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L’ascolto

Nel documento PARTE Prima INTRODUZIONE INDICE (pagine 163-167)

8. Professionisti a confronto

8.2. L’analisi

8.2.2. L’ascolto

L’ascolto nell’attività di consulenza è fondamentale, nel senso etimologico del termine, cioè che ne costituisce il fondamento, la base, il sostegno. Nel Paragrafo 5.3 abbiamo definito l’ascolto la bussola del consulente, e difatti esso rappresenta lo strumento principale che il consulente utilizza per orientarsi nelle varie fasi della consulenza. Pur qualificando l’intero processo, si rende esplicito in alcuni momenti caratterizzanti, tipo i momenti di definizione, di revisione, di approfondimento, ma diventa protagonista indiscusso nei primissimi incontri di “conoscenza”: dal saper ascoltare e dal saper bene ascoltare dipende gran parte del buon esito della consulenza.

164 Tutti i professionisti intervistati hanno sottolineato l’importanza dell’ascolto iniziale, conferendogli una sorta di “egemonia” all’interno del processo. Come già affermato più volte, per ascolto non si intende semplicemente lo stare a sentire, ma indica un continuo essere proteso verso; è una modalità che coinvolge attivamente tutta la persona del consulente e che richiede sforzo ed energia, nonché impegno per resistere ai vari disturbi e interferenze.

«Ormai la parola “ascolto” nel mondo della consulenza è abusata. […] L’ascolto strutturato è un’ingegnerizzazione del processo, cioè trovare degli strumenti che profilino al meglio l’interlocutore e che siano strumenti appunto “metodologici”, cioè cercare di avere delle griglie di ascolto dove vai a profilare le richieste, le istanze, le domande, in modo tale da costruire un quadro molto più preciso, per poi andare a lavorare sulle risposte»182,

quindi altro che semplice stare a sentire passivamente. Si tratta di un ascolto

attivo.

Solitamente si inizia col lasciare voce al cliente, lo si fa parlare e raccontare della sua azienda e della sua storia. Poi si interviene con domande o commenti per cercare di andare più in profondità a quello che sta dicendo. Possiamo immaginare questo primo incontro come formato da diversi strati. Inizialmente il consulente arriva con delle informazioni generali che possiede sul cliente, avute tramite ricerche varie sui siti o come passaparola (senza però lasciarsi prendere da pregiudizi o stereotipi). Incrementa poi queste informazioni con la storia che il cliente racconta, inquadrandola nel contesto di quel momento, quindi considerando anche i segnali che provengono dalla comunicazione verbale e analogica. Successivamente il consulente interviene con domande e commenti, soffermandosi sui punti che ritiene maggiormente importanti o che non ha ben chiari o che non riesce a ben collegare tra loro, e così via. Anche perché, come Paolo Volpe spiega183, anche il cliente è costituito da strati, e non dice subito e chiaramente quello che al consulente serve, ma per esempio si racconta

182 S. Vazzoler, vedi Appendice, Allegato 4, Domanda 5.

165 come vorrebbe essere, come pensa che sia, che cosa ha fatto, magari si sofferma solo sui suoi aspetti positivi, etc., quindi il consulente da parte sua, piano piano deve stuzzicarlo, demolendo i modelli che il cliente si è costruito di se stesso per arrivare a capire qual è la realtà.

Il cliente, infatti, si descrive dal proprio punto di vista, da come egli stesso vede la sua realtà. Ma come abbiamo avuto modo di approfondire precedentemente, non esiste una realtà, bensì varie percezioni della stessa realtà. L’obiettivo del consulente in questa fase diventa, dunque, quello di capire come il suo cliente descrive il proprio mondo, perché «se non lo descrivo come lui, se non faccio la fatica fisica di spostarmi per vedere come gli altri vedono il mondo»184 non si riuscirà mai ad entrare in empatia. Il cliente sostanzialmente tende a descriversi come vuole apparire agli occhi del consulente, quindi quest’ultimo è quasi obbligato ad indagare a fondo (e in questa fase viene utile la ricerca attiva analizzata in 5.2.) per avere un quadro quanto più completo possibile fin dal primo incontro, e iniziare così a lavorarci su ipotizzando vari percorsi di proseguimento.

In questa fase d’ascolto la parola chiave del consulente è concentrazione, sia nei propri confronti, nel senso che non può concedersi distrazioni o poca attenzione per quello che sta facendo; sia nei confronti del cliente, nel catturare e tenere alto il suo interesse per l’incontro. Tra gli esperti che ho intervistato, infatti, tutti hanno sottolineato proprio quest’aspetto: l’ascolto abbraccia uno stadio talmente sensibile della consulenza che non è così difficile defocalizzare l’attenzione, e diventa quindi importante rimanere concentrati.

Molto dipende dai clienti: ci sono, infatti, clienti che seguono passo per passo il lavoro del consulente, quello che fa o dice, sono attenti, spengono il cellulare, dicono alla segretaria di non essere disturbati, etc., e da questi segnali si capisce quanto ci tengano a risolvere la situazione in cui si trovano. Questi sono i clienti migliori…ma in realtà sono molto pochi.

Ci sono, invece, quei clienti che stanno lì, ascoltano il consulente, ma giocherellano con qualcosa, guardano il cellulare, si distraggono facilmente, o più in

166 generale diciamo che sono visibilmente poco interessati all’incontro. Compito del consulente in questo caso è aumentare il loro interesse. O meglio, se i clienti primari coincidono con i clienti di contatto, e quindi chi il consulente ha davanti è colui che possiede il problema e coincide con chi lo ha chiamato per chiedere aiuto, e questi è disinteressato, allora il consulente ci mette poco ad alzarsi e andare via (anche se a volte questo disinteresse è dato dalla sottovalutazione della comunicazione e in questo caso è bene che il consulente intervenga a riguardo). Se, invece, il consulente si trova in un incontro con clienti intermediari o primari ma che non coincidono con chi ha contattato inizialmente il consulente, quindi si trovano lì per imposizione o per necessità, allora il consulente deve cercare di focalizzare e mantenere la loro attenzione. Come?

Sicuramente evitando di dirlo esplicitamente al primo incontro, nel senso che fattori di disturbo sono molto comuni e frequenti, un esempio banale il cellulare, ma al primo incontro la confidenza tra consulente e cliente non è tale da dirgli direttamente “Spegni il cellulare!”, magari negli incontri successivi, quando si instaura un certo rapporto allora ci si può anche permettere di farglielo capire in modo più aperto.

Si cerca allora di catturare il cliente, tramite ad esempio immagini visive, schematizzando cioè su una lavagna a fogli mobili o più semplicemente su un foglio di carta, i vari temi che si trattano man mano, di modo che la «visualizzazione “risvegli” l’attenzione e tu poni il cliente davanti a uno schema che può aiutare la discussione»185, in altre parole dando al cliente qualcosa su cui fermare gli occhi lo si aiuta a non perdersi a guardare altrove.

Oppure si può intervenire pizzicando delle corde a cui il cliente è particolarmente sensibile, cercando di «scansionare tutto quello che hanno, tutto quello che c’è, tutto quello che gli piace»186, capire cioè le loro passioni e i loro gusti e, facendo leva su questi, catturare il loro interesse, anche attraverso per esempio la

narrazione e le metafore, il ragionare per immagini o per case history.

185 L. Pontarelli, vedi Appendice, Allegato 8, Domanda 5.

167 E soprattutto, bisogna trasmettergli l’unicità: il cliente in quel momento deve sentirsi l’unico per il consulente, deve percepirsi come il solo, e non come uno dei tanti.

«E questo vale per tutta la consulenza, i clienti sono convinti di aver comprato il tuo tempo in maniera esclusiva. Il consulente dev’essere bravo a imbastire la sua agenda sulla base delle richieste dei clienti complessivi, non sulla base di un singolo cliente, pur facendo passare quel cliente come se fosse l’unico: questo è ciò che fa la differenza»187.

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