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La Biblioteca Storica Mediobanca ARIBERTO MIGNOLI BIBLIOFILO CURIOSO E RAFFINATO GIURISTA

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La Biblioteca Storica Mediobanca

ARIBERTO MIGNOLI BIBLIOFILO CURIOSO E RAFFINATO GIURISTA

ATTI DEL CONVEGNO GIOVEDÌ 12 MAGGIO 2016

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La Biblioteca Storica Mediobanca

ARIBERTO MIGNOLI

BIBLIOFILO CURIOSO

E RAFFINATO GIURISTA

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A cura di Marino Viganò

Finito di stampare aprile 2018

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SOMMARIO

Alberto Nagel

Introduzione 7

Sergio Scotti Camuzzi

Diritto della società per azioni e diritto dello Stato: analogie di

idee e problemi nel pensiero di Mignoli 8

Eva Cantarella

Saffo e le altre 28

Lucrezia Geraci

Spunti di riflessione tratti dalle lezioni del professore Ariberto

Mignoli sulla disciplina delle società per azioni 35

Daniela Marcheschi

Abitare il futuro: Ariberto Mignoli fra diritto, economia e cultura 48

Marino Viganò

«Per le fauste nozze...»

La collezione Mignoli di nuptialia del XIX e XX secolo 60

Appendice fotografica 66

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INTRODUZIONE

Alberto Nagel

Ariberto Mignoli è una figura difficile da ricordare: dotato di una personalità unica, alla quale non è facile rendere omaggio proprio per la sua rarità nel panorama italiano ma non solo. E quindi con la famiglia Mignoli e grazie agli amici che ci hanno dato una mano abbiamo potuto organizzare questa giornata di ricordo della sua figura.

Non vogliamo ricordare solo il suo lato più accademico di giurista e tralasciare altri aspetti più legati alla sua personalità, la sua passione per i libri e le sue varie curiosità.

Definire questo insieme non è un compito facile, ma un concetto che potrebbe essere utile è quello di humanitas.

Andando a vedere il concetto di humanitas latino prima ripreso da Cicerone ma poi in alcuni passaggi anche da Terenzio si possono trovare spunti interessanti. Nell’accezione di Terenzio ci sono diversi valori caratteristici della figura di Ariberto: filantropia, dignità, nobiltà d’animo, senso della giustizia, buongusto, misura, eccellenza dell’ingegno e mitezza d’animo. Sono tutti valori che ricordo essere molto forti nella figura di Ariberto Mignoli.

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DIRITTO DELLA SOCIETÀ PER AZIONI E DIRITTO DELLO STATO: ANALOGIE

DI IDEE E PROBLEMI NEL PENSIERO DI MIGNOLI

Sergio Scotti Camuzzi

1. Il pensiero di Ariberto Mignoli cui faccio riferimento è espresso negli scritti raccolti in due volumi pubblicati a Milano nel 2002 dall’Editore Giuffré, sotto il titolo La società per azioni. Problemi - Letture - Testimonianze1. Di tali scritti ho particolarmente utilizzato, perché specificamente attinenti al tema in discussione:

1° gli articoli di Mignoli intitolati: Idee e problemi nell’evoluzione della «company» inglese (pubblicato in Riv. società 1960), La società per azioni oggi.

Problemi e conflitti (è la prolusione dell’anno accademico 1989-1990, pubblicata in «Riv. Società»

1990), L’interesse sociale (pubblicato in «Riv. Società»

1958), Interesse di gruppo e società a sovranità limitata (pubblicato in Contratto e impresa, 1986), I quarant’anni della Rivista (è l’allocuzione introduttiva

1 Il primo volume è diviso nelle «Riflessioni sui principi» e «Riflessioni sulle discipline», e raccoglie articoli di Mignoli pubblicati (quasi tutti) sulla Rivista delle società.

Il secondo volume contiene le prolusioni, lette dal professore nell’anno accademico 1962-1963 e nell’anno accademico 1989-1990, ai corsi di lezioni di diritto commerciale da lui tenuti all’Università Bocconi, i suoi discorsi di introduzione ai convegni della «Rivista delle Società» svoltisi a Venezia nel 1966, nel 1981 e nel 1995 e, in una terza parte («Testimonianze. Memorie. Letture»), una raccolta preziosa di brani di illustri Autori del passato, recensiti nella Rivista delle Società fra il 1960 e il 1972, preceduta da necrologi di alto valore letterario e storico e seguita da tre brevi pezzi poetici di Milton, di Hölderlin e dello stesso Mignoli («Le mura della città»): quasi frammenti di un suo testamento spirituale.

A testimonianza della sua consapevole ed intenzionale umiltà, ricordo che l’Autore disse che gli sembrava che questo secondo volume fosse più

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del convegno tenuto a Venezia nel 1995 sul tema I gruppi di società, pubblicata in «Riv. Società» 1995);

2° alcuni degli scritti di Autori del passato che Mignoli ha selezionato e raccolto: quelli di H. F. D’Aguesseau, Mémoire sur le commerce des actions de la Compagnie des Indes; di I. de Pinto, Traité des fonds de commerce ou jeu d’actions; di H. O. Taylor, La venerabile persona giuridica; di W. Rathenau, La realtà della società per azioni. Riflessioni suggerite dall’esperienza degli affari (con introduzione di L.M. e A.M.); di K. Marx, L’East India Company (con introduzione di R. Banfi); di R. Hilferding, La società per azioni (con introduzione di R. Banfi) di O. von Gierke, Sulla storia del principio di maggioranza.

2. Quanto all’idea che fra diritto dello Stato e diritto della società per azioni vi sia una similitudine spiccata e che la dottrina dello Stato – dello Stato moderno, cioè dello Stato sovrano quale concepito dal pensiero politico dell’Europa rinascimentale, e poi evolutosi in Stato di diritto, laico e democratico – influenzi la teoria delle società (e/o viceversa?), essa è da Mignoli enunciata espressamente, almeno come rilevazione di un fatto storico, se non come postulato di necessità filosofica.

Cito da Idee e problemi nell’evoluzione della «company»

inglese: «È del resto costante nella dottrina delle società il ricorso alla teoria dello Stato, da cui per tanti versi la società deriva la sua fisionomia, il suo modo di procedere, il suo stesso destino»; e ancora: (la società commerciale – la società per azioni in particolare – nella sua struttura organizzativa) «riproduce la divisione dei poteri propria dello Stato»; e poi: «lo Stato disciplina a sua immagine e somiglianza la grande società azionaria, sulla

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quale quindi si ripercuotono modi di vedere, dottrine e tradizioni che influenzano le vicende della vita statale».

3. Ma è proprio vero che la società per azioni è foggiata dallo Stato a sua immagine e somiglianza?

Non sono maggiori, e maggiormente significative – fra diritto dello Stato e diritto della società per azioni – le differenze più che le rassomiglianze? E non è forse vero che, all’inverso, fu molte volte la dottrina e la prassi delle società di commercio ad ispirare ed a guidare la dottrina dello Stato?

Belle domande, ma l’interrogativo metodologicamente più importante, cioé più utile per capire le cose, è un altro, ed è questo: qual è il problema, il medesimo, in cui si sono imbattuti sia i progettisti/costruttori dello Stato – intendo dello Stato moderno, quello che, ancora oggi modella la nostra società politica – sia i progettisti/costruttori della società per azioni; qual è il problema dei cui termini e/o delle cui soluzioni nella dottrina delle società commerciali e nella dottrina dello Stato si vedono somiglianze e addirittura identità?

E perché – se è vero (come sembra) che nella realtà delle cose essa esiste – vi è siffatta analogia?

Al primo interrogativo, quello sul verso dell’influenza di un modello sull’altro, la risposta dell’Autore è chiara; egli pensa che sia venuta prima la dottrina e la pratica politica, e che sia stata essa, quella dello Stato, ad influenzare quella societaria, piuttosto che all’inverso. Ciò non togliendo, però, che i giuspubblicisti ed i politici, sia nella teoria che nella pratica, abbiano largamente attinto ai concetti ed ai principi degli istituti del diritto civile: in primo luogo del contratto (da Locke a Hobbes a

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Rousseau) – e, per diritto inglese, del trust –, facendo capo al principio dei principi predetti, cioè pacta sunt servanda, con la sua estensione anche ai re e agli imperatori, sia nelle relazioni fra loro sia nelle relazioni con i sudditi e/o con i parlamenti dai medesimi nominati.

Ricordo che l’abdicazione di Giacomo II, che consentì alla rivoluzione dello Stato inglese del 1688/89 – la sua conversione in monarchia costituzionale – di compiersi senza spargimento di sangue, né reale né popolare, e quindi di essere ricordata come «gloriosa», era stata richiesta a motivo del suo breach of trust); e che l’ascesa al trono di Guglielmo III d’Orange, suo successore, fu possibile soltanto alla previa condizione, voluta dal Parlamento, che egli giurasse di rispettare il Bill of rights dei suoi sudditi: e fu così che nella realtà storica ebbe principio lo Stato costituzionale.

Al secondo interrogativo – quale sia il tema centrale comune, che rende omogenee la questione politica e quella societaria – sono ancora gli stessi scritti di Mignoli a specificamente rispondere. Si tratta, sia per lo Stato sia per la società per azioni, del problema del potere; ed, in entrambi i campi, nel duplice momento e per il duplice profilo dell’attribuzione e dell’esercizio del potere2.

È il problema, precisa l’A., «della disciplina dei rapporti fra governanti e governati, tra maggioranze e minoranze, problema che si risolve in quello della costituzionalizzazione, non solo della vita politica, ma anche di quella economica del paese».

2 Cui di recente, nella cultura societaria contemporanea, si è aggiunta, con enfasi forse eccessiva (laddove in quella politica è negletta), la considerazione del profilo del controllo, di carattere preventivo ed amministrativo: ciò che è da approvare, ma a patto che tale impostazione non vada a scapito (e alibi) della responsabilità per il cattivo esercizio del potere, conseguendone una deleteria burocratizzazione del governo ed una voluta esautorazione della funzione giurisdizionale (che pur resti nell’àmbito del giudizio di legittimità).

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Il rilievo meriterebbe di essere preso a spunto per un approfondimento del significato liberale che tale

“costituzionalizzazione” dell’attività economica (pubblica e privata), di cui le società azionarie sono protagoniste, assume nel quadro della nostra Carta costituzionale (prima della imminente minacciata sua manomissione).

4. Vorrei, a questo punto, proprio sul problema del potere,

“mettere i piedi nel piatto”, e cioè entrare nel merito delle similitudini – di alcune delle similitudini – fra diritto dello Stato e diritto della Società per azioni, che Mignoli esplicitamente o per implicito considera, e considerandole afferma.

Si tratta dell’analogia che, nella prassi e nella riflessione teorica dell’uno e dell’altro campo, si ritrova sui temi della maggioranza, dell’interesse sociale, della personalità giuridica3.

Com’è caratteristico degli insegnamenti di Mignoli, queste analogie non sono da lui sostenute con dimostrazioni logiche deduttive, ma con osservazioni, lucidamente penetranti, dei dati di fatto della vita sociale, della pratica degli affari e della politica vissuta;

cioè sono tesi sostenute non dalla ragion pura ma dalla ragion pratica, che è ragione storica. Il pensiero di Mignoli al riguardo è antitetico a quello di Spinoza, che voleva che il diritto (naturale) fosse «ordine geometrico demonstratum».

5. Mignoli invero fu un grande viaggiatore; e viaggiatore non soltanto nello spazio, ma anche nel tempo; il suo

3 E poi sul tema della relazione fra Stato, o società per azioni, e mercato (ma questa è un’angolazione di prospettiva un po’ diversa, che - suggerita o forse richiesta da necessità contemporanee - vi proporrò alla fine, come esito e

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taccuino di viaggio è un atlante storico. Ed è cosi che il paragone fra diritto dello Stato e diritto della Società per azioni si dipana nel suo pensiero lungo gli ultimi quattro secoli, fino all’età nostra; ed è così che, discutendo sull’argomento, egli colloquia con pensatori del passato come se fossero suoi contemporanei. Lo testimonia la raccolta dei brani dei loro scritti che compone il secondo dei volumi che Mignoli ha voluto lasciarci in eredità della sua ricerca e del suo insegnamento.

Ebbene, per mostrare che quegli assunti circa l’analogia fra il diritto della società per azioni e il diritto dello Stato sono veri, Mignoli anzitutto fa un viaggio, a Londra e ad Amsterdam, all’inizio del XVII secolo.

E poiché ancora, alla mia tarda età, sono i viaggi avventurosi del pensiero che m’attraggono4, voglio seguire Mignoli in questo viaggio e vi invito a venire anche voi, e a guardare insieme le cose, gli uomini, i paesaggi, le opere da lui visti e capiti.

6. È opinione condivisa che la prima nata della stirpe delle società per azioni sia stata la East India Company, costituita nel 1600 a Londra e fin dalla sua nascita dotata – e probabilmente perciò fatta nascere –, per concessione della regina (Elisabetta I), del privilegio esclusivo (ossia del monopolio), del commercio con le Indie Orientali e della navigazione sui mari solcati da quelle rotte.

4 Perché in essi potrei incontrare, non più (o non più soltanto) il brivido dei perigliosi percorsi o il fascino dei giochi pericolosi, dei labirinti ostinati, ma gli attimi dell’illuminazione, la traccia, la cifra dell’alchemico enigma, udire le note dell’armonia celeste, e trovare la chiave della comprensione delle cose e degli uomini, e cioè del mistero di Dio – «e ceneremo insieme, e tu m’aprirai le porte del tuo cuore».

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Di quella Compagnia, Mignoli segnala il «carattere essenzialmente democratico»; qualità che del resto fu ad essa pubblicamente e con invidia riconosciuta dagli azionisti (specialmente dal popolo dei “sottopartecipanti”

cioè dei “piccoli azionisti”) della coeva Compagnia Olandese delle Indie Orientali quando, nel 1621, essi lodavano la cugina inglese come esemplare, al confronto con la loro Compagnia della quale criticavano la struttura oligarchica, lamentando la prepotenza dei suoi amministratori, che la facevano da padroni, senza aver avuto alcuna investitura da parte dei “partecipanti”, cioè degli azionisti. In effetti, nella Compagnia olandese, gli azionisti non avevano voce in capitolo; il governo era nelle mani dei fondatori, i bewindhebbers, immanicati con il potere politico, veri oligarchi, e restò a lungo nelle mani dei loro successori, i quali, non nominati dall’assemblea degli azionisti, esercitavano il loro potere di governo con arroganza e senza darne conto.

Per entrambe le Compagnie il tema è il medesimo: è quello dell’attribuzione e dell’esercizio del potere di comando sui consociati e sulle cose ed attività messe in comune (a chi darlo, per quale titolo; entro quali limiti, e come, per quali finalità, esercitarlo).

Ed è il tema, ciò è da notare, che parimenti si presentava a proposito della strutturazione degli Stati – gli Stati nazionali sovrani – che nell’Europa occidentale, dal loro originario modello di regni o principati assoluti (o repubbliche oligarchiche presidenziali, come a Venezia o a Firenze, o come il pontificato a Roma), in quell’epoca andavano, ancorché lentamente, evolvendo – prima in Gran Bretagna, poi, cento e cento anni dopo, negli altri paesi europei – verso lo Stato di diritto, lo Stato costituzionale nel quale oggi – passate le tragiche ere fasciste, naziste e staliniste – trascorriamo (e, vi assicuro,

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per nostra fortuna), i giorni della nostra esistenza e godiamo di un notevole grado di libertà.

Il problema è il medesimo e analoghi sono i concetti ed i principi che i nostri avi hanno adoperato, e ancor oggi noi adoperiamo, per impostarli e, se non per risolverli, per utilmente affrontarli.

7. Due osservazioni di Mignoli circa la “democrazia”

societaria sono degne di nota.

La prima, l’osservazione del fatto che il carattere democratico della Compagnia inglese trova spazio e adatta coltura nella selezione aristocratica dei suoi soci (i quali, addirittura, erano chiamati, come in ogni esclusivo club era buona norma stabilire, a versare a fondo perduto una tassa di ammissione), laddove la Compagnia olandese era intenzionalmente “a larga base azionaria”, cioè aperta a chiunque volesse sottoscrivere anche una sola azione di modesto valore: e ben sappiamo che la democrazia più facilmente alligna in una omogenea compagnia di pari di nobile rango che in una disparata accolita di estrazione popolare; e d’altro lato, che tale carattere democratico della Compagnia inglese, era ad essa impresso dalla regola, che è ancor oggi alla base dello Stato inglese, di attribuire il potere alla maggioranza: in tale potere non essendo però compreso quello di governare, perché il mandato di governare è dato ad amministratori terzi i quali, pur dovendo essere graditi alla maggioranza degli azionisti (o dei parlamentari), non necessariamente devono essere da essa nominati (e nel governo dello Stato non lo sono) e – soprattutto – hanno il mandato a governare non nell’interesse della maggioranza ma nell’interesse comune di tutti.

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La seconda è l’osservazione del fatto (Mignoli lo nota) che per una decina d’anni dopo la sua costituzione la Compagnia inglese usò computare la maggioranza per capi e non “pesare” il voto dell’azionista in proporzione del numero delle azioni da lui possedute. Rammento che, mentre, nella dottrina e nella prassi dello Stato, il voto per capi fu indiscusso anche quando il diritto di voto non era dato a chi non fosse di censo ragguardevole, per contro, nelle società per azioni, fu sempre pacificamente ritenuto il criterio che il voto nell’assemblea degli azionisti dovesse essere computato per azioni, cioè che dovesse essere pesato in proporzione della quota di capitale posseduta.

Fu lo stesso Hobbes – il teorico dell’assolutismo del potere della maggioranza popolare (computata per capi), nello Stato – a sostenere che nella SpA era giusto adottare il diverso criterio capitalistico, con l’argomento che è giusto che il potere di decisione sia proporzionale al rischio che ciascun partecipante corre; rischio che è appunto quello di perdere il capitale conferito5.

E come mai, allora, fu che all’origine, nella East India Company inglese, i voti contavano per capi? E che soltanto una dozzina d’anni dopo la sua costituzione si passò alla conta dei voti per peso, cioè pesando la quota di capitale che il votante rappresentava?

Lo si spiega se si pone mente al fatto che, in origine, la East India Company ebbe carattere prettamente consortile. Invero, fino al 1612-1613 essa fu una regulated Company, da ascrivere al novero delle corporazioni fra mercanti; il cui fine (la precisazione/definizione è ancora dovuta a Hobbes, là dove, nel Leviatano, tratta dei «corpi politici per regolare il commercio») «non è il comune

5 Chiaro che il presupposto di tale ragionamento è che la società per azioni è una società a responsabilità limitata dei soci; ed ovvia la conclusione che –

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beneficio della corporazione tutta, ma il guadagno particolare di ciascun mercante». Soltanto dopo essa divenne una “joint stock company” e fu soltanto allora che, coerentemente, si passò al criterio di computare il voto di ogni singolo partecipante col peso della quota di capitale da lui rappresentata.

8. Permettiamoci però, ora che abbiamo addestrato lo sguardo a guardare queste cose, di gettarlo su un altro paesaggio. Come mai, per diritto delle SpA, la maggioranza nel consiglio d’amministrazione (e nel Consiglio di sorveglianza, dove pure s’approva il bilancio) si computa per capi?6.

E, sotto altri profili: qual’è l’àmbito cui si deve riferire il potere societario: esso comprende la gestione dell’impresa – o delle imprese – che costituisce l’oggetto sociale? Quali i confini fra legge (potere del Parlamento o dell’Assemblea) e decreto (o atto) di gestione (potere del Governo o dell’Organo amministrativo)?

La discussione di siffatte questioni ci condurrebbe entro territori appena esplorati – sia nella dottrina dello Stato che nella dottrina societaria – e ancora incolti, e in parte nemmeno mappati.

Su di esse però posso dire che, il nostro diritto societario è un poco più avanti del diritto dello Stato. La piccola riforma attuata dal diritto della SpA nel 2003-2004, modificando i precedenti art. 2381 e 2364 cod. civ., ha

6 Non vi pare di sentire in questa sala l’eco di qualcuno che proclamava che i voti non basta contarli, ma si devono pesare? Non è detto però che il senso della celebrata affermazione non debba trarsi dalla Regola benedettina. San Benedetto esortava i capitoli - le comunità - dei suoi monaci a dare il debito peso, maggiore del numero, al voto della minoranza quando, per la sua saggezza, lo meritasse.

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nettamente tolto dalle competenze dell’assemblea la gestione dell’impresa esercitata dalla società. Nel diritto dello Stato permane il grande sbaglio di non tenere distinti e separati, nelle rispettive funzioni, Parlamento e Governo, potere legislativo e potere esecutivo: il Governo governa a colpi di legge, a sè asservendo il Parlamento, così che il Parlamento malamente governa ed il Governo malamente legifera, con una confusione deleteria di ruoli e di funzioni.

9. Di notevole rilievo, perché di alto insegnamento morale, sono le prese di posizione di Mignoli su due questioni che – assai discusse nella dottrina in materia di società per azioni – si presentano analogamente nella dottrina dello Stato.

Si tratta della questione se la maggioranza – o gli amministratori da essa nominati, o comunque di essa fedeli – abbia il diritto, in nome dell’interesse sociale, di danneggiare la minoranza; questione che implica l’altra, se l’interesse sociale sia definibile come interesse comune di soci o sia qualcosa d’altro, di più ampio respiro e di più elevato valore.

Ricordo che il principio di maggioranza è fondato sul presupposto – “di diritto naturale” – che, dovendosi prendere la decisione migliore, la più efficace per realizzare l’interesse sociale (definito come l’interesse comune dei soci), sia la maggioranza a potere/dovere decidere quale sia l’interesse comune e quale sia il modo migliore di soddisfarlo. Si conviene che tali decisioni, prima e primaria quella di individuare l’interesse sociale, non sono sindacabili nel merito, se prese da votanti che non versino in situazioni di conflitto di interessi. Ché se, invece, taluno dei votanti in tale situazione versasse, lo deve palesare, e deve – se vuole votare – scegliere il

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voto conforme all’interesse sociale (e contrario al proprio interesse, che, appunto, si trova con quello in conflitto).

La questione del limite al prevalere della maggioranza, essendo questo limite segnato dal conflitto di interessi, e quindi implicando la definizione dell’interesse sociale, si incrocia così con la questione sulla persona giuridica (è comune recetta opinione che sia la SpA sia lo Stato sono persone giuridiche), quando taluno reputi che la persona giuridica – benché non abbia un’anima da salvare, né un corpo da ferire e da far sanguinare – abbia però un interesse suo proprio, che non è semplicemente l’interesse comune dei soci, presente in ciascuno di loro (in quanto socio), ed uguale per tutti, ancorché in misura proporzionale al numero di azioni possedute, ma è qualcosa di più composito e superiore.

Quando vi sia tale convinzione, il connubio fra interesse sociale e persona giuridica è pericoloso. È un pericolo ben noto alla dottrina dello Stato, perché è nell’ideologia dello Stato che da quel connubio è nato il mostro della

«ragion di Stato», che giustifica il delitto di Stato contro i cittadini dissenzienti.

Tanto diceva bene Stuart Mill quando predicava che un buon sovrano è la miglior costituzione possibile, altrettanto vedeva chiaro Tocqueville quando, e all’estremo opposto, diceva la stessa cosa, ammonendo che il peggior despota immaginabile è lo Stato democratico/persona giuridica: l’immaterializzazione del dispotismo è la jattura estrema e la tirannide senza rimedio (lo ha provato la Terreur e la Grande Terreur nella Francia di fine del XVIII secolo), perché, contro la persona giuridica – o “il popolo” – che con impeto tirannico persegue il suo disumano superiore interesse, non valgono nemmeno, a differenza che contro un monarca

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assoluto e dispotico, gli ultimi rimedi dell’appello alla coscienza del re (alla sua responsabilità verso Dio, o la storia, o l’umanità), oppure – in opposta alternativa – del meritorio, valoroso tirannicidio.

Anche senza arrivare a tali estremi, sta per vero che, se s’ammette che la SpA persona giuridica, o lo Stato persona giuridica, ha un interesse proprio, e un fine proprio da affermare, superiore a quello comune dei consociati, ne discende che gli azionisti, così come i cittadini, devono cedere il passo e chinare il capo, e rendersi conto che sono loro a dover essere strumenti e servitori dello Stato o della società, per il conseguimento di tali interesse e fine.

Fu per non piegarsi a questo torto alla libertà che Mignoli si fece convinto e persuasivo assertore della tesi che l’interesse sociale in altro non può consistere che nell’interesse comune dei soci (in quanto tali) (e, beninteso, dei soci attuali).

10. Vorrei infine, negli ultimi minuti di questa nostra conversazione, guardare al tema dell’analogia fra dottrina dello Stato e dottrina della società per azioni sotto una differente prospettiva.

Vi prego di notare che finora l’analogia fra i due istituti l’abbiamo riscontrata relativamente alla loro rispettiva organizzazione (cioè guardando al loro interno).

Proviamo ora ad osservarla guardando alle loro relazioni esterne.

Alludo specificamente, lo dico subito, alla relazione di Stato e di SpA con il mercato. E vi preavverto che scopriremo che questa relazione ha avuto di ritorno una

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rilevante incidenza sull’organizzazione interna degli istituti – sia dello Stato sia della SpA – e sulla loro stessa essenza.

11. Anche questo territorio non è dissodato, ma non è nemmeno inesplorato.

Ed anche per questa esplorazione conviene incominciare con un viaggio nella storia: a Parigi nell’anno del Signore 1719. Scrive Janet Gleeson nella sua biografia di John Law, The Moneymaker, edita a Londra nel maggio 2000 (tr. it.: L’uomo che inventò il denaro, Milano, Rizzoli, 2000):

«Per tutta l’estate del 1719 Parigi sprofondò in una follia speculativa senza precedenti, che aveva per oggetto le azioni della Compagnia del Mississippi. A metà agosto le azioni che tre mesi prima valevano appena 490 lire venivano arraffate al prezzo di 3.500 lire…». E Daniel Defoe, in una corrispondenza a Londra da Parigi datata 12 settembre 1719, scriveva: «Non si vedono altro che nuovi vestiti, nuove figure [?] e un numero infinito di famiglie che hanno accumulato nuove fortune. A Parigi si vedono in circolazione 800 nuove carrozze e le famiglie arricchite comprano nuove stoviglie, mobili nuovi, vestiti nuovi e un nuovo equipaggio [?], cosicché il commercio si è sviluppato in maniera prodigiosa».

Era una bolla che sosteneva solo con aria i valori della

“carta”: sia della cartamoneta emessa dalla Banque Générale, fondata dal Law e sostenuta dal «reggente», il duca Philippe d’Orléans, sia delle azioni emesse dalla Compagnia del Mississippi, anch’essa creatura dell’uomo di affari scozzese.

Nell’autunno del medesimo anno, infatti, l’euforia finì nel gelo. La “carta” – tanto le azioni emesse dalla Compagnia del Mississippi quanto, che era peggio, le banconote emesse dalla Banca – non valevano più

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niente (o molto poco); tutto (o quasi) il popolo dei milionari (fasulli) di poco tempo innanzi era tornato ad essere (od era divenuto) povero.

La Banque Générale – invece che trasformarsi nella Banque de France, cioè nella banca dello Stato, come avrebbe voluto il Law, e come stava per essere fatto – chiuse gli sportelli e John Law lasciò Parigi.

Il debito pubblico francese, il debito di sua maestà (o del suo Governo) – che la Banque Générale, con la sua trasformazione in Banca di Francia, avrebbe dovuto assumersi – rimaneva insoluto ed enorme.

La storia insegna, ma troppo pochi sono coloro che ascoltano le sue lezioni.

12. Ora, per tornare al nostro tema ed al tempo nostro, domandiamoci: qual è l’analogia che, nelle vicende viste durante il viaggio a Parigi al tempo di Law, si coglie fra società per azioni e Stato, per quanto concerne la loro relazione con il mercato?

Al riguardo nulla il professor Mignoli ha esplicitamente scritto, se non per cenni; ma implicitamente il tema viene da lui trattato mediante la selezione e l’indicazione a noi dei brani degli scritti di altri studiosi, da lui presentati nella parte del volume II del suo libro intitolata Testimonianze - Memorie - Letture.

Mi riferisco agli scritti di Marx e di Hilferding (magistralmente introdotti da Rodolfo Banfi), e di Rathenau.

13. È nello scritto di Hilferding, tratto dal suo celebre libro del 1910, che si descrive come la società per azioni (a diffusa base azionaria) comporti istituzionalmente la

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mercificazione sia della proprietà dei mezzi di produzione impiegati dall’imprenditore sia della stessa attività/organizzazione d’impresa: con la conseguenza che il centro dell’interesse caratteristico degli azionisti come tali (quello che correntemente si chiama

“l’interesse sociale”) si sposta dall’ammontare del profitto/dividendo, che è il “frutto” dell’azione, alla quotazione del prezzo di vendita dell’ azione stessa sul mercato (quotazione che a sua volta è funzione dei dividendi attesi soltanto nel caso semplice, caso che sovente è più teorico di scuola che pratico di realtà).

L’azionista, sottolinea Hilferding, assume così «il carattere di capitalista monetario». La “trasformazione”

dell’impresa individuale (o dell’impresa collettiva di poche persone) in società per azioni non ha soltanto l’effetto di ampliare il numero dei contributori alla formazione del capitale dell’impresa, ma anche l’effetto di sostituire al capitalista industriale, qual’era l’imprenditore individuale, una compagnia di capitalisti monetari, quali sono gli azionisti della SpA7.

La società per azioni si trova a misurarsi e ad essere misurata su due mercati: non soltanto quello dei prodotti (che è il mercato di Adamo Smith, quello che misura, e che fa, «la ricchezza della Nazione»), ma altresì quello delle proprie azioni; la società per azioni si trova ad essere in guerra con i competitors su entrambi tali mercati, dove le regole – della guerra e della pace – sono ben differenti.

7 È lo stesso Hilferding a notare – ben prima che Berle e Means ne facessero oggetto di divulgazione nel celebre saggio del 1930 – che «la separazione della proprietà del capitale dalla sua funzione produttiva [“industriale” NdR] ha influenza anche sulla direzione aziendale».

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14. È stato Rathenau a scrivere icasticamente che la Società per azioni ha avuto presso di sé fin dalla sua culla un dono/giocattolo pericoloso, quello della quotazione in borsa.

Ed è stato Marx a scrivere, dopo avere affermato che fattore determinante della crescita storica del capitalismo fu il sistema del debito pubblico, cioè del debito dello Stato (che in origine è il debito del re verso i mercanti ed i banchieri), a scrivere, ripeto, che «il debito pubblico, ossia l’alienazione dello Stato – sia esso dispotico, costituzionale o repubblicano – imprime il suo marchio all’era capitalista».

È questo un punto importante per la nostra indagine sul parallelo ed il confronto fra dottrina dello Stato e dottrina della SpA.

Negli Stati moderni, il debito pubblico – scrive ancora Marx nel brano che Mignoli ci invita a leggere – è «l’unica parte della cosiddetta ricchezza nazionale che passi effettivamente nel possesso collettivo dei popoli moderni… di qui, con piena coerenza, viene la dottrina moderna che un popolo diventa tanto più ricco quanto più a fondo si indebita». C’è almeno una correzione da fare a questa tesi (e la fece Abramo Lincoln, come testimonia R. Banfi nel commento ai brani di Marx): che ciò è vero soltanto se, e nella misura in cui, i titoli del debito pubblico sono nelle mani dei cittadini, perché allora (ma solo allora) (cito da Lincoln) «ai singoli privati cittadini è facile comprendere che non potranno essere troppo gravati da un debito di cui essi stessi sono creditori».

Ma esiste una cifra comune nei problemi della quotazione su un mercato della proprietà dell’impresa

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(per il tramite, si intende, delle azioni della SpA imprenditrice) e della quotazione su un mercato del debito di uno Stato?

Non so. Certamente – e tutti i giorni lo dicono politici e gazzettieri, o secondo le convenienze lo tacciono in un silenzio tetro (più che “assordante”, come invece s’usa dire) – certamente, lo Stato ha ceduto le armi e la sua sovranità è un pallido ricordo. Non alludo alla cessione di sovranità che gli Stati nazionali hanno fatto all’ONU, o, in Europa, all’UE ed in primis, su questo fronte, alla cessione della “sovranità monetaria” alla Banca Centrale Europea.

Non alludo – se parliamo della SpA – alla soggezione a, o alla liberazione da, rapporti di dipendenza di gruppo.

Parlo della resa, che è una resa senza condizioni, che gli Stati – gli Stati nazionali e le loro istituzioni sovranazionali di carattere politico – hanno fatto nei confronti del mercato: dico del Mercato globale, nonché delle sue organizzazioni, cioè della WTO o delle sue emanazioni.

In una vicenda analoga a quella della mercificazione dell’Impresa che avviene con la sua “trasformazione” in SpA e con la quotazione sul mercato delle sue azioni, incorre lo Stato relativamente al debito pubblico ed alla moneta.

Lo Stato nazionale annoverava gelosamente, fra le sue prerogative sovrane (che d’altronde i mercanti stessi gli chiedevano di mantenere), l’emissione e il governo della moneta. Al tempo nostro lo Stato (e l’Unione degli Stati europei o nordamericani) subisce la mercificazione che, sul mercato globale, avviene della sua moneta (per il tramite della quotazione sul mercato finanziario del suo

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debito pubblico). Il governo della moneta sfugge così al suo controllo. Lo Stato sovrano cede le armi al mercato.

A differenza che Luigi XIV, infatti, lo Stato non gode più né dell’autorità né della potenza sufficienti per fare come poté fare il «re Sole»: di dire ai banchieri suoi finanziatori di ritenere estinto il suo debito verso di loro restituendogli bensì lo stesso numero di monete d’oro che aveva avuto in prestito, coniate con la medesima effigie ed il medesimo nome di Luigi, ma con un titolo d’oro di non poco inferiore. Ciò, beninteso, sotto pena di lesa Maestà per chi l’avesse contraddetto, dubitando della sua parola che quelli erano “Luigi d’oro”.

Al tempo d’oggi, il giudice di ultima istanza non è il re, non è la Corte di Cassazione, non è la Corte di giustizia europea, non sono le Corti Costituzionali degli Stati; è il Mercato. L’indebitamento degli Stati può essere virtuoso e “democratico”, come dicono Marx e Lincoln, ma soltanto se è verso i loro cittadini; se il debito è verso il Mercato ed i signori del Mercato, lo Stato ha perso la sua sovranità sulla moneta. È logico allora osservare e dover temere che l’unione monetaria europea sia in realtà soltanto una fusione/concentrazione di imprese finanziarie.

§ § §

Questo è quanto, signori, quanto, dall’insegnamento di Mignoli sull’argomento in discorso, ho tratto di utile per gettare sulle cose e sugli uomini del nostro tempo uno sguardo intelligente, intus legentem. Ed è pure quanto basta per essere sereni nella consapevolezza dei nostri compiti, anche se inquieti sul buon esito che il loro adempimento possa avere sulla sorte della società dei nostri contemporanei. Ed è pure quanto basta per porre fine alla nostra conversazione, che rimane incompiuta, e

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perciò ha il pregio di essere foriera di nuovi incontri, che mi auguro di poter avere con Voi, che intanto ringrazio vivamente per l’attenzione che mi avete regalato.

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SAFFO E LE ALTRE

Eva Cantarella

La prima cosa che devo fare, dopo avere ringraziato di questo invito a ricordare Ariberto Mignoli, è spiegare perché per ricordare un grande giurista qual era Mignoli ho pensato di parlare di Saffo (e le altre: vedremo perché e chi sono).

Le ragioni sono due: la prima è che come tutti sanno e come è stato giustamente ricordato Mignoli non era solo un grande giurista. Era uomo di inesauribile curiosità e di vastissima, straordinaria cultura. E all’interno di questa cultura, come dimostrano molti volumi della sua biblioteca, la cultura greca occupava un posto particolare. Mignoli infatti amava profondamente la Grecia e l’inestimabile patrimonio che questa ci ha lasciato. Tutto, indistintamente, ma con una speciale preferenza: quella per la poesia di Saffo.

La seconda ragione è legata invece a un ricordo personale, a me molto caro: quello di una vacanza fatta con lui, con sua moglie Maatje e con alcuni comuni, carissimi amici (Piergaetano Marchetti, sua moglie Ada e i loro figli).

Destinazione della vacanza, scelta da Mignoli: l’isola di Lesbo. Più specificamente la citta di Mitilene, dove Saffo era nata, e dove, in quei giorni, il suo nome, evocato da Mignoli, tornava era spesso al centro nei nostri discorsi. L’ occasione era, quasi sempre, il ricordo di un verso: «tramontata è la Luna e le Pleiadi. E io giaccio sola…», ad esempio, era uno dei più amati, che Mignoli, superfluo a dirsi, ricordava e citava in greco. E così accadeva che la sera ci si addentasse nella discussione di problemi storiografici provocati dalla perplessità di Mignoli di fronte alla risposta che, abitualmente, veniva data alla domanda che egli continuava a porsi e a proporci: per quale ragione, per quali

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ragioni le donne greche, dopo Saffo, hanno lasciato così poche tracce di sé, per (non dire che non ne hanno quasi lasciate)?.

La risposta abituale che gli antichisti davano (e danno) alla domanda era che Saffo era vissuta in un momento nel quale non si erano ancora consolidate le strutture della polis, che avrebbero di lì a poco rinchiuso le donne nel ruolo esclusivo di riproduttrici del corpo cittadino, negando loro pressoché ogni diritto nel campo del diritto civile ed escludendole da gran parte delle attività sociali (i famosi simposi, ad esempio), e privandole della possibilità di ricevere un’educazione.

A Mignoli questa ipotesi sembrava troppo drastica. Non che egli credesse in una Grecia senza difetti. Mignoli non credeva nel “miracolo greco”, come veniva definito, fino a pochi decenni or sono, il fiorire delle arti, della scienza, della filosofia, del teatro nell’Atene di Pericle. Secondo i sostenitori del “miracolo”, quel che era accaduto in Grecia nulla aveva a che vedere con il resto del mondo a est del Mediterraneo, e nulla gli doveva. Era alla Grecia, e solo a lei, che l’Occidente doveva l’eredità sulla quale era costruita la sua cultura.

Per molto tempo indiscussa, quest’idea si era tradotta nella convinzione, profondamente radicata e diffusa, di una superiorità dell’Occidente sull’Oriente, a dare un’idea della quale basterà citare una celebre affermazione di Shelley:

«Siamo tutti greci», scriveva orgogliosamente il poeta nella prefazione a Hellas (1821). E proseguiva: «Le nostre leggi, la nostra letteratura, la nostra religione, le nostre arti hanno le loro radici in Grecia. Se non fosse stato per la Grecia saremmo ancora selvaggi o idolatri. Peggio ancora, potremmo essere rimasti a uno stato così miserabile e

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estraneo alle istituzioni sociali come possono esserlo la Cina o il Giappone».

Mignoli sapeva perfettamente (di nuovo, la sua biblioteca lo dimostra) che già nel secondo millennio i greci intrattenevano con l’Est contatti che andavano al di là degli scambi commerciali. Nel 1947, un grande saggio di un allora giovane studioso, Santo Mazzarino, aveva cercato e individuato i modi della trasmissione culturale, individuando i luoghi d’incontro delle diverse culture (gli ittiti, i lici, i frigi, i cari) e le vie attraverso le quali si erano diffusi incontrandosi tra loro e con quella greca) i costumi, le tradizioni, le correnti artistiche, le idee religiose, le teorie scientifiche, le conoscenze tecniche... Il titolo del libro era Tra Oriente e Occidente. La cultura greca, insomma, non era un

“miracolo” che nulla doveva ad altre culture. Mignoli, molto interessato a questo discorso, condivideva le nuove ipotesi storiografiche.

Ma insisteva sul fatto, se la cultura greca non era autoctona, questo non significava necessariamente fosse arretrata come si era arrivati a descriverla con riferimento alla questione femminile. E a provarlo ricordava, giustamente, che le fonti greche conservavano traccia di altre poetesse, che avevano vissuto e agito, artisticamente, anche nei secoli della polis.

Le storie che più spesso ricordava erano quella di Mirtide che sarebbe stata che la maestra di Pindaro quella di un’altra allieva di Mirtide, Corinna di Tanagra, che avrebbe addirittura riportato ben cinque vittorie su Pindaro.

Ma sulle vittorie di Corinna su Pindaro gravano non pochi dubbi: anche se questa fu certamente poetessa di fama e di varia ispirazione, come mostrano i titoli di lei rimasti e alcuni versi conservati da alcuni papiri di Ossirinco, è proprio

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da un su frammento che possiamo dedurre che ella non sconfisse mai Pindaro (la sua maestra) in cui scrive:

E io biasimo anche l’armoniosa Mirtide perché, essendo donna,

venne con Pindaro a gara.

Apriamo un breve parentesi: anche se non è facile orientarsi all’interno di notizie così incerte e frammentarie, è difficile e non venire colpiti il biasimo per una donna che aveva osato gareggiare con un uomo, espresso da una donna come Corinna. Una conferma non da poco, si direbbe della condizione di subalternità delle donne greche e di come persino le più colte tra di esse avessero interiorizzato la subalternità del loro ruolo. Ma Mignoli, pur non negandolo, insisteva sulla sua tesi, ricordando altre donne che la confermavano. E su questo aveva certamente ragione:

queste donne esistevano.

Sempre nel V secolo, ad Argo era vissuta Telesilla, poetessa e guerriera protagonista di un singolare episodio, che l’avrebbe vista organizzare le donne della città per combattere contro Cleomene, re di Sparta. Celebrata dai suoi concittadini, che le eressero una statua, nella quale era raffigurata mentre, gettati i libri, calzava l’elmo per combattere, Telesilla compose opere prevalentemente legate al culto, di cui sono rimasti nove frammenti (forse parte di Inni ad Apollo e Artemide) ed è celebre, in particolare, per aver usato un verso (il gliconico acefalo) chiamato dagli alessandrini telesilleo.

A Sicione, vicino a Corinto, nella stessa epoca di Telesilla visse Prassilla, personaggio di rilievo nella sua città, ove, nel IV secolo, venne eretta in suo onore una statua di bronzo e autrice fra l’altro di un ditirambo Achille e di una

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composizione su Adone, di cui sono rimasti tre esametri, nei quali Adone, interrogato nell’Ade su che cosa ci sia di più bello al mondo, risponde nominando, oltre al sole e alla luna, alcuni frutti. Nel IV secolo, forse a Teno, visse Erinna, di cui restano circa sessanta versi del poemetto La conocchia, composto in occasione della morte di un’amica, e tre epigrammi nell’Antologia Palatina, uno dei quali scritto per Bauci:

O stele e sirene mie e urna luttuosa, e tu Ade che tieni la poca cenere,

a chi passa presso la mia tomba dite «salve», sia egli cittadino ovvero forestiero;

e che sposata appena mi ebbe la tomba, e ancor questo:

che Bauci mi chiamò il padre, che la mia stirpe è di Telos, affinché sappiano; e che a me la compagna

Erinna su la tomba quest’epigramma incise.

In epoca ellenistica, infine, ecco Anite di Tegea in Arcadia (cui i concittadini eressero una statua), chiamata, da Antipatro di Tessalonica, «Omero femmina», famosa per i suoi epigrammi paragonati da Meleagro a gigli purpurei, e in effetti autrice di versi delicatissimi, come quelli scritti per la piccola Mirò:

Al grillo, usignolo dei campi, e alla cicala amante degli alberi

comune tomba eresse la piccola Mirò, infantili lacrime versando: poi che inesorabile

Ade le portò via i suoi giochi.

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Infine ecco Nosside, vissuta alla fine del IV secolo a Locri Epizefiri, la città in cui le famiglie nobili, appartenenti alle Cento case, sembra si tramandassero il nome in linea femminile, come alcuni desumono dal fatto che Nosside ricordi il nome della madre, Teofili, e non quello del padre.

Di Nosside (che orgogliosamente si paragona a Saffo, rimangono dodici epigrammi, alcuni dei quali, dedicati ad argomenti letterari, non particolarmente felici. Ma Nosside, come dice Meleagro, che definisce le sue poesie «odoranti floridi giaggioli», cantava soprattutto l’amore, e un epigramma d’amore pervenuto, infatti, rivela una genuina e appassionata vena poetica, tutt’altro che letteraria:

Nulla è più dolce che amore: tutte le altre dolcezze vengono dopo: dalla bocca io sputo anche il miele.

Questo dice Nosside: ma colei, cui non baciò Cipride, ignora quali mai rose sono i suoi fiori.

Alla fine di tutte questi discorsi, Mignoli era soddisfatto. La sua tesi non era infondata: vi erano state donne (non molte, ma tutte significative) che erano riuscite a farsi spazio, a conquistare un posto di rilievo e ad assicurare così il loro nome alla storia, pur nel quadro di una società che tendeva a non dare ascolto alla loro voce. Che conclusione trarre da quel grande ripasso di cultura liceale (dei licei di altri tempi, peraltro)?

Su un unico punto non si poteva discutere: nessuna delle donne della cui attività culturale e letteraria è rimasta traccia proveniva dall’Attica. L’unica intellettuale (non poetessa, ma donna di eccezionale cultura) il cui nome è legato alla storia di Atene è Aspasia; ma Aspasia non era ateniese, proveniva dalla Ionia. Tutte le altre erano nate e

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avevano agito in zone diverse, nelle quali le condizioni di vita delle donne erano diverse da quelle delle ateniesi.

La conclusione fu salomonica: gli ateniesi erano misogini. Gli altri greci lo erano meno. O forse, diceva Mignoli – su questo punto quasi irriducibile – non lo erano affatto.

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SPUNTI DI RIFLESSIONE TRATTI DALLE LEZIONI DEL PROFESSORE

ARIBERTO MIGNOLI SULLA DISCIPLINA DELLE SOCIETÀ PER

AZIONI

Lucrezia Geraci

Sono profondamente onorata di rendere oggi omaggio ad Ariberto Mignoli e ringrazio coloro che mi hanno invitata e, in modo particolare, Sabina Mignoli.

Quando mi venne chiesto di prendere parte a questa celebrazione, dopo una iniziale titubanza, accettai con entusiasmo. La presenza di un consesso così prestigioso mi hanno peraltro suggerito – dopo aver individuato l’oggetto dell’intervento – un taglio non tanto tecnico quanto autobiografico.

Vorrei infatti tratteggiare, con alcune pennellate, il contenuto delle lezioni che il professore Ariberto Mignoli teneva al corso di «diritto commerciale progredito» presso l’Università Bocconi quando la frequentavo come studente.

Lezioni che, ancora prima dei suoi scritti, sono riuscite a suscitare in me, come certamente in moltissimi altri studenti iscritti, come me, a una Università dove all’epoca si studiava solo economia, curiosità dapprima, successivamente passione per il diritto delle società.

Molti dei presenti hanno avuto la fortuna di frequentare Ariberto Mignoli come amici, ovvero colleghi, ovvero ancora come clienti. Personalmente ho avuto il privilegio di seguire le sue lezioni, ed è di esse che voglio raccontarvi, dopo averne riletto gli appunti a distanza di oltre trent’anni.

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Di quelle lezioni mi sono rimasti impressi: il trasporto con cui Ariberto Mignoli commentava gli istituti del diritto; il sottile pensiero che lo portava ad una analisi prima ancora che giuridica, logica della norma, imbevuta dell’ineliminabile dato storico; l’importanza data alla singola parola, che per lui andava sempre «rispettata»8 perché «essa ha un lungo passato”9 e “nel tempo si è arricchita»10; la capacità di guardare oltre la specifica disposizione per coglierne le potenzialità evolutive nel tempo.

Insegnava che non sempre occorrono nuove leggi perché a volte basta reinterpretare con slancio istituti apparentemente sopiti, e trovare soluzioni nuove a situazioni in evoluzione. Del resto in quegli anni scriveva:

Bisogna lasciar parlare le cose stesse; lo spettatore deve essere portato sulla scena; gli si deve far conoscere il meccanismo dall’interno; fargli vedere come gli istituti si muovono, cambiano, assumono funzioni diverse da quelle che originariamente sembravano loro connaturali ed esclusive. È pieno di fascino scoprire erbe di cui si ignorava la virtù; seguire quello che la fantasia può produrre;

vedere come essa si muova liberamente, non sia mai ripetitiva, come talora, con felice incoscienza, sfiori gli abissi11.

E le sue lezioni erano ispirate e permeate da questo convincimento. In aula si presentava senza appunti, senza slide, senza documentazione di supporto. Solo il codice civile. Iniziava la lezione esaminando gli studenti; ne faceva l’appello riconoscendone, dopo le prime lezioni, i volti prima ancora del loro dichiararsi presenti – in effetti

8 A. Mignoli, La cultura del diritto civile, «Riv. Soc.», 1990, 512.

9 Ibidem.

10 Ibidem.

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aveva un’ottima memoria – ne scrutava le espressioni, sollecitandone poi, durante la lezione, le reazioni, quasi a voler far comprendere che l’esame cominciava in aula.

Poi apriva il codice e introduceva un argomento. Sia che commentasse un tema generale, o una specifica disposizione, immediatamente il discorso si allargava e l’orizzonte espositivo veniva dilatato, come si moltiplicano le immagini quando riflesse in specchi posti frontalmente.

Non si limitava mai a fornire il puntuale commento di singole norme: quello, semmai, arrivava dopo.

Cercava, anzitutto, i problemi che l’applicazione di un istituto o di una disposizione poneva e si soffermava poi, con ancora maggiore incisività, sulle situazioni, non espressamente disciplinate, che richiedevano un intervento interpretativo, a volte anche creativo, e – quando non ancorato a pronunzie giurisprudenziali, come spesso capitava, e continua a capitare, per il diritto delle società – coraggioso. Il messaggio era chiaro: nel diritto degli affari è la norma che deve adattarsi ai fatti, e non i fatti alla norma.

Per il suo corso non indicava un libro di testo. Semmai consigliava letture di approfondimento, anche di autori stranieri, su singoli temi societari, ma solo quelle che affrontavano questioni, – non inutili problemi da azzeccagarbugli – suggerendone soluzioni anche innovative. Non gli piacevano i commentatori astratti e

“sterili” o che non prendevano posizioni nette su una determinata tematica e quindi erano privi di “virilità”; era antidogmatico per eccellenza. L’esame verteva così sui contenuti delle sue lezioni, e chi non frequentava il corso non poteva certo trovare nei testi scritti il sapere che egli, attingendo da una cultura sterminata e, al tempo stesso,

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dalla vita degli affari, sceglieva – da demiurgo quale era – di trasmettere in aula.

Non sta a me ricordare la sua approfondita conoscenza, anche storica, dei diversi istituti – a partire dalla disciplina della East India Company inglese e, lui conoscitore della lingua olandese, della Compagnia olandese delle Indie orientali –; conoscenza che non gli derivava solo dagli studi giuridici, ma anche e soprattutto dalla sistematica lettura degli atti mercantili, poiché riteneva fondamentale documentarsi sulla concreta applicazione di un istituto.

Non a caso il titolo di uno dei suoi articoli pubblicato durante i miei anni universitari è Il giurista e il fatto12.

Ricordo che uno dei primi testi che mi fece leggere fu un

“Prospetto” per il collocamento di obbligazioni della fine dell’800. In quel documento di una pagina erano già racchiuse – e me lo fece notare – tutte le informazioni necessarie ai sottoscrittori. Nulla a che vedere con gli attuali prospetti informativi, inutilmente lunghi, che le disposizioni comunitarie, oggi direttamente applicabili, non hanno contribuito a migliorare, e sui cui criteri di redazione proprio lo scorso lunedì la Consob ha annunciato un generale ripensamento anche a livello europeo.

Faceva chiaramente comprendere che il contatto con la realtà era fondamentale.

E così, quando manifestai il mio interesse al diritto delle società mi disse: «deve assistere a un’assemblea per rendersi conto di cosa è davvero una società per azioni.

Ma le devo trovare l’assemblea giusta». Qualche tempo dopo mi comunicò che l’aveva trovata e mi fece partecipare all’assemblea della Montedison dopo la

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privatizzazione messa a punto nel 1980, che portò Schimberni alla guida del gruppo.

Fu un’occasione straordinaria, che mi consentì di comprendere il significato di ciò che Ariberto Mignoli intendeva quando asseriva che le società sono

“costellazioni”; che mi fece affacciare sul mondo reale di una grande impresa azionaria con interessi diversificati in tutto il mondo e toccare con mano lo sviluppo di un dibattito assembleare; e, non ultimo, conoscere i primi disturbatori d’assemblea. Mai avrei immaginato che, 15 anni dopo, avrei fatto parte del “pensatoio” delle assemblee di quella stessa Società.

Del resto negli anni successivi, in più di una occasione Ariberto Mignoli suggerì alla Consob di “vivere” le società e le loro assemblee invece di esaminarne gli atti in vitro, dietro le scrivanie, quasi si trattasse dello studio di una provetta, con il risultato che le richieste di integrazione di informativa formulate dall’Autorità di controllo in sede assembleare – a quel tempo ai sensi del previgente art. 3 lett. b) della legge 21613 – risultavano sovente decontestualizzate o intempestive.

Tutto questo mi tornò alla mente quando tre decenni più tardi, l’attuale presidente della Consob (Vegas) annunciò al mercato, in occasione della presentazione della Relazione relativa all’attività svolta dall’Istituto nell’anno 2010, «per la prima volta la Consob ha deciso di assistere alle assemblee delle principali società quotate al fine di verificare il regolare svolgimento dei lavori e le modalità di partecipazione realmente offerte agli azionisti di minoranza»14.

13 Legge 7 giugno 1974, n. 216.

14 Consob, Incontro annuale con il mercato finanziario - Discorso del Presidente Giuseppe Vegas, Milano, 9 maggio 2011.

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Durante le lezioni Ariberto Mignoli metteva lo stesso vigore sia nella trattazione dei grandi temi societari, sia dei piccoli problemi quotidiani che, scriveva in quegli stessi anni, “non sembrano degni di impegnare il pensiero e la penna del giurista”15. Problemi che poi piccoli non lo erano affatto.

Penso all’omessa lettura delle relazioni e del bilancio in assemblea, o alla presenza di estranei. A lezione citava provocatoriamente, quale esempio, chi porgeva il microfono all’azionista che voleva intervenire.

Quando introduceva la società per azioni lo sguardo diventava profondo e il pensiero andava lontano. Di essa, diceva che era la forma giuridica della grande impresa moderna aperta, e la contrapponeva alla società a responsabilità limitata da utilizzare, in principio, a suo avviso, nei casi di ridotto numero di soci statici o all’interno di un gruppo. Si doleva che in Italia la distinzione dei ruoli tra i due tipi societari fosse poco marcata e sottolineava l’inadeguatezza del numero e della disciplina della società a responsabilità limitata nella quale, leggo dagli appunti, “emergeva l’indecisione del legislatore, che aveva ritenuto di costruire questo tipo di società a immagine della società per azioni, amputandola di alcune potenzialità (quella, ad esempio, di emettere obbligazioni)”. Anticipava che “prima o poi occorrerà un intervento che porti a differenziare il ruolo della società per azioni (in quanto aperta al pubblico) e quello della società a responsabilità limitata (in quanto di tipo chiuso), e che il legislatore riveda le rispettive discipline alla luce di queste diverse vocazioni”. E citava la Francia e la Germania, che erano avanti a noi perché si erano già mosse in tal senso.

15 A. Mignoli, Piccoli problemi: I. Omessa lettura della relazione e del bilancio, «Riv.

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Come noto, occorrerà attendere la riforma societaria del 2004 perché questo auspicio si trasformasse in intervento legislativo.

Un altro argomento che esponeva con trasporto erano gli statuti, “la legge interna della società”.

Ci spiegava come si dovesse leggere, e prima ancora redigere uno statuto, e ci suggeriva di interrogarci su quale fosse lo scopo di esso e quali interessi dovesse comporre, di cosa cercare o non cercare in uno statuto.

Criticava la redazione di taluni statuti. Vi erano regole fondamentali da non disattendere, prima di tutte – ma il suggerimento poteva valere, e vale tuttora, anche per la redazione di qualunque altro atto giuridico, comprese le norme di legge: quella di usare le stesse parole per dire le stesse cose; di utilizzare, fin dove possibile, il linguaggio adottato dal legislatore; di essere molto precisi nella descrizione, ma di eliminare le parole e gli avverbi inutili; e di non ripetere ciò che già dice la legge.

Indicazioni centellinate da un estimatore dell’essenzialità della Poesia.

Rievoco questi consigli quando mi capita di leggere statuti e contratti di decine e decine di pagine, redatti alla

“maniera anglosassone”, che addirittura contemplano la definizione di “codice civile”.

Spiegava poi che introdurre nello statuto di una società per azioni il principio della unanimità per l’adozione delle deliberazioni significava stravolgerne la disciplina perché

«l’unanimità non è una maggioranza rafforzata».

La clausola nevralgica, a cui dedicava un’attenzione particolare, era quella dell’oggetto sociale; tema che

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affrontava in modo “trasversale”, sottolineandone la differenza rispetto allo scopo sociale, e evocando ogni norma del codice che ad esso faceva riferimento. Ne commentava poi i collegamenti e le implicazioni.

Il passaggio a esaminare il «diritto di recesso» in caso di mutamento dell’oggetto sociale diventava così naturale.

E qui le domande cadevano a pioggia: che cosa significasse “mutamento dell’oggetto sociale”; se occorresse considerare l’oggetto sociale statutario o l’attività effettivamente esercitata; se ogni mutamento formale o letterale della descrizione dell’oggetto fosse una modifica di esso; e, ancora, quando l’assunzione di partecipazioni potesse avere rilevanza rispetto al cambiamento dell’oggetto sociale.

La riforma del 2004 risolse alcune delle questioni da lui evocate, laddove oggi riconosce il diritto di recesso se «la modifica della clausola dell’oggetto sociale consente un cambiamento significativo».

Anche il tema del consiglio di amministrazione lo infervorava. Sottolineava la scheletricità delle norme relative alla convocazione, al suo funzionamento e alla organizzazione, e suggeriva di colmare questo spazio

“organizzativo” con specifiche disposizioni statutarie.

Quando poi passava a trattare la questione del conflitto di interesse, con riguardo, soprattutto, agli amministratori eletti dal socio “sul ponte di comando”, o il tema dei rapporti tra amministratori esecutivi, e non esecutivi, e dei limitati mezzi a disposizione di questi ultimi per essere informati sui fatti di gestione e, quindi, per eventualmente manifestare il loro dissenso, il discorso si faceva addirittura appassionante.

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Erano, a ben vedere, i primi insegnamenti sulla Corporate Governance.

Le sue lezioni in materia di categorie di azioni, di pregiudizio della categoria e di capitale sociale (anzi

“capitale”, perché aggiungere l’aggettivo “sociale” era inutile; capitale da non utilizzare, come nell’art. 2.446 del codice civile, quale sinonimo di patrimonio) erano magistrali, e avevano la creatività e la imprevedibilità di una sinfonia di Mozart, compositore che peraltro prediligeva.

Lì metteva in evidenza un incredibile acume giuridico e una raffinata sottigliezza del ragionamento. E così, quando, verso la fine del corso, assegnò, ad ogni studente, un articolo della legge 216 da commentare (la legge istitutiva della Consob, che differenziò la disciplina della società quotata da quella non quotata), e mi attribuì, d’imperio, come a volte era avvezzo fare, l’art.

2.441 del codice civile riformato, appunto, dall’art. 13 della legge 216 (diritto di opzione), non potei rifiutarmi. Mi disse:

è l’articolo più interessante di tutta la riforma. E anche uno dei più difficili da commentare.

Aveva ragione e, come sempre, aveva visto lontano.

Quegli iniziali approfondimenti furono decisivi per la mia vita professionale, prima in Consob e più avanti in Montedison ed Edison, dove mi sono confrontata con complicate operazioni di fusioni tra società quotate, aumenti di capitale con sovrapprezzo e copertura perdite attraverso riduzioni del capitale e raggruppamenti azionari in presenza, anche, di azioni di risparmio.

Ma accanto alle grandi questioni, faceva capire, da giurista pragmatico quale era, che andavano considerati

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