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Eva Cantarella

La prima cosa che devo fare, dopo avere ringraziato di questo invito a ricordare Ariberto Mignoli, è spiegare perché per ricordare un grande giurista qual era Mignoli ho pensato di parlare di Saffo (e le altre: vedremo perché e chi sono).

Le ragioni sono due: la prima è che come tutti sanno e come è stato giustamente ricordato Mignoli non era solo un grande giurista. Era uomo di inesauribile curiosità e di vastissima, straordinaria cultura. E all’interno di questa cultura, come dimostrano molti volumi della sua biblioteca, la cultura greca occupava un posto particolare. Mignoli infatti amava profondamente la Grecia e l’inestimabile patrimonio che questa ci ha lasciato. Tutto, indistintamente, ma con una speciale preferenza: quella per la poesia di Saffo.

La seconda ragione è legata invece a un ricordo personale, a me molto caro: quello di una vacanza fatta con lui, con sua moglie Maatje e con alcuni comuni, carissimi amici (Piergaetano Marchetti, sua moglie Ada e i loro figli).

Destinazione della vacanza, scelta da Mignoli: l’isola di Lesbo. Più specificamente la citta di Mitilene, dove Saffo era nata, e dove, in quei giorni, il suo nome, evocato da Mignoli, tornava era spesso al centro nei nostri discorsi. L’ occasione era, quasi sempre, il ricordo di un verso: «tramontata è la Luna e le Pleiadi. E io giaccio sola…», ad esempio, era uno dei più amati, che Mignoli, superfluo a dirsi, ricordava e citava in greco. E così accadeva che la sera ci si addentasse nella discussione di problemi storiografici provocati dalla perplessità di Mignoli di fronte alla risposta che, abitualmente, veniva data alla domanda che egli continuava a porsi e a proporci: per quale ragione, per quali

ragioni le donne greche, dopo Saffo, hanno lasciato così poche tracce di sé, per (non dire che non ne hanno quasi lasciate)?.

La risposta abituale che gli antichisti davano (e danno) alla domanda era che Saffo era vissuta in un momento nel quale non si erano ancora consolidate le strutture della polis, che avrebbero di lì a poco rinchiuso le donne nel ruolo esclusivo di riproduttrici del corpo cittadino, negando loro pressoché ogni diritto nel campo del diritto civile ed escludendole da gran parte delle attività sociali (i famosi simposi, ad esempio), e privandole della possibilità di ricevere un’educazione.

A Mignoli questa ipotesi sembrava troppo drastica. Non che egli credesse in una Grecia senza difetti. Mignoli non credeva nel “miracolo greco”, come veniva definito, fino a pochi decenni or sono, il fiorire delle arti, della scienza, della filosofia, del teatro nell’Atene di Pericle. Secondo i sostenitori del “miracolo”, quel che era accaduto in Grecia nulla aveva a che vedere con il resto del mondo a est del Mediterraneo, e nulla gli doveva. Era alla Grecia, e solo a lei, che l’Occidente doveva l’eredità sulla quale era costruita la sua cultura.

Per molto tempo indiscussa, quest’idea si era tradotta nella convinzione, profondamente radicata e diffusa, di una superiorità dell’Occidente sull’Oriente, a dare un’idea della quale basterà citare una celebre affermazione di Shelley:

«Siamo tutti greci», scriveva orgogliosamente il poeta nella prefazione a Hellas (1821). E proseguiva: «Le nostre leggi, la nostra letteratura, la nostra religione, le nostre arti hanno le loro radici in Grecia. Se non fosse stato per la Grecia saremmo ancora selvaggi o idolatri. Peggio ancora, potremmo essere rimasti a uno stato così miserabile e

estraneo alle istituzioni sociali come possono esserlo la Cina o il Giappone».

Mignoli sapeva perfettamente (di nuovo, la sua biblioteca lo dimostra) che già nel secondo millennio i greci intrattenevano con l’Est contatti che andavano al di là degli scambi commerciali. Nel 1947, un grande saggio di un allora giovane studioso, Santo Mazzarino, aveva cercato e individuato i modi della trasmissione culturale, individuando i luoghi d’incontro delle diverse culture (gli ittiti, i lici, i frigi, i cari) e le vie attraverso le quali si erano diffusi incontrandosi tra loro e con quella greca) i costumi, le tradizioni, le correnti artistiche, le idee religiose, le teorie scientifiche, le conoscenze tecniche... Il titolo del libro era Tra Oriente e Occidente. La cultura greca, insomma, non era un

“miracolo” che nulla doveva ad altre culture. Mignoli, molto interessato a questo discorso, condivideva le nuove ipotesi storiografiche.

Ma insisteva sul fatto, se la cultura greca non era autoctona, questo non significava necessariamente fosse arretrata come si era arrivati a descriverla con riferimento alla questione femminile. E a provarlo ricordava, giustamente, che le fonti greche conservavano traccia di altre poetesse, che avevano vissuto e agito, artisticamente, anche nei secoli della polis.

Le storie che più spesso ricordava erano quella di Mirtide che sarebbe stata che la maestra di Pindaro quella di un’altra allieva di Mirtide, Corinna di Tanagra, che avrebbe addirittura riportato ben cinque vittorie su Pindaro.

Ma sulle vittorie di Corinna su Pindaro gravano non pochi dubbi: anche se questa fu certamente poetessa di fama e di varia ispirazione, come mostrano i titoli di lei rimasti e alcuni versi conservati da alcuni papiri di Ossirinco, è proprio

da un su frammento che possiamo dedurre che ella non sconfisse mai Pindaro (la sua maestra) in cui scrive:

E io biasimo anche l’armoniosa Mirtide perché, essendo donna,

venne con Pindaro a gara.

Apriamo un breve parentesi: anche se non è facile orientarsi all’interno di notizie così incerte e frammentarie, è difficile e non venire colpiti il biasimo per una donna che aveva osato gareggiare con un uomo, espresso da una donna come confermavano. E su questo aveva certamente ragione:

queste donne esistevano.

Sempre nel V secolo, ad Argo era vissuta Telesilla, poetessa e guerriera protagonista di un singolare episodio, che l’avrebbe vista organizzare le donne della città per combattere contro Cleomene, re di Sparta. Celebrata dai suoi concittadini, che le eressero una statua, nella quale era raffigurata mentre, gettati i libri, calzava l’elmo per combattere, Telesilla compose opere prevalentemente legate al culto, di cui sono rimasti nove frammenti (forse parte di Inni ad Apollo e Artemide) ed è celebre, in particolare, per aver usato un verso (il gliconico acefalo) chiamato dagli alessandrini telesilleo.

A Sicione, vicino a Corinto, nella stessa epoca di Telesilla visse Prassilla, personaggio di rilievo nella sua città, ove, nel IV secolo, venne eretta in suo onore una statua di bronzo e autrice fra l’altro di un ditirambo Achille e di una

composizione su Adone, di cui sono rimasti tre esametri, nei quali Adone, interrogato nell’Ade su che cosa ci sia di più bello al mondo, risponde nominando, oltre al sole e alla luna, alcuni frutti. Nel IV secolo, forse a Teno, visse Erinna, di cui restano circa sessanta versi del poemetto La conocchia, composto in occasione della morte di un’amica, e tre epigrammi nell’Antologia Palatina, uno dei quali scritto per Bauci:

O stele e sirene mie e urna luttuosa, e tu Ade che tieni la poca cenere,

a chi passa presso la mia tomba dite «salve», sia egli cittadino ovvero forestiero;

e che sposata appena mi ebbe la tomba, e ancor questo:

che Bauci mi chiamò il padre, che la mia stirpe è di Telos, affinché sappiano; e che a me la compagna

Erinna su la tomba quest’epigramma incise.

In epoca ellenistica, infine, ecco Anite di Tegea in Arcadia (cui i concittadini eressero una statua), chiamata, da Antipatro di Tessalonica, «Omero femmina», famosa per i suoi epigrammi paragonati da Meleagro a gigli purpurei, e in effetti autrice di versi delicatissimi, come quelli scritti per la piccola Mirò:

Al grillo, usignolo dei campi, e alla cicala amante degli alberi

comune tomba eresse la piccola Mirò, infantili lacrime versando: poi che inesorabile

Ade le portò via i suoi giochi.

Infine ecco Nosside, vissuta alla fine del IV secolo a Locri Epizefiri, la città in cui le famiglie nobili, appartenenti alle Cento case, sembra si tramandassero il nome in linea femminile, come alcuni desumono dal fatto che Nosside ricordi il nome della madre, Teofili, e non quello del padre.

Di Nosside (che orgogliosamente si paragona a Saffo, rimangono dodici epigrammi, alcuni dei quali, dedicati ad argomenti letterari, non particolarmente felici. Ma Nosside, come dice Meleagro, che definisce le sue poesie «odoranti floridi giaggioli», cantava soprattutto l’amore, e un epigramma d’amore pervenuto, infatti, rivela una genuina e appassionata vena poetica, tutt’altro che letteraria:

Nulla è più dolce che amore: tutte le altre dolcezze vengono dopo: dalla bocca io sputo anche il miele.

Questo dice Nosside: ma colei, cui non baciò Cipride, ignora quali mai rose sono i suoi fiori.

Alla fine di tutte questi discorsi, Mignoli era soddisfatto. La sua tesi non era infondata: vi erano state donne (non molte, ma tutte significative) che erano riuscite a farsi spazio, a conquistare un posto di rilievo e ad assicurare così il loro nome alla storia, pur nel quadro di una società che tendeva a non dare ascolto alla loro voce. Che conclusione trarre da quel grande ripasso di cultura liceale (dei licei di altri tempi, peraltro)?

Su un unico punto non si poteva discutere: nessuna delle donne della cui attività culturale e letteraria è rimasta traccia proveniva dall’Attica. L’unica intellettuale (non poetessa, ma donna di eccezionale cultura) il cui nome è legato alla storia di Atene è Aspasia; ma Aspasia non era ateniese, proveniva dalla Ionia. Tutte le altre erano nate e

avevano agito in zone diverse, nelle quali le condizioni di vita delle donne erano diverse da quelle delle ateniesi.

La conclusione fu salomonica: gli ateniesi erano misogini. Gli altri greci lo erano meno. O forse, diceva Mignoli – su questo punto quasi irriducibile – non lo erano affatto.

SPUNTI DI RIFLESSIONE TRATTI

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