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Dalla Storia della Cultura Materiale alla Storia delle Risorse Ambientali

Non credo sia avventato dire che la storia delle risorse ambientali che si propone oggi, sia erede, per alcuni aspetti anche diretta138, di quella Storia della Cultura Materiale che si proponeva in ambito archeologico e geografico-storico negli anni ‘70.

In parte si tratta di una evoluzione dettata dall’avere, nel frattempo, messo a fuoco con una risoluzione maggiore un oggetto storico-sociale principale, ovvero le pratiche di gestione delle risorse ambientali.

Possiamo infatti identificare un percorso di progressiva definizione del problema, attraverso i successivi passaggi: “Storia della cultura materiale”  “Storia delle pratiche di gestione (specificate in vario modo negli anni, es. produzione, attivazione, riproduzione, uso…) delle risorse ambientali”  “Storia delle risorse ambientali”.

In parte –e in modo forse meno semplicistico- questa evoluzione (che poi è una trasformazione in quanto non necessariamente costituisce un “miglioramento”) è legata ad una “specializzazione” rispetto all’archeologia medievale mainstream, in direzione di una –seppure molto consistente se non addirittura predominante per la società esaminata, quella di Ancien Regime- storia della produzione “primaria”. Legata, cioè, alle risorse ambientali, e solo in secondo piano ad aspetti legati al commercio, consumo, edilizia ecc., tutti aspetti afferenti alla sfera “urbana” piuttosto che a quella rurale, su cui appunto è stato focalizzato l’interesse.

Non si intende qui riproporre naturalmente una inutile contrapposizione fra i binomi uomo- città e natura-rurale, ma semplicemente indicare come oggetto di analisi possibile (necessario?) anche la società preindustriale rurale, per la quale sicuramente sono validi alcuni aspetti sociali istintivamente associati alla cultura urbana (ad esempio l’edilizia, l’uso di ceramica, le pratiche funerarie ecc.). In questo senso l’archeologia medievale presenta alcuni interessanti paradossi. Da un lato, infatti, l’analisi archeologica del medioevo ha trascurato in massima parte forme economiche di ampissima diffusione, come i sistemi di gestione delle risorse ambientali. Dall’altro, laddove studiati e scavati, i contesti archeologici rurali vengono comunque declinati attraverso l’approccio dello studio dell’insediamento, e quindi, ancora una volta, secondo caratteri più “urbani” che “rurali”139.

La microanalisi geografico-storica

La formulazione della microanalisi geografico-storica deve molto del suo impianto teorico alla proposta di Edoardo Grendi di una micro-analisi storica del 1977, che poi confluirà in modo più

138 Ad esempio le stesse figure dei promotori, come nel caso di Diego Moreno.

139 Va poi tenuto in conto che spesso, per motivi contestuali alla ricerca (maggiore comodità di accesso, scarsa incidenza di esigenze “esterne” nella tempistica dei cantieri di scavo ecc.), i contesti abitativi rurali (villaggi ecc.) superano quantitativamente quelli urbani (con una distinzione naturalmente fra ciò che è urbano oggi e ciò che lo era nel contesto originario (magari inglobato dalle città contemporanee).

compiuto e collettivo nella proposta storiografica della microstoria italiana e della Storia Locale da parte dello stesso Grendi. Il comune percorso accademico e intellettuale di quest’ultimo con gli esponenti di quella corrente geografico-storica (e un po’ anche archeologica) genovese degli anni ’70, porterà alla messa a punto di un metodo comune di analisi, teorizzato a più riprese da Grendi e riproposto di recente come approccio microanalitico geografico-storico o microanalisi geografico-storica.

La proposta di Grendi, accolta da geografi ed archeologi, è quella di costruire una rete di fonti attorno ad un comune oggetto di analisi, a partire dalla condivisione di un approccio teorico comune in base al quale ogni disciplina possa mantenere comunque una sua autonomia (e omogeneità) disciplinare.

Oggetto della microstoria sono le relazioni. La prospettiva di indagine è quella di un’alta risoluzione spaziale e temporale, in cui mettere a confronto, affiancandole, le diverse fonti e le serie documentarie prodotte da diverse discipline. La prospettiva è, sottolineiamo ancora, di integrazione dei risultati di indagini che vengono condotte da parte di discipline diverse, con metodi diversi -che tali devono rimanere- ma a partire da domande comuni.

Le tracce materiali a partire dalle quali le analisi vengono condotte possono essere comuni, osservate attraverso diverse tecniche e risultanti in fonti e serie documentarie diverse, oppure possono essere differenti, pur rimanendo riferite allo stesso oggetto.

La Storia della Cultura Materiale proposta nelle formulazioni inziali si delineava negli stessi termini. Un’area interdisciplinare con domande comuni e con una comune impostazione storiografica, a partire da uno stesso oggetto di analisi. L’insuccesso della SCM nell’archeologia italiana (almeno rispetto a questi propositi iniziali) così come il confinamento dell’esperienza della microanalisi –e la ricezione del messaggio microstorico in ambito archeologico (sebbene recenti siano i tentativi di riproposta)- ad una nicchia costituita dai ricercatori del Dipartimento di Storia dell’Università di Genova, testimoniano in fin dei conti lo scarso appeal di questo approccio nei confronti della ricerca accademica post anni ‘70.

Le risorse ambientali SONO cultura materiale, ma non solo sotto forma di utensili appesi alle pareti dei musei contadini, bensì anche nelle tracce, negli ecofatti, nei fatti giuridici ad esse connessi.

Reti di fonti e biografe di oggetti. Contesto e contesti?

In questo paragrafo si vuole discutere dell’applicazione della microanalisi geografico-storica alla biografia culturale. Stando a quanto detto sopra riguardo all’approccio –contestuale- microanalitico storico e poi geografico-storico allo studio di oggetti o risorse ambientali, potremmo parlare di una “moltiplicazione di contesti”, che non è da intendersi in termini “geometrici” quanto piuttosto “esponenziali”. Non ci troviamo in altri termini di fronte alla produzione di molte reti di fonti sovrapposte (e disposte in sequenza) quanto di un’unica rete (comune/collettiva), sviluppata nell’ottica della diacronia. La contestualizzazione storica dell’oggetto passa attraverso il metodo regressivo, che a partire dalla “forma” e dalle relazioni nel presente (comprendendo il contesto di produzione della fonte e della documentazione da parte dei ricercatori) procede a ritroso in modo continuo. Allo stesso tempo la ricostruzione storica avviene attraverso la restituzione delle continuità e delle discontinuità che le varie fonti permettono di documentare.

Il fatto di mettere al centro dell’analisi un oggetto comune, produce un ribaltamento di prospettiva rispetto ad una più comune prassi di produzione individuale di fonti da parte delle diverse discipline cui faccia seguito un confronto finale dei risultati. Qui invece il processo di

costruzione delle fonti è comune, almeno per quanto riguarda la sussistenza di una comune impostazione storiografica. Cosa si intende per impostazione storiografica? Le domande, le categorie utilizzate (la definizione con cui ci si riferisce a concetti ed oggetti), la consapevolezza teorica comune (di ciò che fanno le altre discipline e di come lo fanno), la prospettiva ultima (storia delle risorse ambientali).

In definitiva si opera una sovrapposizione di discipline e fonti, per descrivere in modo analitico una sovrapposizione di contesti e relazioni.

L’assunzione di un comune oggetto al centro dell’indagine implica poi due questioni ulteriori, riguardanti nello specifico le categorie la materialità.

Per quanto riguarda le categorie, ovviamente, poiché l’oggetto di indagine e la sua definizione possono cambiare a seconda della disciplina. Ed occorre, tramite un’impostazione storiografica e teorica comune, chiarire le eventuali difformità fra le differenti discipline, senza necessariamente ricercare una omogeneità forzata. In questo senso ad esempio possono crearsi zone grigie in cui determinati oggetti non sono riconosciuti come tali (anomalie) da altre discipline o dalla pratica corrente mainstream della stessa disciplina chiamata in causa140.

L’aspetto della materialità invece riporta alle modalità attraverso cui l’oggetto è “osservato” da parte delle diverse discipline, a partire cioè dalle tracce materiali che esso conserva o ha lasciato. In questo senso si crea una distinzione profonda fra un approccio di analisi riferito ad un oggetto concreto, fisicamente definito o meglio “finito” (o sulle sue tracce: un edificio, una carbonaia), in altre parole ad un manufatto, oppure uno riferito ad un “oggetto” che ha una materialità “diffusa” (è il caso ad esempio delle terre o dei beni comuni).

In generale poi il fine ultimo (oggetto di studio) dell’indagine sono le relazioni, per cui gli oggetti ed i manufatti sono il punto di partenza per risalire ad esse. È come se ci fossero due punti di fuoco. L’oggetto “finale” dell’indagine, che è costituito dalle relazioni. E il punto di “partenza”, a partire cioè da cui l’analisi avviene (e su cui l’analisi avviene) ovvero le tracce materiali delle pratiche. Relazioni che avvengono in spazi concreti, che costituiscono al contempo un oggetto di indagine anch’essi e lo spazio topografico dell’indagine stessa (i suoi limiti spaziali = la scala di riferimento).

140 Un esempio, per l’archeologia, può essere costituito dall’archeologia dei commons, sviluppata in una nicchia (del Lasa) ed ancora estranea alla pratica archeologica convenzionale.

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Nella pagina precedente

Confronto fra due foto: chiunque concorderebbe nel definire entrambi “paesaggi”. Esistono tutavia ancora remore, da parte degli archeologi, a definire la possibilità di una “archeologia del paesaggio” per entrambe le aree raffigurate nelle immagini. Allo stesso tempo è più comune, per l’archeologia convenzionale, definire “sito” quello ritratto nella foto in alto: una chiesa, isolata, in un’aea brulla, circondata da terreni arati e con un “paesaggio vegetale” altrettanto isolato, fatto di sparuti elementi puntuali. In un ottica storica risulterebbero paradossalmente più invisibili i boschi dell’immagine in basso che non gli alberi, magari “antichi” o “secolari”, sicuramente “tradizionali” dell’altra foto.

Sommario

1. ARCHEOLOGIA DI SUPERFICIE: USCIRE DAL SITO, USCIRE DAL “FUORI SITO” ...5