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ARIBERTO MIGNOLI SULLA DISCIPLINA DELLE SOCIETÀ PER

AZIONI

Lucrezia Geraci

Sono profondamente onorata di rendere oggi omaggio ad Ariberto Mignoli e ringrazio coloro che mi hanno invitata e, in modo particolare, Sabina Mignoli.

Quando mi venne chiesto di prendere parte a questa celebrazione, dopo una iniziale titubanza, accettai con entusiasmo. La presenza di un consesso così prestigioso mi hanno peraltro suggerito – dopo aver individuato l’oggetto dell’intervento – un taglio non tanto tecnico quanto autobiografico.

Vorrei infatti tratteggiare, con alcune pennellate, il contenuto delle lezioni che il professore Ariberto Mignoli teneva al corso di «diritto commerciale progredito» presso l’Università Bocconi quando la frequentavo come studente.

Lezioni che, ancora prima dei suoi scritti, sono riuscite a suscitare in me, come certamente in moltissimi altri studenti iscritti, come me, a una Università dove all’epoca si studiava solo economia, curiosità dapprima, successivamente passione per il diritto delle società.

Molti dei presenti hanno avuto la fortuna di frequentare Ariberto Mignoli come amici, ovvero colleghi, ovvero ancora come clienti. Personalmente ho avuto il privilegio di seguire le sue lezioni, ed è di esse che voglio raccontarvi, dopo averne riletto gli appunti a distanza di oltre trent’anni.

Di quelle lezioni mi sono rimasti impressi: il trasporto con cui Ariberto Mignoli commentava gli istituti del diritto; il sottile pensiero che lo portava ad una analisi prima ancora che giuridica, logica della norma, imbevuta dell’ineliminabile dato storico; l’importanza data alla singola parola, che per lui andava sempre «rispettata»8 perché «essa ha un lungo passato”9 e “nel tempo si è arricchita»10; la capacità di guardare oltre la specifica disposizione per coglierne le potenzialità evolutive nel tempo.

Insegnava che non sempre occorrono nuove leggi perché a volte basta reinterpretare con slancio istituti apparentemente sopiti, e trovare soluzioni nuove a situazioni in evoluzione. Del resto in quegli anni scriveva:

Bisogna lasciar parlare le cose stesse; lo spettatore deve essere portato sulla scena; gli si deve far conoscere il meccanismo dall’interno; fargli vedere come gli istituti si muovono, cambiano, assumono funzioni diverse da quelle che originariamente sembravano loro connaturali ed esclusive. È pieno di fascino scoprire erbe di cui si ignorava la virtù; seguire quello che la fantasia può produrre;

vedere come essa si muova liberamente, non sia mai ripetitiva, come talora, con felice incoscienza, sfiori gli abissi11.

E le sue lezioni erano ispirate e permeate da questo convincimento. In aula si presentava senza appunti, senza slide, senza documentazione di supporto. Solo il codice civile. Iniziava la lezione esaminando gli studenti; ne faceva l’appello riconoscendone, dopo le prime lezioni, i volti prima ancora del loro dichiararsi presenti – in effetti

8 A. Mignoli, La cultura del diritto civile, «Riv. Soc.», 1990, 512.

9 Ibidem.

10 Ibidem.

aveva un’ottima memoria – ne scrutava le espressioni, sollecitandone poi, durante la lezione, le reazioni, quasi a voler far comprendere che l’esame cominciava in aula.

Poi apriva il codice e introduceva un argomento. Sia che commentasse un tema generale, o una specifica disposizione, immediatamente il discorso si allargava e l’orizzonte espositivo veniva dilatato, come si moltiplicano le immagini quando riflesse in specchi posti frontalmente.

Non si limitava mai a fornire il puntuale commento di singole norme: quello, semmai, arrivava dopo.

Cercava, anzitutto, i problemi che l’applicazione di un istituto o di una disposizione poneva e si soffermava poi, con ancora maggiore incisività, sulle situazioni, non espressamente disciplinate, che richiedevano un intervento interpretativo, a volte anche creativo, e – quando non ancorato a pronunzie giurisprudenziali, come spesso capitava, e continua a capitare, per il diritto delle società – coraggioso. Il messaggio era chiaro: nel diritto degli affari è la norma che deve adattarsi ai fatti, e non i fatti alla norma.

Per il suo corso non indicava un libro di testo. Semmai consigliava letture di approfondimento, anche di autori stranieri, su singoli temi societari, ma solo quelle che affrontavano questioni, – non inutili problemi da azzeccagarbugli – suggerendone soluzioni anche innovative. Non gli piacevano i commentatori astratti e

“sterili” o che non prendevano posizioni nette su una determinata tematica e quindi erano privi di “virilità”; era antidogmatico per eccellenza. L’esame verteva così sui contenuti delle sue lezioni, e chi non frequentava il corso non poteva certo trovare nei testi scritti il sapere che egli, attingendo da una cultura sterminata e, al tempo stesso,

dalla vita degli affari, sceglieva – da demiurgo quale era – di trasmettere in aula.

Non sta a me ricordare la sua approfondita conoscenza, anche storica, dei diversi istituti – a partire dalla disciplina della East India Company inglese e, lui conoscitore della lingua olandese, della Compagnia olandese delle Indie orientali –; conoscenza che non gli derivava solo dagli studi giuridici, ma anche e soprattutto dalla sistematica lettura degli atti mercantili, poiché riteneva fondamentale documentarsi sulla concreta applicazione di un istituto.

Non a caso il titolo di uno dei suoi articoli pubblicato durante i miei anni universitari è Il giurista e il fatto12.

Ricordo che uno dei primi testi che mi fece leggere fu un

“Prospetto” per il collocamento di obbligazioni della fine dell’800. In quel documento di una pagina erano già racchiuse – e me lo fece notare – tutte le informazioni necessarie ai sottoscrittori. Nulla a che vedere con gli attuali prospetti informativi, inutilmente lunghi, che le disposizioni comunitarie, oggi direttamente applicabili, non hanno contribuito a migliorare, e sui cui criteri di redazione proprio lo scorso lunedì la Consob ha annunciato un generale ripensamento anche a livello europeo.

Faceva chiaramente comprendere che il contatto con la realtà era fondamentale. partecipare all’assemblea della Montedison dopo la

privatizzazione messa a punto nel 1980, che portò Schimberni alla guida del gruppo.

Fu un’occasione straordinaria, che mi consentì di comprendere il significato di ciò che Ariberto Mignoli intendeva quando asseriva che le società sono

“costellazioni”; che mi fece affacciare sul mondo reale di una grande impresa azionaria con interessi diversificati in tutto il mondo e toccare con mano lo sviluppo di un dibattito assembleare; e, non ultimo, conoscere i primi disturbatori d’assemblea. Mai avrei immaginato che, 15 anni dopo, avrei fatto parte del “pensatoio” delle assemblee di quella stessa Società.

Del resto negli anni successivi, in più di una occasione Ariberto Mignoli suggerì alla Consob di “vivere” le società e le loro assemblee invece di esaminarne gli atti in vitro, dietro le scrivanie, quasi si trattasse dello studio di una provetta, con il risultato che le richieste di integrazione di informativa formulate dall’Autorità di controllo in sede assembleare – a quel tempo ai sensi del previgente art. 3 lett. b) della legge 21613 – risultavano sovente decontestualizzate o intempestive.

Tutto questo mi tornò alla mente quando tre decenni più tardi, l’attuale presidente della Consob (Vegas) annunciò al mercato, in occasione della presentazione della Relazione relativa all’attività svolta dall’Istituto nell’anno 2010, «per la prima volta la Consob ha deciso di assistere alle assemblee delle principali società quotate al fine di verificare il regolare svolgimento dei lavori e le modalità di partecipazione realmente offerte agli azionisti di minoranza»14.

13 Legge 7 giugno 1974, n. 216.

14 Consob, Incontro annuale con il mercato finanziario - Discorso del Presidente Giuseppe Vegas, Milano, 9 maggio 2011.

Durante le lezioni Ariberto Mignoli metteva lo stesso vigore sia nella trattazione dei grandi temi societari, sia dei piccoli problemi quotidiani che, scriveva in quegli stessi anni, “non sembrano degni di impegnare il pensiero e la penna del giurista”15. Problemi che poi piccoli non lo erano affatto.

Penso all’omessa lettura delle relazioni e del bilancio in assemblea, o alla presenza di estranei. A lezione citava provocatoriamente, quale esempio, chi porgeva il microfono all’azionista che voleva intervenire.

Quando introduceva la società per azioni lo sguardo diventava profondo e il pensiero andava lontano. Di essa, diceva che era la forma giuridica della grande impresa moderna aperta, e la contrapponeva alla società a responsabilità limitata da utilizzare, in principio, a suo avviso, nei casi di ridotto numero di soci statici o all’interno di un gruppo. Si doleva che in Italia la distinzione dei ruoli tra i due tipi societari fosse poco marcata e sottolineava l’inadeguatezza del numero e della disciplina della società a responsabilità limitata nella quale, leggo dagli appunti, “emergeva l’indecisione del legislatore, che aveva ritenuto di costruire questo tipo di società a immagine della società per azioni, amputandola di alcune potenzialità (quella, ad esempio, di emettere obbligazioni)”. Anticipava che “prima o poi occorrerà un intervento che porti a differenziare il ruolo della società per azioni (in quanto aperta al pubblico) e quello della società a responsabilità limitata (in quanto di tipo chiuso), e che il legislatore riveda le rispettive discipline alla luce di queste diverse vocazioni”. E citava la Francia e la Germania, che erano avanti a noi perché si erano già mosse in tal senso.

15 A. Mignoli, Piccoli problemi: I. Omessa lettura della relazione e del bilancio, «Riv.

Come noto, occorrerà attendere la riforma societaria del 2004 perché questo auspicio si trasformasse in intervento legislativo.

Un altro argomento che esponeva con trasporto erano gli statuti, “la legge interna della società”.

Ci spiegava come si dovesse leggere, e prima ancora redigere uno statuto, e ci suggeriva di interrogarci su quale fosse lo scopo di esso e quali interessi dovesse comporre, di cosa cercare o non cercare in uno statuto.

Criticava la redazione di taluni statuti. Vi erano regole fondamentali da non disattendere, prima di tutte – ma il suggerimento poteva valere, e vale tuttora, anche per la redazione di qualunque altro atto giuridico, comprese le norme di legge: quella di usare le stesse parole per dire le stesse cose; di utilizzare, fin dove possibile, il linguaggio adottato dal legislatore; di essere molto precisi nella descrizione, ma di eliminare le parole e gli avverbi inutili; e di non ripetere ciò che già dice la legge.

Indicazioni centellinate da un estimatore dell’essenzialità della Poesia.

Rievoco questi consigli quando mi capita di leggere statuti e contratti di decine e decine di pagine, redatti alla

“maniera anglosassone”, che addirittura contemplano la definizione di “codice civile”.

Spiegava poi che introdurre nello statuto di una società per azioni il principio della unanimità per l’adozione delle deliberazioni significava stravolgerne la disciplina perché

«l’unanimità non è una maggioranza rafforzata».

La clausola nevralgica, a cui dedicava un’attenzione particolare, era quella dell’oggetto sociale; tema che

affrontava in modo “trasversale”, sottolineandone la differenza rispetto allo scopo sociale, e evocando ogni norma del codice che ad esso faceva riferimento. Ne commentava poi i collegamenti e le implicazioni.

Il passaggio a esaminare il «diritto di recesso» in caso di mutamento dell’oggetto sociale diventava così naturale.

E qui le domande cadevano a pioggia: che cosa significasse “mutamento dell’oggetto sociale”; se occorresse considerare l’oggetto sociale statutario o l’attività effettivamente esercitata; se ogni mutamento formale o letterale della descrizione dell’oggetto fosse una modifica di esso; e, ancora, quando l’assunzione di partecipazioni potesse avere rilevanza rispetto al cambiamento dell’oggetto sociale.

La riforma del 2004 risolse alcune delle questioni da lui evocate, laddove oggi riconosce il diritto di recesso se «la modifica della clausola dell’oggetto sociale consente un cambiamento significativo».

Anche il tema del consiglio di amministrazione lo infervorava. Sottolineava la scheletricità delle norme relative alla convocazione, al suo funzionamento e alla organizzazione, e suggeriva di colmare questo spazio

“organizzativo” con specifiche disposizioni statutarie.

Quando poi passava a trattare la questione del conflitto di interesse, con riguardo, soprattutto, agli amministratori eletti dal socio “sul ponte di comando”, o il tema dei rapporti tra amministratori esecutivi, e non esecutivi, e dei limitati mezzi a disposizione di questi ultimi per essere informati sui fatti di gestione e, quindi, per eventualmente manifestare il loro dissenso, il discorso si faceva addirittura appassionante.

Erano, a ben vedere, i primi insegnamenti sulla Corporate Governance.

Le sue lezioni in materia di categorie di azioni, di pregiudizio della categoria e di capitale sociale (anzi

“capitale”, perché aggiungere l’aggettivo “sociale” era inutile; capitale da non utilizzare, come nell’art. 2.446 del codice civile, quale sinonimo di patrimonio) erano magistrali, e avevano la creatività e la imprevedibilità di una sinfonia di Mozart, compositore che peraltro prediligeva.

Lì metteva in evidenza un incredibile acume giuridico e una raffinata sottigliezza del ragionamento. E così, quando, verso la fine del corso, assegnò, ad ogni studente, un articolo della legge 216 da commentare (la legge istitutiva della Consob, che differenziò la disciplina della società quotata da quella non quotata), e mi attribuì, d’imperio, come a volte era avvezzo fare, l’art.

2.441 del codice civile riformato, appunto, dall’art. 13 della legge 216 (diritto di opzione), non potei rifiutarmi. Mi disse:

è l’articolo più interessante di tutta la riforma. E anche uno dei più difficili da commentare.

Aveva ragione e, come sempre, aveva visto lontano.

Quegli iniziali approfondimenti furono decisivi per la mia vita professionale, prima in Consob e più avanti in Montedison ed Edison, dove mi sono confrontata con complicate operazioni di fusioni tra società quotate, aumenti di capitale con sovrapprezzo e copertura perdite attraverso riduzioni del capitale e raggruppamenti azionari in presenza, anche, di azioni di risparmio.

Ma accanto alle grandi questioni, faceva capire, da giurista pragmatico quale era, che andavano considerati

anche temi di portata più limitata. Ad esempio la definizione dell’ordine del giorno di un’assemblea.

Ordine del giorno che doveva essere sufficientemente dettagliato ma non noiosamente analitico o, contenere informazioni superflue, come l’indicazione «deliberazioni inerenti e conseguenti». Doveva, per contro, far comprendere ai soci se esisteva una relazione depositata per obbligo di legge, come nei casi di esclusione o limitazione del diritto di opzione, ovvero, quando la relazione non era prescritta, le ragioni e le modalità di attuazione di una determinata operazione, come nella riduzione del capitale per esuberanza. Citava l’esempio dell’ordinamento tedesco, che già allora richiedeva anche il testo delle delibere da assumere.

Anche in questo caso aveva individuato e anticipato un tema rilevante. Oggi l’attenzione alle modalità di redazione degli ordini del giorno è certamente cresciuta, ma si è dovuto attendere sino al 2010, con il recepimento delle direttive comunitarie relative ai diritti degli azionisti, perché la disciplina dell’informazione per l’assemblea si completasse con la previsione di rendere disponibili, per ciascun argomento all’ordine del giorno, anche i testi delle relative deliberazioni.

Nonostante l’aspetto austero, era comunque un professore molto aperto e disponibile con gli studenti, anche se durissimo agli esami. Ricordo che senza difficoltà, prima di sostenere l’esame, consentì a me e a una mia collega di corso di andare nel suo Studio per porgli domande su aspetti che non ci erano del tutto chiari. Studio che faticammo a trovare perché la targa, di fianco al campanello, indicava semplicemente il nome

«Rivista delle Società».

Ariberto Mignoli poteva essere molto diretto e gli piaceva non essere prevedibile.

Quando, per definire l’argomento della tesi, tornai nel suo Studio, mi fece soffermare sul simbolo della «Rivista delle Società» e mi chiese, quasi a bruciapelo: «Le piace?» E precisò, con un certo orgoglio: «Deve sapere che non è stato disegnato da esperti di loghi, ma da me». E si mise a ridisegnare in mia presenza, con la sua penna, il simbolo.

Era un superbo giocoliere del linguaggio e dei suoi elementi: le parole. Risultava sorprendente come riuscisse, anche durante le lezioni, a trasportarle dal loro originario contesto al contesto giuridico, con una efficacia e una naturalezza straordinarie.

Il titolo della tesi – che lui stesso mi suggerì –, sembrava in effetti esso stesso un gioco di parole «società con azioni quotate e azioni quotate di società». Ma sottintendeva un metodo di analisi. E quando ne realizzai la portata e gli manifestai i miei dubbi sulla capacità di scrivere qualcosa di originale, lui semplicemente rispose: «Non si deve essere originali. Si devono censire le questioni, valutarne la portata, approfondire quelle rilevanti ed eventualmente proporre una soluzione, esponendo il tutto in modo appropriato e ragionato. E alla fine vedrà che avrà scritto qualcosa di nuovo».

Vorrei aggiungere molto altro. Perché i ricordi, poi, si aprono come un fiume in piena. Vorrei rievocare le sue lezioni sul tema dell’interesse sociale, del controllo e dei gruppi; sulla disciplina dell’informazione societaria e della formazione del bilancio, sui primi rudimenti della disciplina sulle offerte pubbliche di acquisto, all’epoca inesistente in Italia; di quando invitò in aula due funzionari della quasi sconosciuta Consob (uno dei due era Giovanna Trazza,

che in seguito diventò il capo della Divisione informativa quale faceva riferimento alle istituzioni, Magistratura compresa, che peraltro non si esimeva dallo strapazzare, sempre con molto garbo ma con toni decisi, quando in disaccordo con talune sentenze.

E ancora vorrei parlare del suo insegnamento a considerare gli ordinamenti stranieri, per attingerne il movimento (e non copiarne acriticamente gli istituti!), e il diritto comunitario, del quale denunciava la timidezza e l’essere – già allora – il risultato di compromessi, con i

«considerando» e «tuttavia» contenuti nei preamboli delle prime direttive in materia di informazione societaria.

Non posso, infine, non rammentare che, nonostante fosse un giurista, insegnava anche che le norme dovevano, in certi casi, sapersi fermare per lasciare spazio all’autodisciplina, e menzionava, quale sua massima espressione del tempo, il City Code on Takeovers and Mergers. Manifestava anche la sua decisa contrarietà a un sistema sanzionatorio troppo repressivo, potendo a volte risultare più efficace un giudizio espresso dal

“tribunale d’onore”, evocato da Max Weber nel libro La borsa, del 1894, che mi consigliò di leggere, perché «dietro le forme del diritto sta l’uomo»16.

E degli uomini e dei loro slanci, aspirazioni e fermenti, ma anche delle loro inquietudini, debolezze e miserie, Ariberto Mignoli aveva estrema consapevolezza.

Ma ora, richiamando il comportamento di Schahrazade nelle Mille e una notte al sopraggiungere del mattino, evocato da Ariberto Mignoli in uno dei suoi scritti17, discretamente mi taccio. Perché è arrivato, come egli diceva, «il tempo del congedo».

E allora concludo con il suo insegnamento più importante, contenuto anche nella raccolta da lui curata e pubblicata poco prima che mancasse, e che, con la

«maturità del sapere», mi comunicò citando John Milton, e cioè che «alla fine tutto è perfetto».

Grazie professore e, di più ancora, maestro – e chiudo con parole sue –, «compagno più esperto che guida i giovani lungo i sentieri verdi della vita»18.

17 A. Mignoli, Gino de Gennaro, «Riv. Soc.»,1991, 1.

18 A. Mignoli, Armando Sapori (1968), La Società per azioni, Milano, Giuffrè, 2002, 601.

ABITARE IL FUTURO: ARIBERTO

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