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La metrica di Cumae

4.1. Parlare di ‘lingua e stile’ di un poeta rischia di essere esercizio incompleto senza lo studio di come questi caratteri interagiscano con la forma effettiva della versificazione. In genere la maggiore difficoltà nella stesura del profilo metrico di un autore contemporaneo sta nel fatto che è la stessa nozione di ‘metrica’ a generare non pochi problemi, quando applicata a testi recenti. Onde evitare fraintendimenti, si dirà subito che sarebbe del tutto anacronistico credere che la metrica sia ‘morta’ solo perché non si seguono pedissequamente i dettami della prosodia pre-novecentesca: la distinzione oramai acquisita tra ‘metrica libera’ e ‘liberata’ sta lì a confermare la persistenza di limiti autoimposti e schemi tracciabili nel corpo dei versi68. E tuttavia, vige una sorta di ‘anti-regola’

nella poesia dell’ultimo scorcio del XX secolo, valida anche per i primi anni di quello successivo, per la quale, in assenza di coordinate salde al ricordo degli strumenti prosodici, occorre ridefinire continuamente le regole del loro utilizzo e del senso stesso al loro ricorso69. Ciò vuol dire che, se può essere rischioso

negare qualsivoglia riconoscimento di tendenze metriche collettive o almeno in grado di coinvolgere più autori, bisogna pur sempre considerare la forte individualizzazione della prassi, tale per cui ogni poeta, e Sovente tra questi, può adoperare con libertà rime o metri della tradizione senza risultare un restauratore, o scrivere non tenendo conto di ritmica e costanti versali senza risultare però un versoliberista, un eversivo, se non proprio un tardo seguace delle avanguardie.

A tal proposito, volendo prendere in considerazione l’influenza delle forme metriche tradizionali nel corpus di Cumae, dovremmo notare che il ‘recupero della tradizione’ condotto da neo-metricisti come Frasca o Valduga rimane estraneo alla sensibilità del Flegreo. Sono presenti, nelle raccolte successive,

68 La distinzione risale alle classiche Questioni metriche novecentesche di MENGALDO 1991: 27-74. Si intende, per metrica liberata, il risultato di un processo che non prevede una rottura drastica dell’impianto metrico, ma una liberazione dalle convenzioni metriche del passato.

69 Parla di «uso aperto della regola» GIOVANNETTI 2017: 34. In generale, siamo propensi ad accogliere l’‘invito in forma di provocazione’ di GIOVANNETTI-LAVEZZI 2010 (ma già di Federico Francucci), che invitano ad accettare la «trasformazione del codice metrico tradizionale, e quindi a non considerare gli innumerevoli slittamenti cui vanno incontro le forme metriche tradizionali come una serie di piccole infrazioni, ma a cominciare a porli nel contesto di un nuovo funzionamento della macchina» (138).

casi di sonetti più o meno regolari, ma in linea di massima si dovrà ragionare di una presenza di ‘spettri metrici’ evocati da strutture strofiche e numerazioni versali; non gli schemi esatti, per quanto sovvertiti dal lessico della cultura di massa, delle forme chiuse, ma interpretazioni libere liberissime dei metri tradizionali, che come tutto nella poesia di Sovente riemergono dal passato senza nulla concedere al rassicurante o al già noto, ma anzi presentandosi come fenomeni inediti, non immediatamente riconducibili ai probabili modelli. Sarebbe difficile non intravedere, per esempio, il modello del sonetto nella filigrana di Passa una voce… (due quartine, una terzina e un’ultima strofa di quattro versi), Mirificus globus (una terzina seguita da tre quartine) o ancora

Un’altra verità (due quartine in apertura e chiusura e due terzine nel mezzo). Il risultato, lampante nell’ultimo caso citato, è un ‘criptosonetto eterometrico’ che può superare il limite canonico dei 14 versi, ma che grazie alle divisioni strofiche rimanda comunque alla forma-chiave della nostra letteratura70. Ma si

pensi anche alle due In foliis, per folia, che esibiscono stanze di sei versi e un vocabolario ‘naturalistico’ che non possono non ricordare la sestina lirica di ascendenza due-trecentesca. Si aggiungano, ancora, a corroborare questa discendenza tradita, la sostanziale ‘immobilità’ della scena, a dispetto del pedale apparentemente narrativo, e la raffigurazione di un tempo paradossalmente al di là della temporalità; tutte caratteristiche, queste, che pertengono alla sestina lirica, in special modo a quella legata al filone dantesco (cfr. DE ROBERTIS 2005: 103-105). Certo, le stanze sono solo cinque, manca il congedo e, quel che più conta, non c’è traccia di rime (e dunque, com’è logico, neppure della retrogradatio cruciata), ma resta l’allusione a una forma fissa che pure risulta assai praticata dai contemporanei71.

70 Il sonetto vive nel Novecento una sorta di ‘riscoperta’, o per meglio dire di ripresa alla luce delle acquisizioni della liberazione metrica. Un’ampia ricostruzione delle forme del sonetto nella poesia contemporanea è TONELLI 2000; più sintetico il paragrafo sull’argomento in GIOVANNETTI-LAVEZZI 2010: 139-156. La dicitura ‘criptosonetto eterometrico’, adoperata da Gian Mario Villalta e Stefano Dal Bianco per alcuni componimenti di Dietro il

paesaggio di Andrea Zanzotto, è tratta da ZANZOTTO: 1411.

71 È soprattutto Gabriele Frasca a recuperare, e in qualche caso ad estremizzare, la forma- sestina: si pensi alla ‘dissestina’ con cui si chiude Rame (Milano, Corpo 10, 1984), in cui tornano in ogni strofa interi versi, o all’‘ipersestina’ nella stessa raccolta, composta da ben 42 stanze. Per dare invece un’idea del lessico naturale, e però liricamente connotato, di cui si compone il dittico, citato siano sufficienti i primi versi del testo italiano: «Pervasi di luce vibravano i prati / accanto a fiumi verdi, incantati, / tigli e roseti e olmi gonfi di linfa /

Non sorprende, invece, che i testi in cappellese presentino una notevole libertà metrica, forse meno evidente a causa dello stato già ‘emancipato’ della poesia di origine napoletana. Vero è, infatti, che nella poesia neodialettale campana il vincolo metrico è più debole che nelle altre espressioni nazionali, complice il necessario allontanamento dai modelli stroficamente impeccabili dei primo-novecenteschi. Se i testi di Di Giacomo possono diventare canzoni, taluni addirittura nascendo come tali, è in virtù del loro perfetto isostrofismo; allo stesso modo Russo predilige per i suoi schizzi la forma del sonetto, e vale la pena ricordare come ancora Eduardo De Filippo scriva numerosi sonetti e adoperi la quartina di endecasillabi in rima incrociata per le sue narrazioni in versi (si pensi al poemetto Vincenzo De Pretore, precedente in versi della semiomonima commedia messa per la prima volta in scena nel 1957). Ma all’altezza della scrittura di Sovente la lezione della Napoli di fine Ottocento è ampiamente elaborata e archiviata, sì che un poeta essenzialmente lirico come Achille Serrao può accostare metri canonici a ipermetri o soluzioni persino più ardite72.

4.2. Sono almeno tre i tratti più evidenti della metrica di Cumae: la preferenza per il monostrofismo; l’accostamento libero e all’apparenza casuale di metri di varia lunghezza, anche se non si tende mai ad accostare metri molto lunghi ad altri particolarmente brevi; il ricorso frequente all’enjambement forte.

Per quanto riguarda il monostrofismo, conforta la constatazione il mero dato numerico, giacché ben 57 dei 96 componimenti si compongono di una stanza singola. Le percezioni e i flashes che si susseguono nel libro si esauriscono nello spazio di una sola strofa, riuscendo a contenere anche il momento della riflessione su quanto colpisce l’occhio e la mente del soggetto (sia esso indefinito o riducibile alla prima persona singolare). Mens e La mente, dove l’accorgimento della presenza di «tarli nel legno» scatena

rinascevano ogni giorno dalle mani / infinite degli dei giocondi e sovrani: / zitto e innocente il diavolo dormiva [...]» (In foliis, per folia, vv. 1-6).

72 Basti, come exemplum, la prima stanza di Mal’aria (da La draga le cose, Marina di Minturno, Caramanica, 1997): «C’è rummasa ’a scumma d’ ’a culata mo’ / na chiorma ’e muscille che s’aggarba / pezzulle ’epane sereticcio quacche / «silòca» ’nfacc’ê pporte arruzzuta / e ’o viento nu viento ahi na mal’aria / ’a quanno se ne só / fujute tutte quante secutanno ’o ciuccio ’nnante, ’e notte / c’ ’a rrobba ’a rrobba lloro (’o ppoco pucurillo ca serve e tène) / e ’a pòvere s’aiza ’int’a stu votafaccia / pe’ ll’aria che se tegne d’ ’o janco d’ ’a petrèra» (vv. 1-10).

l’immaginazione del pensante, o La leggenda del paese, che si regge sui brandelli di un discorso ascoltato in maniera intermittente, si consumano nel giro di un’unica stanza, mentre testi a trazione maggiormente narrativa (per quanto comunque brevi), come la coppia Speculum et focus / Lo specchio e il

fuoco, le due In foliis, per folia o Camminando per i Campi Flegrei, si dividono in più parti.

La prassi metrica agevola anche l’interpretazione di componimenti altrimenti subdoli: è il caso di In specu e Al buio, i testi più lunghi del libro che, a una prima lettura, sembrerebbero assimilabili alla forma poemetto73. E però, i

più di 120 versi che compongono il dittico non si dividono in strofe, ancorché prive di isometria o legami rimici. Trattasi invece di flussi ininterrotti di versi, che attestano l’assenza di qualunque intento narrativo – nonostante e anzi contro la lunghezza stravagante – proponendo piuttosto una catena di figure animali, vegetali e minerali, talvolta ibridate, che si sostituiscono l’una all’altra con rapidità.

Monodiche o plurali che siano, le stanze di Cumae si costruiscono su una libertà metrica pienamente in linea con le tendenze della poesia italiana tardo- novecentesca. Non avrebbe molto senso calcolare la frequenza con cui compaiono novenari o decasillabi, o produrre griglie entro cui sistematizzare gli esiti di un computo integrale del libro. Sarebbe al contrario opportuno ricordare l’interpretazione del fatto metrico offerta da Sovente:

Il verso è tradizionalmente una unità di senso, ritmicamente costruita e con una sua memorabilità. Il verso, però, fa i conti con gli altri versi, per cui un verso, preso isolatamente, può risultare debole e insignificante, mentre in un contesto compositivo più ampio trova la sua pregnanza e legittimità.74

L’interpretazione spiega anche il frequente ricorso alle dislocazioni, all’iperbato

73 A dire il vero, nel Novecento la categoria di ‘poesia poematica’ raccoglie esperienze tra loro molto diverse, e rischia di ridursi a un’etichetta di comodo per indicare tutto quello che non è né abbastanza breve da rientrare nelle strutture canoniche della lirica occidentale, né abbastanza lungo da imporsi come grande poema. Antonio Girardi parla esplicitamente di un «paradossale, disponibilissimo e moderno ‘non genere’ […] definibile più che altro per contrasto con le forme liriche più tipiche della modernità» (GIRARDI 2010: 249).

74 SOVENTE 2002: 101. La considerazione si ritrova nelle pagine che uno dei nostri maggiori metricisti ha dedicato al verso libero: nella metrica versoliberista, «ha scarso peso il verso considerato bella sua singolarità, estratto dalla serie di cui fa parte» (MENICHETTI 1993: 147).

e alle perturbazioni sintattiche: se si considera, infatti, la metrica come un espediente ‘seriale’, cioè comprensibile solo considerando la compattezza di una serie di versi, assume nuovo senso la disposizione delle parole, che fungono ora da connettori e ancore del fatto metrico75. Lo stesso sfruttamento intensivo

dell’enjambement forte, che spezza di frequente articoli o preposizioni e nomi, si spiega come un ennesimo modo per restituire una compattezza a un testo che apparirebbe altrimenti sfilacciato.

Tutto questo porta però a valorizzare elementi che, tecnicamente, andrebbero considerati retorici o sintattici, e che vengono ora investiti di uno statuto metrico. Nel momento in cui l’apertura della norma evocata da Giovannetti ingloba componenti extra-metriche del fatto testuale al fine di produrre una regola nuova ma non meno stabile, è doveroso considerare tutti gli elementi in questione come espedienti che compattano le poesie di Sovente in sostituzione della prosodia tradizionale. È allora probabile che valga, in Cumae, una «metrica del discorso» (GIOVANNETTI-LAVEZZI 2010: 248) che si fonda su forme di ripetizione che giustificano ritmicamente il testo. Si è visto quanto siano ricorrenti, in particolar modo nei testi italiani e latini, le anafore, le ripetizioni, i parallelismi; ed è tutt’altro che accessorio il ricorso a una sorta di

Ringkomposition in virtù della quale gli elementi iniziali di un componimento vengono ripresi alla fine, talvolta senza modificarne neppure la forma (e in qualche caso ripetendoli quasi alla lettera):

Perduta la nave nel gorgo

di un grigioazzurro paesaggio che l’inquieto viavai degli occhi dei pensieri ingoiava […] fu ed è la stessa

stolta necessità che stringe

la nave perduta nel gorgo

75 Per questa interpretazione, che risente del resto delle riflessioni sul verso libero di Jurij N. Tynjanov, si veda anche ESPOSITO 1992: 26-28. Bisogna anche riconoscere che nella testualità di Cumae non si verificano scarti metrici eccessivamente bruschi, se non in casi che fanno storia a sé come Saliscendi, dove l’alternarsi di versi lunghi e brevi restituisce prosodicamente il «saliscendi di foglie» (v. 1) con cui esordisce il testo. Non sempre sono reperibili ritmemi dominanti, nei testi soventiani; ma quel quanto di ‘informale’ di questa metrica (per la definizione di ‘metrica informale’, cfr. GIOVANNETTI-LAVEZZI 2010: 266- 270), che impedisce di tracciare precisi schemi o moduli ricorrenti, si stempera in un uso del verso libero modulato sulle misure dominanti assegnate al testo.

di un deviante blu (Nel gorgo di un deviante blu, vv. 1-4, 17-20; corsivi nostri). Rispondono a questa discorsività anche le sequenze, frequenti nelle scritture in latino, di coppie o tristici di versi ritmicamente identici, spesso segnalate da anafore: Luna in circulo adfixa… presenta sia un distico con ictus di I-IV-VII «silens est oculus luna / campos desertos adspiciens» (vv. 4-5), sia un distico come «luna in lacu reflexa / luna in axe convexa» (vv. 13-14), dove alla coincidenza ritmica si aggiungono l’anafora, l’allitterazione in x e dulcis in

fundo la rima. A identici propositi di tenuta del ritmo rispondono le più frequenti rime al mezzo e interne76; ma al di là della presenza di rime, la

funzione ritmico-associativa dell’istituto viene affidata proprio alle figure di ripetizione, che si configurano come ‘rime psichiche’ utili a rendere memor(izz)abili i testi.

Il recupero continuo degli stessi elementi, il gioco continuato della ripetizione, porta però il discorso poetico a farsi regressivo: la semantica ruota attorno a un senso già definito, e alla narrazione, che richiederebbe un andamento in avanti improntato alla storicità, si preferisce il ragionamento monologico77. Non si sminuisce affatto la poesia di Cumae definendola

‘monotona’: nel momento in cui si stabilisce un vocabolario ben definito, a sua volta ancor più circoscritto nei testi singoli, che ripetono e rimuginano su poche espressioni, il risultato non può che essere una poesia il cui discorso torna di continuo su se stesso e, di conseguenza, sul suono e sul ritmo che lo contraddistinguono.

4.3. Il trilinguismo costringe, inevitabilmente, a scelte metriche divergenti; ma esiste, per l’assetto metrico, una complementarietà simile a quella linguistica. Variazioni sottili o macroscopiche nella tessitura formale differenziano testi monotematici, che nel rimpallo silenzioso dei comuni tratti metrico-ritmici instaurano una nuova, ennesima forma di dialogo reciproco. Avremo così

76 Assieme a questa possibilità interpretativa si dovrà pur sempre segnalare la fortuna straordinaria che gli istituti della rima interna e al mezzo conoscono nel Novecento; cfr. MENGALDO 1991: 56.

77 Ci sia concesso di ripetere un esempio, davvero illuminante da questo punto di vista, e si osservi come In specu e Al buio, testi che maggiormente si avvicinano alla forma poemetto, dunque una delle forme improntate alla narrazione in versi, non raccontino affatto una storia.

sequenze di allitterazioni e assillabazioni che tornano in testi attigui, come negli

explicit dai toni cupi di Rudera e Ruderi, più volte citati nelle scorse pagine: rudera historiae obscura

sub sole alte loquuntur.

sotto il sole – lassù – a perdifiato parlano i ruderi oscuri della storia. Ma è forse nella poesia trilingue che si assiste a un autentico gioco di rimandi fonici che potenzia l’originale ripetitività del discorso soventiano. Un buon campione d’esame è la terna Nu munno ’ncantato / Un mondo incantato /

Mirificus globus. I primi due componimenti sono strutturalmente affini: entrambi si compongo di quattro stanze di tre versi (la prima e l’ultima), cinque versi (le seconde) e tetrastiche (le terze stanze); Mirificus globus presenta invece un invariato numero di versi, ma una prima stanza tristica alla quale ne seguono tre di quattro versi. I versi variano dal senario al dodecasillabo, ma è

Mirificus globus che presenta la maggior compattezza prosodica, con versi che variano dal settenario all’endecasillabo ma con una netta prevalenza di ottonari e novenari, raccolti in particolare nella seconda stanza. Nu munno ’ncantato e

Un mondo incantato sono legate anche dal punto di vista rimico. Per quanto riguarda la prima, si riscontra una sola rima ai vv. 12-15, «morte : pporte», e un’assonanza inframezzata da rima interna nella seconda stanza, «viénto : turmiénto : tiémpo». Altra rima interna è «’ncantato : spaparanzàto» (vv. 13- 15), nella stanza di chiusura. La situazione è pressoché identica nel testo italiano: rima ai vv. 12-15 «morte : porte», assonanza nella seconda stanza, «vento : tempo», e rima interna «vento : tormento». Altra rima interna è «incantato : spalancato» (vv. 13-15), nella stanza di chiusura. Diverso è ancora una volta il caso di Mirificus globus, che presenta una rima ai vv. 3-4 «accendit : prehendit», ma non mancano rime sdrucciole ritmiche in omeoteleuto come «temporis : tenebris» (vv. 6-7), «leniter : alacriter» (vv. 11- 15). Numerose in tutte le liriche le allitterazioni, che nel caso di Un mondo

incantato seguono e al massimo prolungano quelle del cappellese: avremo infatti «ffuoco, ffantasie» e «fuoco, fantasie, fessure»; «ra sempe ’a sbatte e ’a scava» e «scuote, scava, sempre»; «rruvine, rrevuóto», «ruinas : ruit» e la tortuosa «s’insinua, luce, luce, un turbinio», fino all’assillabazione finale, esclusiva del dialetto, «felòseco, Vico», a cui si ricollega l’assillabazione latina «Vico, visibilem».

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