di ‘doppia scrittura’ che a uno, a due fasi, di lettura e successiva stesura del tradotto29. E così, «the distinction

between original and (self-)translation therefore collapses, giving place to a more flexible terminology, in which both texts are referred to as ‘variants’ or ‘versions’ of equal status»30. Non c’è un prestigio maggiore dell’originale

rispetto all’autotraduzione, perche l’autotraduzione si presenta spesso come un testo inedito, decisamente dissonante rispetto a quello di partenza.

Il problema risulta particolarmente evidente nel caso delle traduzioni in versi, che costringono a veri e propri rifacimenti; è forse per questo che, quando hanno voluto tradurre i loro componimenti, i poeti neodialettali si sono

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