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Il cambiamento

Nel documento PARTE Prima INTRODUZIONE INDICE (pagine 167-172)

8. Professionisti a confronto

8.2. L’analisi

8.2.3. Il cambiamento

Il cambiamento, secondo Invernizzi, «è un processo complesso che va conosciuto da parte del professionista al fine di supportarlo aiutando il cliente a farsene carico e a gestirlo»188. Tale complessità è data dal fatto che a cambiare devono essere prima di tutto le persone, ed è molto difficile abbandonare concezioni e schemi mentali che si usano abitualmente, e a volte anche inconsapevolmente, per utilizzarne di nuovi. Questo avviene un po’ appunto per abitudine (“Abbiamo sempre fatto così”, “Sono fatto così”), un po’ per il timore di vedere la propria immagine sminuita o indebolita (immagine che magari si è costruita con tanta fatica), un po’ perché non si sa che cosa il cambiamento ci porti. C’è un detto che mi ripeteva sempre mia nonna quando ero piccola e cercavo di “violare” gli spazi domestici aprendo porte chiuse o saltando cancelli: “Ci ‘llassa a via vecchia pe la nova, sape ci ‘llassa ma nu sape ci trova”189, come a dire accontentati di quello che hai e vedi e non cercare di andare oltre, magari mettendoti in pericolo. Ed è così: il futuro fa sempre un po’ di paura perché porta con sé l’incognita del non sapere, e per come è fatto l’essere umano, non potendo accettare di non controllare qualcosa, preferisce restare fermo e guardare.

187 F. Ventoruzzo, vedi Appendice, Allegato 2, Domanda 5.

188 E. INVERNIZZI (a cura di), Relazioni Pubbliche, 2. le competenze e i servizi specializzati, McGraw-Hill, Milano, 2002, pag. 38.

189 “Chi lascia la strada vecchia per la nuova, sa quel che lascia ma non sa quel che trova”, in dialetto salentino.

168 Fortunatamente il nostro Schein aveva ben chiara questa paura e difatti sottolinea che il cambiamento è il

«far sì che il cliente veda e agisca in modo diverso, ma senza sminuirne le attuali concezioni. A tal fine, il cliente deve scartare dalla propria struttura mentale vecchi concetti e comportamenti senza sminuire la propria immagine»190.

E il consulente si fa compagno anche in questa occasione.

Tutti i professionisti con cui mi sono confrontata per questo studio considerano il cambiamento come qualcosa di costantemente in atto, come il flusso d’acqua di un fiume che si rinnova continuamente e trasporta tutto quello con cui viene a contatto. Quasi sempre è sinonimo di innovazione e di positività, soprattutto se lo si sceglie, perché rappresenta l’integrazione e l’evoluzione: non si tratta di rinnegare il passato o quello che si era, ma di evolversi, acquisendo per esempio nuove conoscenze, maggiori esperienze, situazioni diverse191, che portano inevitabilmente a pensare in maniera diversa, è impossibile non farlo. Al contrario può diventare dannoso quando lo si subisce, perché magari arriva in modo inaspettato e imprevisto, e non si è pronti ad affrontarlo o non si è capaci di governarlo.

Molto spesso l’azienda non si sente pronta per fare un cambiamento, perché lo vive in maniera non positiva, soprattutto se viene gestito o affidato all’esterno. Per questo il consulente deve «lavorare sulla partecipazione, sulla positività, sul dialogo, sull’ascolto, tutti temi che aiutano a creare una maggiore partecipazione da parte del pubblico interno e quindi a entrare in una dinamica non calata dall’alto»192 ma sviluppata e alimentata all’interno dell’azienda stessa, e quindi accettata.

È anche vero che, come suggerisce Romina Noris, è importante ai nostri giorni che l’azienda sia flessibile e disponibile,

190 E. H. Schein. Lezioni di consulenza, cit., pag. 106.

191 M. La Caria, vedi Appendice, Allegato 1, Domanda 7.

169

«sempre più veloce nei cambiamenti o aperta a nuovi input, questo è vitale per l’azienda. Se diventa troppo statica o troppo ancorata a quello che sono i comportamenti, i concetti, l’impostazione, cose che comunque negli anni hanno dato successo all’azienda, rischia di spezzarsi»193.

Diventa importante a questo proposito che anche le persone all’interno dell’azienda siano più flessibili, in continua innovazione professionale e in linea con lo sviluppo dell’azienda stessa. Perché il mondo fuori cambia, lo scenario cambia, il contesto cambia, e se l’azienda non riesce a seguire almeno a grandi linee questa evoluzione, si troverà ad affrontare difficoltà ancora maggiori quando meno se lo aspetta.

Detto questo, tutti sono però concordi nell’affermare che non è bene forzare le aziende, perché i clienti devono «necessariamente camminare col passo giusto per loro […], anche quando c’è necessità di cambiamento»194, e addirittura secondo Fabio Ventoruzzo (che per diversi anni si è occupato di gestione del cambiamento presso Methodos) non bisogna forzare il cambiamento nemmeno se è il cliente stesso a richiedertelo, se non esiste la motivazione al cambiamento dall’intera azienda, quello che si andrà a fare sarà solo un autogoal195. Non li si aiuta calandogli un cambiamento dall’alto, «è meglio aiutare l’azienda nel cambiamento attraverso la consapevolezza del cambiamento stesso: io li accompagno non li precedo, non li spingo gli sto affianco»196.

Ogni cambiamento dev’essere in linea con l’impresa, dev’essere accettato, misurabile e rivolto sempre in avanti. E Sergio Vazzoler aggiunge che il consulente ha molta responsabilità sotto questo punto di vista, perché è chiamato a capire le varie caratteristiche che ogni azienda ha, quali organizzazioni sono pronte e quali no (perché se non sono pronte si porterà solo danno) e quindi dev’essere particolarmente bravo a

193 R. Noris, vedi Appendice, Allegato 7, Domanda 7.

194 G. Landolfi, vedi Appendice, Allegato 5, Domanda 7.

195 F. Ventoruzzo, vedi Appendice, Allegato 2, Domanda 7.

170 calarsi in quella specifica realtà aziendale ed «essere rispettoso di certe resistenze, di certe paure, di certi limiti e lavorare proprio su quello progressivamente»197.

Infatti, è proprio l’accettazione del cambiamento da parte della realtà aziendale che presenta le maggiori ostilità, la cosiddetta cultura aziendale, fatta di concetti, schemi mentali, idee, convinzioni, talora giochi di potere, che a volte sono talmente ancorati da essere difficili da smuovere. Si preferisce mantenere lo status quo, che in ogni caso garantisce una certa stabilità, salvo poi trovarsi improvvisamente di fronte a un cambiamento che non si può evitare e lì allora sarà indispensabile rivolgersi a un professionista tanto bravo da fronteggiare la situazione di crisi, ma che comunque richiederà tempi estremamente lunghi, e quindi maggiori risorse, maggiore impiego, maggiore convinzione. Per questo conviene sempre che l’azienda accetti un percorso progressivo, magari a piccoli passi ma in modo continuativo, per non trovarsi di fronte ad una montagna senza corda e senza chiodi e senza sapere da che parte iniziare a scalare, ma poco per volta intraprendere il sentiero che porta in vetta e, una curva dopo l’altra, raggiungere l’obiettivo.

Penso possiamo utilizzare come parole chiavi del cambiamento

consapevolezza, accettazione e chiarezza di quello che si è, che si è stati e che si

punta ad essere. Sembra un pensiero scontato ma in realtà non lo è: è necessario che l’organizzazione conosca appieno tutti i suoi settori, con le sue potenzialità e i suoi limiti, nonché con le sue aree a rischio, e accetti tutti questi fenomeni, senza nascondere quello che non le piace. Perché l’azienda è giunta ad essere quella che è, non solo grazie a tutti gli interventi positivi o i valori belli che ha, ma anche grazie a tutti quegli intoppi, errori o problemi che si è trovata ad affrontare, magari uscendone rinforzata su alcuni aspetti.

La figura del consulente è fondamentale in questa fase. Essendo professionalmente obiettiva, e molto spesso esterna all’azienda, riesce a identificare con maggiore facilità le varie componenti dell’identità dei clienti, aiutandoli a guardarsi con occhi differenti. È necessario che si abbiano ben chiari, per esempio, i punti di forza e i punti di debolezza, i primi per essere potenziati quindi per passare

171 dalla qualità all’eccellenza198, i secondi per essere migliorati quindi da una parte per evitare problematiche che si possono presentare (o ri-presentare) e dall’altra farli diventare punti di forza.

La prima cosa che il consulente deve fare è «capire bene il sistema cliente, quindi chi si occupa di cosa, chi dipende da chi e tu con chi hai a che fare»199, il consulente deve essere il primo ad aver ben chiara la realtà aziendale, per poi intervenire in essa direttamente dall’interno, anche portando il proprio valore, farsi riconoscere cioè come uno di loro e costruendo così la fiducia. Il consulente non può inventarsi niente, non è il Genio della lampada che esaudisce i tre desideri, al massimo come la Fata Smemorina può anche trasformarla in una ricca e perfetta organizzazione, ma l’incantesimo durerà fino a mezzanotte, non si può far apparire l’azienda diversa da quella che è, perché prima o poi la copertura crollerà, «dobbiamo fare cena con quello che c’è in frigo: è inutile che cerchiamo di fare nouvelle cuisine se abbiamo passata di pomodori»200. Quello che il consulente può fare invece (e deve fare) è lavorare su quello che il cliente ha e su quello che il cliente è.

Come fare? Sicuramente evidenziando all’azienda in maniera chiara la sua stessa identità, facendola camminare con i piedi per terra abbassando eventuali aspettative molto alte e concentrandosi già dalle prime fasi sui punti di forza e di debolezza, e stando attenti a non accelerare i tempi partendo per esempio direttamente dagli strumenti, perché in quest’ultimo caso si può anche essere fortunati e riuscire a raggiungere il risultato ma non è detto che si è intervenuti direttamente alla sorgente. Quindi con ordine identificare i punti, definire la strategia e poi a cascata usciranno gli strumenti adatti.

Il consulente potrebbe sottolineare (senza esagerare) i punti di forza e le capacità dei clienti, perché sono umani, con una loro suscettibilità201, ed è bello che si gratifichino sentendosi dire “Bravi!”, è anche una motivazione per loro per andare avanti; ma parallelamente il consulente deve far emergere i punti di debolezza per far

198 M. La Caria, vedi Appendice, Allegato 1, Domanda 8.

199 F. Ventoruzzo, vedi Appendice, Allegato 2, Domanda 8.

200 M. Rodriguez, vedi Appendice, Allegato 6, Domanda 8.

172 capire come debbano essere affrontati, evitando però di dire “Siete scarsi!”, ma magari proponendo già dei percorsi di miglioramento specifici per quei punti.

«Ecco una cosa importante: lavorare per immagini! E dare visibilità è la massima chiarezza per loro, perché se loro vedono dove arrivano e tu hai la chiarezza di portarli dove loro possono arrivare, là rafforzi anche il tema della fiducia»202.

Nel documento PARTE Prima INTRODUZIONE INDICE (pagine 167-172)