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Archeologia di superficie: uscire dal sito, uscire dal “fuori sito”

Il sito: definizione del sito “nel presente” e definizione del sito “nel passato” ...6 L’evoluzione del ‘sito’ nell’evoluzione della pratica archeologica del survey ...7 Settlement e Landscape archaeology. Singolo oggetti vs. insiemi; Attività vs occupazione 11 Lo sviluppo dell’off-site nella pratica odierna ...13

1. Scatters ...14 2. Manuring ...14 3. Features ...15 4. Il confronto fra archivi (“Rosetta Stone”) ...16 Considerazioni generali 1. Hard e soft activities ...17 Considerazioni generali 2. Off-sites, landscape e spazio “di mezzo” ...18 Il sito come costruzione intellettuale. Destrutturazione del concetto di sito. Off site e antisite

survey ...19

Conclusione - proposta ...21 2. Un percorso fra le definizioni di sito e i concetti in essi implicati ...23 Robert Foley ed il concetto di ‘off-site’ ...23 Peter J. Fowler, il sito e/con/oltre il paesaggio; il paesaggio culturale come “ideofatto” ..24 Dunnell, la destrutturazione del sito ...29 Le debolezze ontologiche, epistemologiche e teoriche del sito ...31 Un approccio anti-sito (antisite). Siteless conception of the archaeological record ...35 John Bintliff e l’off-site archaeology nelle regioni mediterranee. ...36 Banning e i modelli alla base del survey archeologico ...40 I modelli di cultural distribution, la proposta di Banning: ...42 “Non-site” survey come Landscape archaeology: ...45 L’esperienza di D. H. Thomas ...46 Landscape archaeology e ricostruzione delle società rurali ...47 Binford 1964, A Consideration of Archaeological Research Design ...48 3. Spunti teorici che emergono in merito all’indagine archeologica di superficie ...51 Il paesaggio come continuum e contenitore ...51

Non-site e off-site. Una precisazione ...54

Processi di formazione ...55 Le “variabili ambientali” (vs. le “risorse ambientali”) ...55 Approccio ecologico-storico e off-site. Alcuni spunti e temi in comune ...58

Le risorse ambientali ...61 La questione della “scala di osservazione” e dell’unità minima di indagine ...62 Le campionature “geometriche” e l’“archeologia cartesiana” ...63 Una cartografia archeologica “riflessiva” ...64 Regione ...65 CRM (Cultural Resource Management) ...67 Contesto della ricerca ...69 (L’off-site fra) Preistoria e Storia ...69 Archeologia e Annales ...71

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. Archeologia di superficie: uscire dal sito, uscire dal “fuori sito”

La questione centrale di questo capitolo è la discussione del dualismo fra i concetti di sito e off- site nell’ambito della landscape archaeology e delle altre discipline che con essa condividono lo studio e la ricostruzione storica del paesaggio, in primis l’archeologia ambientale.

Un esame delle recenti esperienze e rassegne maturate all’interno della pratica archeologica contemporanea, lascia pensare che il concetto di landscape archaeology e la sua discussione/ applicazione si sia sviluppato attorno ad una moltitudine di dicotomie. Oggetto specifico di analisi sarà la definizione di sito, nelle sue evoluzioni e differenti formulazioni, e della dualità fra “sito” e “non sito” come cartina al tornasole utile per evidenziare l’impiego di concetti quali paesaggio e ambiente nelle ricerche archeologiche (perché come vedremo parlare di sito è (non) parlare di landscape, e viceversa)1.

Si cercherà qui di rendere conto della nascita in archeologia del concetto di sito e di vedere come questo sia stato utilizzato all’interno di una contrapposizione fra uomo e ambiente che ha ancora oggi una ricaduta in termini di lettura e interpretazione delle tracce archeologiche legate alle pratiche di gestione delle risorse ambientali.

Introduzione

La nozione di ‘sito’ è piuttosto ambigua nell’uso comune archeologico e affrontata di rado dagli addetti ai lavori2. È una situazione per molti versi paradossale, trattandosi dell’oggetto che dovrebbe essere costantemente al centro della ricerca, almeno in una associazione mentale immediata. Il sito invece viene quasi dato per scontato come un’entità in un certo senso autodefinita3. Una possibile causa di questo fenomeno può risiedere nel fatto che si tratta di un concetto spesso sfumato e che soprattutto può assumere differenti significati a seconda del contesto di utilizzo. Per forza di cose non può essere considerato autonomamente, ma in relazione all’ambito di studio nel quale viene utilizzato e ad altri concetti coi quali viene messo in relazione. Poiché alla scala dello scavo il sito tendenzialmente si autodefinisce (coi limiti dello scavo stesso), lo sforzo maggiore di definizione è alla scala metodologica-operazionale del

survey, a quella concettuale-interpretativa della settlement archaeology e a quella burocratica

e di gestione del CRM, che probabilmente costituisce oggi l’ambito d’uso preferenziale per il termine “sito”. Esiste poi un ulteriore livello, sotteso agli altri e più genericamente teorico, nel quale il sito deve essere inteso come una ‘costruzione intellettuale’ dell’archeologo situata nel presente. In primis va considerato l’utilizzo del concetto nel survey, soprattutto nell’ambito della stagione “aurea” degli anni ’70 – ’80, perché l’identificazione dei siti passa necessariamente

1 Possiamo parlare a buon diritto, in merito all’influenza che il sito e la ceramica hanno su archeologia del paesaggio, di “effetto alone”. Con questo termine, noto in sociologia sin dagli inizi del Novecento, si designa un

bias cognitivo, un pregiudizio, secondo cui nel formulare una valutazione riguardo ad un determinato soggetto,

la percezione di un tratto è influenzata dalla percezione di uno o più altri tratti dell’individuo o dell’oggetto (ad esempio giudicare intelligente, a prima vista, un individuo di bell’aspetto).

2 Per l’Italia si registra il caso isolato del volume edito recentemente da Daniele Manacorda (2007). Nicola Terrenato (2000b) chiude significativamente la descrizione della voce “sito/non sito” del Dizionario di archeologia (Francovich, Manacorda 2000), che la questione della definizione del sito rimane ancora aperta. 3 Anyone who has done much fieldwork is aware that distinguishing a site and setting its boundaries is an

archaeological decision, not an observation. With a few obvious exceptions, the basic criterion in making this

decision would appear to be artifact density. Sites are locations having high artifact densities. This criterion is rational enough when the purpose is to identify locations suitable for excavation, but a pragmatic decision of this sort should be recognized as such and not treated as observational in the same sense as the recognition of a potsherd” (Dunnell, Dancey 1983: 271).

attraverso la ricerca sul terreno e le sue metodologie4. Nei confronti della landscape archaeology poi, esso ha vissuto costanti dualismi –spesso deleteri in termini di comprensione generale- con l’ambiente prima (anni ’60 –‘70) e con il paesaggio poi (a partire dagli anni ’80 fino ancora ai giorni nostri). Infine deve essere necessariamente considerato il rapporto che si è sviluppato nel corso degli anni con la sua antitesi, ovvero il concetto –anch’esso naturalmente spesso ambiguo e comunque artificioso- di ‘off-site’5.

Il sito: definizione del sito “nel presente” e definizione del sito “nel passato”

La storia del concetto di sito è la storia della definizione dei suoi limiti fisici (com’è) e della sua ‘essenza’ (cos’è), nel passato e nel presente. In pratica la costruzione del concetto di ‘sito’ avviene attraverso due parabole distinte (che naturalmente talvolta si intersecano): da un lato abbiamo un’evoluzione ‘analitica’ o ‘cartesiana’, volta alla definizione geometrica (perimetrazione), dall’altro un approccio più propriamente ‘concettuale’, in cui sono maggiormente sviluppati i legami del sito con altre componenti della ricerca archeologica, ad esempio in relazione al concetto di landscape (tenendo conto tuttavia che anche nel primo percorso sono naturalmente presenti elementi di tipo teorico). Il primo dei due percorsi è in qualche modo più lineare6 mentre la seconda strada ha un tracciato molto più complesso e ritorto7.

Per quanto riguarda i limiti fisici le contraddizioni emergono maggiormente in merito alla non-corrispondenza fra quanto osservato oggi e quanto doveva esistente nel passato. La comprensione di questo iato si misura nei termini della lettura dei processi postdeposizionali che hanno interessato il sito in questione e delle categorie interpretative utilizzate dall’archeologo che necessariamente sintetizzano e semplificano la complessità del passato. Tuttavia più che in queste direzioni, la pratica archeologica tende a considerare maggiormente i criteri di definizione analitica (densità rispetto a soglie medie o minime, uso dell’off-site) e i differenti tipi di tracce utilizzati (relative cioè al sottosuolo, al soprassuolo, alla sola ceramica ecc).

Nel secondo caso, per quanto riguarda il sito-nel-passato, gli approcci sono diversi. La questione può riguardare definizioni operazionali, utili appunto a definire una categoria sulla base della quale impostare la ricerca sul campo, che possono andare da una visione monumentale ad una focalizzata sulle concentrazioni (più o meno misurabili) o, ancora, sul singolo oggetto (o al punto di osservazione/raccolta).

Altro discorso riguarda invece le categorie interpretative, secondo le quali il sito può essere inteso come il luogo nel quale fossero presente in antico (e/o siano rinvenibili oggi) tracce di

4 Per una rassegna sull’evoluzione dei modelli utilizzati nelle indagini archeologiche di superficie si veda Banning 2002: 14-22. John Bintliff riguardo al problema dell’identificazione/delimitazione dei siti menziona il fatto che per alcuni (che non cita), il fine ultimo delle survey rimane comunque il “site definition game”, al di là di quanti discorsi di metodo si possano fare in merito (Bintliff 1999: 200).

5 Questa costante ambiguità riflette forse la carenza di ragionamento teorico alla base di molta archeologia contemporanea, soprattutto se rapportata ad una diffusa mentalità “empirista” per cui spesso ci si relaziona con l’oggetto di studio come nei confronti di una realtà “data”, appunto considerata in un certo senso “esistente” in sé e per sé, e di per sé “autodefinentesi”. Non è un caso quindi che le prime ricerche che hanno sottolineato la possibilità di un approccio che considerasse l’off-site (Foley 1981) ponesse un forte accento sui processi di formazione delle concentrazioni archeologiche osservate e sul sito come “costruzione intellettuale” dell’archeologo.

6 Cfr. la ricostruzione operata da Robert Dunnell, riassunta nel paragrafo successivo.

7 Essa è ricostruita in modo significativo da Fowler (cfr. infra). Ovviamente la scelta della metodologia da applicare dipende dal concetto di sito che si sceglie di applicare. Nel primo caso in un certo senso siamo ancora di fronte ad una concezione empirista, mentre nel secondo caso abbiamo una profondità teorica maggiore, ad esempio nel considerare il landscape nella sua interezza.

frequentazione umana, riferibili a seconda dei casi ad occupazione/insediamento o attività. Un elemento ulteriore in questo caso è costituito dalla diversa prospettiva che il soggetto di studio (settlement archaeology piuttosto che, ad esempio, paesaggio/ambiente) impone nella scelta della definizione di sito.

Per quanto concerne il sito-nel-presente invece, nonostante anche l’esercizio archeologico, con il suo portato pratico e teorico, sia un attività-nel-presente, subentrano principalmente le considerazioni in merito ai processi di formazione cui sono sottoposte le concentrazioni analizzate, o la sfera burocratica dell’heritage, su impulso del CRM8.

Esiste poi una terza via, sintesi fra le prime due, che trova ancora poco spazio nella pratica, coincidente con l’applicazione della prospettiva dell’object biography al sito. In base a questo approccio vengono a cadere in pratica le distinzioni che riguardano il sito nel passato da quello nel presente, poiché entrambi vanno a costituire un segmento di un unico percorso appunto biografico9. La prospettiva della biografia è fondamentale perché reintroduce la verticalità della diacronia fino a comprendere il contesto sociale contemporaneo ed il contesto di ricerca contemporaneo in cui le interpretazioni e le osservazioni dell’archeologo hanno luogo.

L’evoluzione del ‘sito’ nell’evoluzione della pratica archeologica del survey

Robert Dunnell nota come

“Definitions of site do not appear routinely until the midtwentieth century, and then typically in the context of explaining archaeology to neophytes. Apparently, all archaeologists knew what sites were, and the notion need only be explained to nonarchaeologists. This condition may not have changed” (Dunnell 1992: 23)10.

L’evoluzione del concetto di sito può essere rappresentata metaforicamente come un processo di messa a fuoco graduale e progressiva, in un certo senso una vera e propria “immersione” nel sottosuolo compiuto dall’archeologo per la valutazione dei siti. A partire da una prima fase caratterizzata dall’analisi dei resti materiali emergenti nel soprassuolo, passando per il riconoscimento delle tracce costituite da forme e segni nella superficie terrestre (cumuli, concentrazioni di manufatti, anomalie nella vegetazione, cropmarks…), fino allo sviluppo di tecniche di investigazione del sottosuolo (geofisica, remote sensing, Lidar…).

Le più antiche concezioni di sito possono essere ricondotte alla ‘preistoria’ della disciplina archeologica ed associate con l’iconica immagine delle rovine emergenti nel paesaggio del Romanticismo11. A seconda dei casi e di quale sia l’approccio in merito alla nascita di una ‘sensibilità’ archeologica, soprattutto in relazione alla pratica del survey nelle sue molte

8 Si tratta di un processo di “metamorfosi”, le cui origini sono da rintracciare secondo Fowler nell’ambito del Cultural Resource Management del Novecento, secondo cui il ‘sito archeologico’, inizialmente sia “intellectual concept” che “phisically existing feature in the landscape”, diventa “bureaucratic item”, ampliando di conseguenza il novero dei soggetti (e delle professionalità) interessati ad esso non più solo agli archeologi, ma anche a nuove categorie professionali quali manager ecc. Si tratta di una sfumatura che arricchisce la convenzionale visione dell’interdisciplinarità che ruota attorno al concetto di sito.

9 Si veda il capitolo appositamente dedicato all’interno di questa tesi.

10 Dunnell 1992. La definizione di “definizione” di Dunnell è la seguente: “Here I use define to mean stating the necessary and sufficient conditions for being a member of a class and identify to mean the process of ascertaining whether a particular thing meets the requirements of a definition and delineating its boundaries” (Dunnell 1992: 23).

sfaccettature, le radici possono essere rintracciate tuttavia anche molto più indietro nel tempo ad esempio fino al medioevo12. Dall’iniziale interesse archeologico per il “monumento”, autodefinito nella sua evidenza fisica e materiale, si è passati alla costruzione a cavallo fra otto e novecento del concetto di “sito archeologico” dove il termine ‘sito’ viene mutuato dal commonsense come un vero e proprio calco letterario. Esso diviene in pratica al contempo una categoria archeologica sia osservazionale che analitica, un’ambiguità (una sorta di ossimoro in realtà), le cui ricadute si misurano ancora oggi nella pratica archeologica13.

Nel secondo dopoguerra si sviluppa da parte di studiosi britannici impegnati in patria o in area mediterranea, una sensibilità nei confronti delle tracce riconducibili alla presenza di siti, soprattutto ispirata dall’emergere della pratica dell’archeologia di superficie e della lettura delle foto aeree ma anche da altri fattori quali ad esempio la recente definizione di metodo della local history di W. G. Hoskins14. Allo stesso tempo, sempre a partire dalla lettura delle foto aree e dall’individuazione di manufatti e resti di strutture in superficie, si sviluppa in America una pratica archeologica fortemente influenzata dai modelli geografici di Walter Christaller (teoria delle località centrali), della catchment analysis o della New Geography. Questo segna in un certo senso una differenza con la pratica sviluppata in area mediterranea, che invece si innesta su una consolidata tradizione di studi topografici per l’età classica, che prevedevano l’utilizzo esteso di altre tipologie di fonti. In un certo senso si può affermare che i due approcci differenti sulle due sponde dell’Atlantico hanno continuato ad alimentare una dicotomia anche negli anni a venire. Esempi paradigmatici di questi due approcci sono le ricerche degli anni ‘40 di Gordon Willey nella Valle del Virù15 e di J. B. Ward Perkins col South Etruria Survey condotto a partire dagli anni ‘5016. In entrambi i casi l’accento è posto più sull’individuazione di siti che sui criteri di distinzione degli stessi17. Le tracce individuate sono utili, in questo contesto, a stilare censimenti

sulla base dei quali costruire una ricostruzione topografica (geografica) del popolamento e ad individuare le aree di possibili scavi18.

12 Banning rintraccia (come molti altri, ad esempio cfr. Cambi, Terrenato 1994) una ‘curiosity’ nei riguardi del landscape almeno a partire dal XVI secolo. Ma anche nell’esplorazione di antichità della Terra Santa, dei luoghi sacri, dal dodicesimo secolo (anche per quanto riguarda gli scrittori arabi).

13 Dunnell sottolinea le sfumature negative nel riprendere la terminologia d’uso comune invece che elaborare proprie categorie archeologiche: “the commonsense origin of site led to its early fixation in practice and law

before we were equipped to appreciate the intellectual baggage or could anticipate the myriad of practical

problems it entailed. As [Barbara] Luedtke has recently surmised, this may simply express a general reluctance

to abandon the essentialist ontology of common sense” (Dunnell 1992: 34). Si veda inoltre la nota precedente

riguardo alle ‘lacune’ teoriche della disciplina archeologica contro l’imperante empiricismo, qui rappresentato dal ‘buon senso’ comune.

14 Banning rintraccia quello che forse è per lui il primo a occuparsi nello specifico della ricognizione di dispersioni manufatti con W. G. Clarke (1922: 24-32), autore di una guida per amateurs interessati in reperti litici preistorici, con consigli per il fieldwalking. In una linea “ideale” possiamo collocare, immediatamente dopo di lui, la figura di W. G. Hoskins, padre della local history, che pose l’accento in modo determinante sull’apporto dell’indagine di terreno nello studio del paesaggio storico.

15 Willey 1953. 16 Potter 1979.

17 Gallant 1986, nel ricostruire schematicamente l’evoluzione del concetto di sito si riferisce a queste prime due fasi coi termini di ‘benign neglect’, ossia “i siti sono siti e sono riconoscibili come tali” e ‘corretto ma vago’, 18 Significativo in tal senso il titolo del saggio di Maria Grazia Celuzza ed Elizabeth Fentress, La ricognizione di

superficie come indagine preliminare allo scavo, nel volume del 1990 Lo scavo archeologico dalla diagnosi all’edizione

(Francovich, Manacorda 1990). Il riferimento alle tracce è ancora privo della profondità datagli dagli studi che si affermano in Europa a partire dagli anni ’70 sul paradigma indiziario partendo dagli spunti di Carlo Ginzburg. Tracce e paradigma indiziario verranno ripresi più volte per tracciare paralleli fra l’indagine archeologica e quella di psicologi, detective e medici, tutti costretti a lavorare a partire da sintomi e indizi, nel nostro caso per ricostruire stratigraficamente le attività umane del passato. Non mancano riferimenti in tal senso neanche per la funzione ‘propedeutica’ allo scavo per quanto riguarda il survey: “Survey would provide, as it were, a ‘clinical epidemiology’ approach, which would allow the identification of global trends and would escape the inherent

A partire dagli anni ’60 si afferma in archeologia, animata principalmente da Lewis Binford, la corrente processualista, che per quanto riguarda i siti condivide la visione determinista di Willey in relazione all’ambiente. Il modello processualista del ‘record’ archeologico ricalca quello degli storici-culturalisti basandosi su un indefinibile continuum all’interno del quale l’oggetto di indagine è costituito da elementi discreti delimitati in base a caratteristiche interne omogenee. Il concetto di continuum archeologico trova una delle sue più riconosciute codificazioni in Plog et al. 1978, per i quali i siti costituiscono dei picchi di alta densità che possono essere delimitati, in virtù del cambiamento relativo di questa densità rispetto a quella generale del continuum:

“A site is a discrete and potentially interpretable locus of material. By discrete we mean spatially bounded with those boundaries marked by at least relative changes in

artifact densities.” (Plog, Plog, Wait 1978: 389, via Gallant 1986; il primo corsivo è nel testo originale, il secondo in Gallant 1986)19.

Gallant introduce, riguardo a questo continuum, la definizione di “background noise”20. Un continuum-contenitore al quale ci si riferisce spesso in termini di “landscape”.

A partire dagli anni ’70 si ha l’affermarsi deciso degli studi processuali che per alimentare la proposta dell’applicazione del metodo scientifico in archeologia, indirizzano gli sforzi nella ricerca di criteri utili a produrre “dati” assoluti e comparabili fra loro, anche fra diverse aree geografiche. I siti vengono così ridotti perlopiù ad entità da formalizzare ed assorbiti in un’ottica di tipo geometrico-matematica. Quest’ultima caratterizzerà la stagione delle campionature (e dei loro criteri) dell’archeologia, soprattutto americana. La ricerca vede mettere sempre più al centro dell’attenzione i criteri quantitativi per distinguere soglie di densità a partire dalle quali poter parlare di “siti” rispetto al diffuso continuum e il tentativo di mitigare i cosiddetti fattori di disturbo/errore, come quelli legati a differenti intensità di indagine e visibilità al suolo. Spesso questa pratica si avvolgerà su se stessa fino all’illusoria ricerca di formule magiche applicabili e replicabili in qualsiasi contesto(Bintliff 1999: 213).

In questo contesto le cosiddette variabili ambientali vengono utilizzate in chiave estremamente statica. Il nodo dei processi di formazione viene spesso risolto tramite la raccolta di informazioni riguardanti l’ambiente, per valutare l’effetto dei processi post deposizionali sulla formazione del record archeologico di superficie. Si vengono quindi a classificare una serie di “variabili ambientali” quali le caratteristiche del suolo, l’erosione, il clima o la copertura vegetale intese come “fattori di disturbo” e utilizzate per valutare l’effetto dei processi postdeposizionali sul deposito archeologico originario e la distribuzione di manufatti in superficie: