La dimensione “narrativa” della biografia culturale ...12 Agency ...18 Biografie archeologiche ...22 La variazione di senso della biografia culturale di Kopytoff in archeologia. The commodization of The cultural biography of things. ...24 2. Cultura materiale. Un percorso di lento affrancamento dall’archeologia medievale. ...27 Il concetto di Cultura...28 I primi numeri della rivista Archeologia Medievale. Verso una definizione dell’archeologia medievale e della storia della cultura materiale ...30 L’archeologia medievale. Le monografie mainstream (Francovich 1987, Gelichi 1997, Augenti 2016). La cultura materiale mainstream ...39 Quaderni Storici 1976 - Per una storia della Cultura Materiale ...41 Jean-Marie Pesez (1979) ...46 Maria Serena Mazzi (1985) ...48 Storia della Cultura Materiale e Archeologia della Produzione (Mannoni, Giannichedda)...51
Modern Material Culture Studies. La prospettiva della Historical Archaeology alla Cultura
Materiale ...54 3. Dalla Storia della Cultura Materiale alla Storia delle Risorse Ambientali ...57 La microanalisi geografico-storica ...57 Reti di fonti e biografe di oggetti. Contesto e contesti? ...58
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. Biografie di oggetti
Biografie di oggetti. A ben vedere, ed in senso lato, qualsiasi operazione archeologica, sia essa svolta sul campo o in forma di saggio, si connota come la biografia di uno o più oggetti. Intendendo questi ultimi come, genericamente, “manufatti” possiamo includere nell’elenco qualsiasi entità studiata e osservata dall’archeologo, dal minuscolo frammento alla stratigrafia, dall’edificio al paesaggio. Riguardo all’uso del termine “biografia” poi, escludendo per ora di affrontare la questione della forma narrativa o “verticale” nell’esposizione di ricerche archeologiche, esso si connette automaticamente ad un’idea di descrizione diacronica delle vicende1 storiche riguardanti l’oggetto studiato. Le modalità operazionali di una tale produzione della fonte archeologica e della sua rappresentazione trovano una connessione con entrambi gli indirizzi principali del pensiero archeologico del dopoguerra, quello processuale, scientifico e tecnico, e quello postprocessuale, simbolico e critico. Allo stesso tempo sono evidenti i nessi fra le due correnti di pensiero e le discipline limitrofe dell’antropologia culturale da un lato e delle scienze sociali dall’altro, soprattutto nei loro esiti intorno al tema della cultura materiale2. Un tema, quest’ultimo, assolutamente centrale nella disciplina archeologica fin dalle sue prime formulazioni, ma che negli ultimi decenni del secolo scorso ha visto una accelerazione evidente, soprattutto come oggetto di studio e teorizzazione nell’antropologia e nelle scienze sociali, a fronte di un netto ritardo (o per certi versi una vera e propria rinuncia a priori) dell’archeologia mainstream rispetto a questo tema. È ovviamente un paradosso, almeno apparente, che la Cultura Materiale non costituisca un argomento centrale al dibattito teorico in archeologia. Tuttavia il paradosso diviene meno netto qualora si consideri come da un lato la stessa discussione teorica sia praticamente assente dal registro comune degli archeologi e dall’altro abbia avuto successo una precisa e semplificata accezione del termine “cultura materiale” identificata principalmente con l’insieme dei reperti mobili presenti in un determinato contesto. Spesso confusa con gli assemblage stessi di scavo, solo talvolta intesa come l’insieme delle espressioni materiali (comprendendo quindi ad esempio le forme dell’architettura e del paesaggio), quasi mai percepita come elemento attivo nella costruzione sociale delle “culture” esaminate3. Questa premessa è necessaria per evidenziare come la “biografia di oggetti” che si discute in
1 Racchiudendo momentaneamente sotto questa definizione sia eventi che processi. 2 Sulle radici degli studi biografici in antropologia cfr. Kopytoff 1986: 66-68.
3 Sulle varie ramificazioni archeologiche nel trattare la questione del rapporto fra uomini e cose, fra soggetto e oggetto e fra idee e “materialità”, si veda l’utile sintesi di Hodder (2011): “Numerous different perspectives have converged on some version of the idea that subject and object, mind and matter, human and thing co-constitute each other. In these different approaches it is accepted that human existence and human social life depend on material things. In archaeology this new consensus has been reached by different though interconnected routes. For example, there has been an influence from Heidegger on archaeologists such as Julian Thomas (1998) and Bjørner Olsen (2010); there has been a wider impact from phenomenology on landscape studies as exemplified in the work of Chris Tilley (1994); the University College London school of material culture studies derived from a line of thought from Hegel and Marx onwards has been very influential in archaeology (Miller 1987; 2005); there is also a linked but wider debate about materiality in archaeology as seen in the work of Chris Gosden (2005) and Lynn Meskell (2005), very much in dialogue with authors such as Mauss, Bourdieu, Gell, and Ingold; Bruno Latour’s notion of a symmetry between humans and things and Actor Network Theory are having an impact in the discipline (Shanks 2007; Webmoor & Witmore 2008); and cognitive archaeology, influenced by neuroscience and evolutionary psychology, describes “thought and practical activity going forward together” and discusses the “extended mind” (DeMarrais, Gosden & Renfrew 2004: 1; see also Boivin 2008 and Knappett 2005). In behavioural archaeology there is focus on the mixing of people and things in behavioural chains (Skibo & Schiffer 2008) and in evolutionary archaeology there is increasingly influence from the “dual-inheritance” view of co-evolution between biology and culture (Richerson & Boyd 2005). So we can say with some confidence that there would be general agreement in archaeology, as well as in related disciplines, with the idea that humans and human social life depend on things” (Hodder 2011: 155).
questa sede, pur inserendosi in una cornice molto ampia e dalle radici profonde (che può arrivare ad esempio fino alla definizione stessa di “oggetto” o “cosa”), è quel particolare ramo di studi che ha assunto una identità molto ben definita a partire dagli anni 1980 e, più precisamente, è stato “messo sulla mappa” dalla pubblicazione del volume curato nel 1986 dall’antropologo indiano-statunitense Arjun Appadurai The social life of things4 (Appadurai 1986b). In particolare
il riferimento è universalmente rivolto alla prima sezione del volume, “an anthropology of things” nella quale trovano spazio il saggio introduttivo dello stesso Appadurai, commodities and the politics of value, e quello dell’antropologo Igor Kopytoff, The cultural biography of things: commoditization as process.
Il punto focale di questi saggi, e di quelli che si inseriscono nella loro scia, è la relazione fra gli uomini e le cose (oggetti, manufatti), alle quali a tutti gli effetti viene riconosciuta una “vita sociale”. Una dimensione sociale data dalle relazioni con gli esseri umani, in un reciproco rapporto di “influenza”. In riferimento a questo nuovo punto di fuoco della ricerca, costituito dalle “cose”, che da una posizione periferica muovono verso il centro della scena (anche questo è uno spostamento di contesto naturalmente), Appadurai utilizza il termine “feticismo metodologico”, ad indicare un rinnovato approccio “materiale”5. Le biografie di oggetti (b. culturali, b. di manufatti-artefacts) vengono quindi impiegate come un cambiamento di prospettiva, utile ad illuminare di volta in volta aspetti differenti delle società, come nel caso dei saggi di Appadurai e Kopytoff avviene per la mercificazione (commodization). La validità generale di alcuni degli assunti proposti da questi autori ha permesso di ampliare ad altri contesti di ricerca questo approccio.
L’utilizzo della metafora biografica applicata alle cose si deve nello specifico a Kopytoff, che arriva a tale proposta partendo dalla prospettiva opposta, quella che considera cioè alcuni esseri umani come merce/oggetti, osservando il fenomeno della schiavitù6. L’applicazione dell’approccio biografico, oltre a sottolineare –insieme ad Appadurai- come quello di “commodity-hood” sia solo uno dei numerosi valori (status, identità) che un oggetto può assumere nel corso della propria vita7, è utile anche per trovare nuove serie di domande da porre agli oggetti di studio:
In doing the biography of a thing, one would ask questions similar to those one asks about people: What, sociologically, are the biographical possibilities inherent in its “status” and in the period and culture, and how are these possibilities realized? Where does the thing come from and who made it? What has been its career so far, and what do people consider to be an ideal career for such things? What are the recognized “ages” or periods in the thing’s “life”, and what are the cultural markers for them? How does the thing’s use change with its age, and what happens to it when it reaches the end of its usefulness?” Kopytoff 1986: 66-67)
4 Sottotitolo: “commodities in cultural perspective”. È opinione comunemente diffusa che le prime riflessioni in merito al differente statuto che gli oggetti possono assumere a seconda dei differenti contesti sociali risalga agli studi di Mauss e Malinowski agli inizi del Novecento. Il riferimento è soprattutto ai lavori di Malinowski sul kula (1922) e di Mauss sul dono (1923), dai quali emerge come il valore degli oggetti possa avere un carattere transitorio a seconda dei contesti e non essere quindi intrinseco e assoluto.
5 “No social analysis of things (whether the analyst is an economist, an art historian, or an anthropologist) can avoid a minimum level of what might be called methodological fetishism. This “methodological fetishism”, returning our attention to the things themselves, is in part a corrective to the tendency to excessively sociologize transactions in things, a tendency we owe to Mauss, as Firth has recently noted” (Appadurai 1986: 5).
6 L’interesse di Kopytoff all’interno di questo saggio ritorna poi in modo insistente sul tema della dicotomia fra “Singular” e “common”, analizzando il fenomeno dell’appropriazione e della singolarizzazione (individualizzazione?) di commodities nelle società complesse.
È fondamentale poi riconoscere come le biografie possano essere diverse. Una considerazione che potremmo riassumere in una dichiarazione di “non-linearità” delle biografie, una rinuncia alla loro semplificazione in una traiettoria lineare di eventi, a cui preferire invece un intrecciarsi di percorsi differenti, in ognuno dei quali a differenti momenti possono corrispondere differenti significati. Aspetto sostanziale è poi l’attribuzione dell’aggettivo “culturale” alle suddette biografie8, intimamente collegato al riconosciuto status sociale degli oggetti. In riferimento alle possibili diverse biografie “tematiche” (disciplinari) di un oggetto, Kopytoff sottolinea come ciò che rende una biografia “culturale” non è l’argomento di base o l’oggetto analizzato, quanto piuttosto la definizione della prospettiva dalla quale fare scaturire l’osservazione. Una prospettiva secondo cui gli oggetti sono costruzioni culturali, investite di valori e costantemente classificate e riclassificate. In altri termini non sono gli oggetti, nel loro insieme e con le loro “vite” a costituire una “cultura” oggetto di indagine9, quanto piuttosto è il contesto culturale d’uso (e/o provenienza, consumo, scarto ecc.) ad essere indagato:
“We accept that every person has many biographies -psychological, professional, political, familial, economic and so forth- each of which selects some aspects of the life history and discards others. […] But all such biographies — economic, technical, social — may or may not be culturally informed. What would make a biography cultural is
not what it deals with, but how and from what perspective. A culturally informed economic biography of an object would look at it as a culturally constructed entity, endowed with culturally specific meanings, and classified and reclassified into culturally constituted categories” (Kopytoff 1986: 68).
Il saggio di Appadurai muove invece verso considerazioni più generali, legate alla dimensione sociale delle cose, e più precisamente degli “oggetti economici” sottoposti a mercificazione. Questi restano comunque, nella sua analisi, profondamente passivi ed influenzati dall’uomo, in quanto non portatori di un valore intrinseco ma solo di quello riflesso, attribuito appunto dall’uomo10. Anche se permeati di valore quindi, tale valore è comunque sempre infuso dall’uomo e non intrinseco all’oggetto11. Tuttavia, alla stregua degli esseri umani, nelle sue relazioni sociali attraverso i diversi contesti, l’oggetto in un certo senso stratifica e veicola in sé tracce relative a tali relazioni12. Da qui l’assunzione di una “vita sociale” e di un valore intrinseco, svincolato dai mezzi utilizzati per la sua produzione13 (e per questo in allontanamento dalla prospettiva marxista su oggetti e merci) e da un valore “economico”, quanto piuttosto legato a fattori contingenti, attribuiti in modo differente a seconda del differente contesto. La biografia,
8 E che forse si contrappone ad una visione più semplicistica in -semanticamente diverse- object/artefact biographies, quando non proprio riferite direttamente a “pot” e via dicendo.
9 Posizione molto vicina questa, ad esempio, a quella degli archeologi storico-culturalisti.
10 “The economic object does not have an absolute value as a result of the demand for it, but the demand, as the basis of a real or imagined exchange, endows the object with value” (Appadurai 1986: 4).
11 È questo, probabilmente, il punto nodale che tiene separate la lettura materialista degli oggetti, per come diffusasi negli ultimi anni, e l’approccio biografico-culturale.
12 “Even if our own approach to things is conditioned necessarily by the view that things have no meanings apart from those that human transactions, attributions, and motivations endow them with, the anthropological problem is that this formal truth does not illuminate the concrete, historical circulation of things. For that
we have to follow the things themselves, for their meanings are inscribed in their forms, their uses, their trajectories. It is only through the analysis of these trajectories that we can interpret the human transactions and calculations that enliven things. Thus, even though from a theoretical point of view human actors encode
things with significance, from a methodological point of view it is the things-in-motion that illuminate their human and social context” (Appadurai 1986: 5).
di conseguenza, è subordinata allo studio dei passaggi di valore dell’oggetto nei diversi gruppi sociali coi quali esso ha interagito. Gruppi sociali differenti nel tempo e nello spazio, oltre che nelle dimensioni.
Appadurai precisa inoltre in modo puntuale le differenze che egli scorge fra i concetti di biografia culturale e storia sociale delle cose. La prima, relegata in pratica nella posizione subordinata di procedura di analisi, si occuperebbe del particolare, mentre la seconda sarebbe mirata al generale. Tali differenze si articolano essenzialmente intorno a due fattori: temporalità e scala. La prospettiva biografico-culturale è infatti rivolta a specifiche “cose”, che si spostano attraverso differenti contesti, usi ed utilizzatori, accumulando peculiari biografie o insiemi di biografie. La “storia sociale” delle cose invece è centrata sugli insiemi delle “classi o dei “tipi” di “oggetti”, implicando quindi, secondo Appadurai, una lettura nel lungo termine e a grande scala, con trasformazioni che necessariamente trascendono le dinamiche delle singole biografie14. La relazione fra i due livelli di analisi è così di tipo gerarchico, con un passaggio di scala:
The social history of things and their cultural biography are not entirely separate matters, for it is the social history of things, over large periods of time and at large social levels, that constrains the form, meaning, and structure of more short-term, specific, and intimate trajectories. It is also the case, though it is typically harder to document or predict, that many small shifts in the cultural biography of things may, over time, lead to shifts in the social history of things (Appadurai 1986b: 36).
In un certo senso si potrebbe obiettare che questa visione rischi di disinnescare la reale potenzialità ermeneutica della biografia culturale, in quanto la sua forza principale consiste nell’illuminare “dall’interno” i molteplici contesti in cui un oggetto, intrecciando relazioni con altri oggetti o persone, si è trovato a transitare. L’utilizzo in una prospettiva di ricostruzione storico-sociale di lunga durata, sebbene sia comunque necessario connotare ogni contesto anche in riferimento a generalizzazioni, potrebbe quindi in un certo senso “annacquare” la potenzialità analitica di questo approccio.
Dieci anni dopo il volume curato da Appadurai, Chris Gosden e Yvonne Marshall hanno curato un numero monografico di World Archaeology dedicato a The Cultural Biography of Objects (Vol. 31, No. 2, ottobre 1999). Nell’introduzione i due curatori ripercorrono brevemente la storia di questo concetto e colgono l’occasione per sottolineare –forse in modo troppo ottimistico- come, grazie alle suggestioni delle ultime due decadi (di fatto a partire dalla pubblicazione di The social life of things), la ricerca archeologica abbia saputo superare un approccio funzionale e statico della cultura materiale, per muovere in direzione di una più profonda analisi sociale:
For archaeology objects have, of course, always been central to its endeavours, but again interest has concentrated on function, dating and, to a lesser extent, style. Through analysis of these attributes archaeologists have sought to make sense of the object world. Over the last two decades this situation has changed and material culture has
14 “This may be an appropriate point at which to note that there are important differences between the cultural
biography and the social history of things. The differences have to do with two kinds of temporality, two forms
of class identity, and two levels of social scale. The cultural biography perspective, formulated by Kopytoff,
is appropriate to specific things, as they move through different hands, contexts, and uses, thus accumulating
a specific biography, or set of biographies. When we look at classes or types of thing, however, it is important to look at longer-term shifts (often in demand) and larger-scale dynamics that transcend the biographies of particular members of that class or type. Thus a particular relic may have a specific biography, but whole types of relic, and indeed the class of things called “relic” itself, may have a larger historical ebb and flow, in the course of which its meaning may shift significantly” (Appadurai 1986: 34).
come to take the burden of much broader forms of social analysis. People have realized that objects do not just provide a stage setting to human action; they are integral to it. Certainly, if we consider material culture in its different moments of production, exchange and consumption, then little is left out, especially once each of these is set within its social contexts and consequences. This new focus directs attention to the way human and object histories inform each other. One metaphor for understanding this process is explored in this issue of World Archaeology: that of biography. The central idea is that, as people and objects gather time, movement and change, they are constantly transformed, and these transformations of person and object are tied up with each other (Gosden, Marshall 1999: 169).
L’accento è posto sulla reciprocità dell’influenza fra uomini e cose, che richiama implicitamente le teorie sul ruolo attivo della cultura materiale che fra gli anni Ottanta e Novanta hanno vissuto la ribalta archeologica, grazie soprattutto agli scritti di Ian Hodder. Gosden e Marshall si attestano sulle posizioni assunte da Appadurai e Kopytoff, con un’utilità ultima della metafora biografico-culturale che è infatti, ancora una volta, quella di chiave comparativa fra i diversi contesti “culturali”. Una cartina al tornasole delle continuità e discontinuità nei modi di relazione fra le persone e le cose, attraverso la lettura dei diversi significati e valori che si accumulano negli oggetti, e dei cambiamenti negli effetti che la cultura materiale ha attivamente su uomini ed eventi.
Roberta Gilchrist, archeologa canadese-britannica, ha curato nel 2000 un numero di World Archaeology dedicato agli “Human Lifecycles” (Vol. 31, No. 3, febbraio 2000) che in un certo senso si inserisce nella scia del precedente volume edito da Gosden e Marshall. Gilchrist infatti ricollega, fin dal titolo della sua introduzione “Archaeological Biographies: Realizing Human Lifecycles, -Courses and –Histories”, il tema della biografia culturale, questa volta declinata attraverso l’aggettivo “archeologica”, a quello della temporalità. Il breve saggio di Gilchrist riposiziona la proposta di biografia culturale di Kopytoff in una prospettiva più strettamente archeologica e contestuale. L’aspetto che unifica in un’ottica coerente i contributi del volume da lei curato è quella dei cicli di vita15, assunti come scala di analisi di differenti casi studio. Rispetto alle precedenti formulazioni della biografia culturale, la vita degli uomini del passato cessa di essere così analizzata tramite una suddivisione per fasi o contesti, per rientrare in una scala di osservazione che si posiziona preferibilmente ad una scala di dettaglio, legata all’individuo ed al breve termine. Una prospettiva che possa, se possibile, registrare archeologicamente le tracce di cicli temporali di breve durata quali le stagioni, gli anni o le vite individuali (in contrapposizione alla consuetudine, maggiormente diffusa in archeologia, di un approccio di studio realizzato alla scala della lunga durata o di gruppi sociali/culturali piuttosto che degli