• Non ci sono risultati.

Un percorso fra le definizioni di sito e i concetti in essi implicati

In questo sottocapitolo si vuole rendere conto del percorso concettuale alla base delle formulazioni di sintesi del precedente, attraverso il pensiero di alcuni autori ritenuti quelli maggiormente rappresentativi in merito all’argomento.

Robert Foley ed il concetto di ‘off-site’

Spesso l’off-site viene letto solo come una delle molteplici forme di ‘modellizzazione’ utilizzate nella ricerca sul campo (cfr. ad esempio Banning 2002). La nascita e lo sviluppo di questo argomento hanno tuttavia altre e più importanti implicazioni nella riflessione archeologica. Ad esempio nel pensiero di Robert Foley, che per primo ha utilizzato tale termine in archeologia (Foley 1981).

L’interesse per l’off-site non è solo legato ad un cambio di scala di osservazione dal sito al singolo manufatto, come una lettura semplicistica potrebbe portare a pensare e come effettivamente l’intuizione di Foley è stata sviluppata in seguito nella tradizione di studi (cfr. Darvill 2008). Fin dalle prime formulazioni infatti (Foley 1981) tale concetto è strettamente legato allo studio dei processi di formazione, attraverso lo studio della geomorfologia e le riflessioni sulla tafonomia e la behavioural archaeology di Schiffer.

Invece nella pratica corrente (in particolar modo nei paesi lontani dalla tradizione anglosassone e filtrato da altri studi, come nel caso italiano) del concetto di Foley e hanno accolto solo la terminologia vengono usati in modo semplicistico (empirista) come unità interpretative o categorie con altro significato, divestite della loro originaria utilità. Esse possono diventare così, ad esempio, indicatori di attività più leggere di un insediamento, in un parallelo fra quantità di cocci e grandezza di attività sepolta sottostante. L’off-site in definitiva non è solo un criterio di riconoscimento, ma implica riflessioni sui processi di formazione di ciò che si osserva sul terreno:

“Post-depositional theory is an essential element of archaeological theory. The key relationship in this field of study are those between spatially non-discrete archaeological material and geomorphology on the one hand, and behavior in the other” (Foley 1981: 158).

Il record archeologico non è per Foley un’entità fissata e immutabile, ma ‘a product of our perception’ (una percezione intesa in modo differente da come avverrà negli anni a venire con

gli sviluppi dell’approccio fenomenologico al paesaggio. Le riflessioni di Foley sono puntate sui fattori che limitano la nostra percezione, ed egli affronta la questione in modo scientifico proponendo diversi esperimenti per valutare l’influenza di questi fattori limitanti.

Un approccio molto diverso, in tema di visibilità, rispetto a quello che si diffonderà nella pratica archeologica in merito alle ricognizioni di superficie e all’individuazione autoptica dei siti sul terreno, relativamente ai fattori limitanti la nostra visibilità58. L’utilizzo del termine “visibilità” invece di quello di “percezione” implica che il record archeologico esiste di per sé, e che il problema consiste casomai nel vederlo e misurarlo correttamente. Per gli studiosi come Foley invece il problema principale è parametrare in qualche modo quello che si osserva/vede o si potrebbe osservare/vedere.

Il record archeologico non è quindi “dato” (né “un dato”, anche se comunque si possono utilizzare metodi scientifici nell’analisi archeologica) quanto piuttosto il risultato di una serie di fattori di modifica rispetto alla situazione immediatamente posteriore alla sua deposizione originaria. Il risultato di processi geomorfologici e “antropici” (behavioural).

Viene contestualizzata l’informazione spaziale, anche se ancora non si arriva a considerarla una costruzione dell’archeologo. Essa è in qualche modo svincolata da una lettura diretta, positiva, come ad esempio quella di Binford (1964) che identifica le aree di spargimento di materiali come “activity loci”, collegandole in modo univoco ad una attività del passato di cui appunto la concentrazione archeologica osservata sia il risultato diretto. Riprendendo quanto già riportato in precedenza, alla base teorica dell’utilizzo della categoria dell’off-site risiedono due assunti fondamentali: un’accurata ed “esplicita” analisi dei processi post-depoizionali ed il riconoscimento della natura indipendente (rispetto al fenomeno storico) dell’informazione spaziale (Foley 1981: 178).

Sempre dal punto di vista spaziale inoltre viene abbandonato un modello discreto per abbracciare una visione in cui “archaeological material is spatially continuous”. Un continuum archeologico che viene implicitamente letto come “landscape”. O meglio, un continuum le cui porzioni esaminate e oggetto di indagine (i cui criteri di distinzione non vengono meglio definiti da Foley) vengono definite come paesaggi (landscapes).

In pratica qui sembra quasi che Foley utilizzi questo nuovo concetto che crea, per ‘scardinare’ una concezione ‘oggettiva’ del sito, cioè del sito come entità ‘data’, riflesso speculare dell’attività umana registrabile nell’area indagata, esistente in sé e per sé e che non necessita di un’analisi particolare prima di essere individuata e definita.

Peter J. Fowler, il sito e/con/oltre il paesaggio; il paesaggio culturale come “ideofatto”

La costruzione del concetto di ‘sito’ avviene attraverso due parabole distinte, che naturalmente talvolta si intersecano: da un lato abbiamo un’evoluzione ‘analitica’ o ‘cartesiana’, volta alla sua definizione geometrica, cioè alla perimetrazione. Dall’altro un approccio più propriamente ‘concettuale’, in cui sono maggiormente sviluppati i legami del sito con altre componenti della ricerca archeologica, ad esempio nei confronti del paesaggio. Quest’ultima è ricostruita in modo significativo da Peter Fowler59.

58 Cfr. ad esempio sull’argomento Terrenato 1999.

59 Ovviamente la questione non si riduce alla scelta di una strada piuttosto che l’altra. La contaminazione fra le due, in differenti sfumature, è quasi sempre presente, e connaturata alla pratica archeologica. Tuttavia spesso la metodologia applicata dipende da quale sia il concetto di sito nei confronti del quale si dimostri maggiore affinità. Nel primo caso in un certo senso siamo ancora di fronte ad una concezione empirista, quindi con poco spessore teorico, mentre nel secondo caso abbiamo una profondità teorica maggiore. Mi riferisco ad esempio

In un suo articolo del 1990 egli traccia un’evoluzione partendo dal concetto di “site”, attraverso il “site in landscape” e il “landscape in context” fino a giungere al “cultural landscape”. Per quanto riguarda nello specifico quest’ultimo caso siamo lontani da quello che negli ultimi anni è stato uno dei temi di maggiore interesse e diffusione dell’archeologia e della pianificazione a scala europea. L’“ideofact” è in pratica la chiave di questo intervento di Fowler e costituisce la sua proposta in merito al modo di affrontare concettualmente il paesaggio. Vedremo più avanti di cosa si tratta nello specifico. Temi sui quali l’autore è tornato comunque in seguito molte volte. Fowler riflette in maniera critica sul concetto di sito, che trascende dal suo carattere semplicemente spaziale o “archeologico” e che diventa uno strumento utile per affrontare la questione del paesaggio da prospettive diverse. Esso soprattutto diventa “a trigger planned to release information not only about an area larger than the site itself but also about various dimensions and relationships within and over the whole landscape”. L’accento viene messo quindi non solo sulle informazioni, che potremmo definire “archeografiche” (Moberg 1981: 28), ma principalmente sulle “relazioni all’interno e oltre (attraverso? con?) il paesaggio”.

Un altro interessante approccio che Fowler propone, in forma però solo accennata, è quello della object biography, all’epoca del suo articolo ancora decisamente poco –se non per niente- battuta in archeologia e da poco emergente nelle scienze sociali. Se l’archeologia consiste convenzionalmente nello studio di siti dai quali provengono ritrovamenti (finds60), l’object biography svincola gli oggetti dai siti e la loro analisi viene fatta a partire da ogni diverso contesto in cui essi vivono o hanno vissuto, analizzando di conseguenza in modo più efficace i processi storici di cui sono o sono stati parte. Il passaggio di interesse dalla scientificità alla valutazione basata su cosa erano o cosa è loro successo, pone le basi per l’applicazione dell’approccio biografico al sito. Nel caso di Fowler, l’esempio verte sul noto sito preistorico di Stonehenge: di questa “località” si possono leggere quindi (in modo ‘riflessivo’), al di là delle informazioni puramente “archeografiche”, le vicende ‘postdeposizionali’ dall’abbandono e trasformazione in rovina fino al divenire un “sito archeologico” e, al giorno d’oggi, attraverso lo sviluppo del concetto di heritage, una risorsa vera e propria. Una funzione (o attributo), quest’ultimo, che ne rimarca un ruolo non meno attivo di quello svolto nel secondo millennio avanti cristo all’epoca della sua ‘vita’ primaria (originaria)61.

L’inserimento nella sfera dell’heritage e della patrimonializzazione fanno parte di un processo di “metamorfosi”, le cui origini sono da rintracciare secondo Fowler nell’ambito del Cultural Resource Management del Novecento, secondo cui il ‘sito archeologico’, inizialmente sia “intellectual concept” che “phisically existing feature in the landscape”, diventa “bureaucratic item”, ampliando di conseguenza il novero dei soggetti (e delle professionalità) interessati ad esso. Non più solo agli archeologi, ma anche a nuove categorie professionali quali manager, pianificatori, architetti… Si tratta di una sfumatura che arricchisce la convenzionale visione dell’interdisciplinarità che ruota attorno al concetto di sito. Al di là delle formule rituali che

al fatto di considerare il landscape nella sua interezza e quindi applicare il survey come metodologia (e non ad esempio il campionamento ecc.).

60 Che a loro volta a mio parere possono essere distinti in “strutturati”, cioè contestuali, come layers, sequenze, fasi ecc., oppure in “sporadici”, singoli oggetti (ma anche ad esempio l’approccio archeografico agli strati come successione di numeri o livelli).

61 “Stonehenge, for example, clearly remains an archaeological site not just because it was important c. 2000 BC and has been crucial in the development of archaeology but also precisely because, in our continuing ignorance about it, the potential there for future and better understanding is considerable. Its value now is, therefore, as much as a resource for our successors as for what it has been to our forebears over four millennia” (Fowler 1990: 122). Peraltro in questa biografia particolare dovrebbe assumere un ruolo primario a mio parere l’impatto dell’opera di ricostruzione intervenuta sulle rovine, che soggiace alla fruizione/percezione del sito ma che non viene mai considerata in modo esplicito.

genericamente caratterizzano l’approccio dell’interdisciplinarità –ma più spesso solo la sua menzione- Fowler analizza giustamente la questione dal punto di vista di una sorta di ‘relativismo’ disciplinare:

“different scientific disciplines regard different elements in the landscape as ‘sites’… also…the practicalities if identifying and defining different sites for different disciplines nevertheless embrace a common concept” (Fowler 1990: 122).

Differenti discipline vedono differenti siti. Si badi che il riferimento non è qui alle sole discipline scientifiche o accademiche, ma anche a quei campi d’azione legati a porzioni di società o categorie professionali come ad esempio i manager turistici ecc., motivo per cui sarebbe meglio parlare di diversi attori più che di diverse discipline.

La progressiva perdita di passività e la contemporanea acquisizione di ruolo attivo del paesaggio sono ben sintetizzate da una metafora di Fowler che nel chiosare la sua ricostruzione delle vicende dello studio di sito e paesaggio in archeologia, riassume così i differenti passaggi: Scenario -> Palco -> Azione. Richiamando implicitamente la presenza di attori sociali coinvolti. Nel ricostruire la storia dello studio archeologico del paesaggio, sempre più inclusivo, afferma che esso “it has to become the play as well as the stage, just as earlier it became the stage

and not just the scenery. Una vicenda che ha un’origine archeologica abbastanza ben precisa e

delimitata.

L’evoluzione del concetto di sito, nella ricostruzione di Fowler, ha un punto di riferimento cronologico molto preciso negli anni 1960. A partire da quel periodo il sito non è più visto come isolato, come una capsula temporale indipendente, su uno sfondo immobile (il paesaggio, visto come topographical penumbra) sul quale avvengono le attività umane. I siti non esistono più come entità a sé stanti, ma vivono in un contesto fisico (naturale). Questo tuttavia viene indagato solo nei termini delle relazioni che esso intrattiene col sito e non nelle sue caratteristiche intrinseche. Sono gli anni dell’esplosione della Central Place Theory in archeologia, un modello criticato da Fowler come ‘egocentrico’62. Il superamento di questa prospettiva (modellistica) mutuata dalla new geography porta ad un dinamismo che mette al centro le relazioni. Si tratta in un primo momento di relazioni di tipo orizzontale, che avvengono in modo sincronico, fra i differenti siti e fra questi e l’ambiente nel quale essi si trovano. Inizialmente si tratta di relazioni di tipo ‘fisico’ o spaziale. Successivamente esse assumono una sfumatura e un carattere più marcatamente ‘sociale’, introducendo nei modelli ricostruttivi dinamiche produttive ed economico-commerciali63.

A questo iniziale progresso, fatto di aggiunte in senso orizzontale, fa seguito un arricchimento della dimensione verticale, diacronica, nella lettura del paesaggio. Fowler propone un parallelo, rintracciabile anche in altri autori64 con la metodologia di indagine dell’archeologia del sepolto, riportando il metodo stratigrafico alla scala del paesaggio (“Landscape as context”). Il paesaggio è visto come un sito archeologico, quindi come un continuum che può essere scomposto in base

62 Caratteristica rispecchiata peraltro dagli archeologi stessi nel loro comportamento usuale nei confronti di altre discipline, secondo l’autore.

63 “Explanation of that site would nevertheless characteristically be expressed by a figure adorned with arrows heading towards it: stone carne from this quarry, its pottery from that market. The beginnings of dynamism in such a horizontal timeslice come when additional arrows, indicating such things as taxes, meat, wheat and specialist products such as metalwork, go in the opposite or other directions, out /from the ‘central site’” (Fowler 1990: 126).

64 Ad esempio, per l’Italia, cfr. Cambi 2011 sul parallelismo fra la ricerca delle unità topografiche nel Landscape e delle unità stratigrafiche nello scavo open area.

alla presenza di resti di attività umane e analizzato nelle sue diverse componenti65. Si tratta di un concetto solo apparentemente simile a quello che contemporaneamente viene proposto da un certo tipo di analisi ‘geometriche’ (cartesiane) del paesaggio, che scompongono un continuum in siti e non-siti in base a concentrazioni più o meno dense di manufatti (nello specifico frammenti ceramici). L’attenzione non è infatti rivolta ai manufatti, come risultanti di attività umane, che vengono quantificati in base a soglie minime, ma alle attività umane stesse ed al loro prodotto (any one man-made feature). Questo lascia aperta la porta ad una prospettiva non solo ceramico- centrica. Una volta identificata una nuova categoria di oggetti come il risultato di attività umane, ad esempio la copertura vegetale, questo modello teorico ne prevede la considerazione a tutti gli effetti. Nel modello ceramico-centrico invece ogni strada è preclusa a tutto ciò che non sia quello specifico manufatto.

Diretta conseguenza di questa analogia con l’archeologia stratigrafica è l’applicazione del concetto di “sequenza”, secondo cui il paesaggio è in realtà costituito da una serie di differenti paesaggi succedutisi nel tempo che insistono nello stesso luogo, come avviene per gli strati archeologici66. Il paesaggio assume così un carattere dinamico, la cui evoluzione avviene in parallelo a quella delle sue singole componenti, fra cui i siti. È implicita poi in questa metafora la considerazione sopracitata riguardo ai fenomeni postdeposizionali, poiché tutto questo ha luogo non solo durante la “vita” ma anche, e a volte “more particularly”, durante la fase postdeposizionale (cfr. sopra object biography postdeposizionale)67.

Su questa base si innesta un concetto come quello di “paesaggio-palinsesto” secondo cui nel paesaggio attuale sopravvivono tracce dei paesaggi precedenti68. Si tratta di un concetto spesso ripreso in archeologia per la sua efficacia descrittiva, che tuttavia mostra dei limiti secondo Fowler. Le sue perplessità sono legate alla necessità di superare questa visione del paesaggio strettamente archeologico, suggerendo l’inclusione dei punti di vista di altre discipline, ad un grado più elevato del contesto di ricerca (cfr. infra). Tuttavia si possono muovere a mio parere anche altre critiche all’approccio del paesaggio-palinsesto. Da un lato esso è riduttivo in quanto riduce spesso l’interesse ai soli frammenti archeologici (come strumento di datazione dei diversi “strati” cronologico-culturali, mentre soprattutto negli ultimi anni l’archeologia del paesaggio si è arricchita di altre chiavi di lettura. Dall’altro perché perpetua, attraverso la metafora stessa del palinsesto medievale, un’immagine di ‘iscrizione’ attiva da parte dell’uomo su uno sfondo naturale/ambientale passivo e immobile.

Il superamento di questo concetto porta nello specifico Fowler ad affrontare un piano concettuale più alto, quello di paesaggio culturale, che costituisce essenzialmente un “ideofact” piuttosto che un “artefact”. Fowler introduce concetti importanti, dimostrando come le dimensioni “culturale”, “mentale” e “simbolica” possano essere esplorate senza necessariamente tracimare in quelle concezioni “campate in aria”69 di cui spesso i postprocessualisti sono accusati.

65 “The conceptual point is that the initial framework is of a whole landscape, which then becomes the context for any one man-made feature within it. The principle is exactly the same as that in making out a context card for a potsherd found on an excavation” (Fowler 1990: 128).

66 “The point of such analysis is to develop at least the outline of a landscape sequence, to replace a landscape as a horizontal plane in time with a series of different landscapes occurring in the same place at different times” (ibidem).

67 The landscape thus becomes a dynamic place, a changing and evolving context for any one of its also changing components, the individual archaeological sites […] not only during the active life of each particular site as a specific focus of human activity but also, and sometimes more particularly, during its post-depositional phases (Fowler 1990: 128-129).

68 Ad esempio in Cambi 2000: 250.

69 Cfr. i “castelli in aria” citati da Matthew Johnson in un suo saggio in cui cerca di smontare alcune delle critiche di eccessivo “idealismo” mosse all’approccio post-processualista (Johnson 2000).

Tuttavia quello proposto da Fowler è un concetto abbastanza differente da quello poi divenuto recentemente mainstream ed oggetto di numerosi studi in Europa, principalmente come conseguenza delle politiche comunitarie –e poi nazionali- in materia di paesaggio a partire dai primi anni Duemila70.

Punto centrale di questo ragionamento è che il paesaggio è un costrutto mentale, alla cui costruzione concorrono gli specialisti delle diverse discipline che collaborano in questa interdisciplinarietà. E ciò si aggiunge una nuova sfaccettatura per l’analisi del paesaggio: lo stesso contesto della ricerca. Gli ‘altri paesaggi’ degli altri specialisti, la stessa storia del paesaggio ecc.) entrano a fare parte in qualche modo del (vasto) paesaggio oggetto di studio.

“As the ‘cultural landscape’, it can expand […] within a model of dynamic relationships involving the interaction of space, time and environment as well as people. Succession

through time within the chosen space is the interpretive key [è questa in sintesi

una definizione di Paesaggio Culturale secondo Fowler]; change is the energiser; a complex of inconstant and differentially-weighted relationships is the executive; and interdisciplinary research is the approach. […] The resultant ‘cultural landscape’ should

be a whole, including the history of the landscape as such but also incorporating an intermeshing of specialist mental constructs melded with the artefactual succession deciphered by the archaeologist in the landscape palimpsest. In other words, the

argument here is that a ‘cultural landscape’, rather than being what physically exists from the past over a defined area, is purely an intellectual construct in which a chosen landscape becomes acculturated not so much through activity and the passage of time alone as in the process of being observed and interpreted. Its interpretation, the attempts to understand it, indeed to create it, should eventually consist of a melding not only of a wide range of multidisciplinary observations but also of the numerous landscape models within which those observations, and certainly their interpretation, were made. In this view, the ‘cultural landscape’ becomes primarily an ideofact rather than an artefact. Maybe in so doing it moves too far from the physically surviving archaeology but such an overtly holistic concept at least has the merit of emphasising that the modem study of the landscape is as much about ideas as it is about the adoption