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Aspetti dell’architettura in Romagna nel Quattrocento: tra tradizione medievale e innovazione antiquaria

Analizzando anche superficialmente lo sviluppo dell’architettura romagnola nel Rinascimento, si può notare la notevole importanza che rivestono nel contesto regionale le opere di carattere urbano e architettonico promosse da Carlo e Federico Manfredi.

Come si è visto nel precedente paragrafo, la frammentazione politica della regione genera un fenomeno artistico non unitario, nutrito da molteplici influssi provenienti dai maggiori centri culturali confinanti, Firenze, Ferrara, Urbino e più tardi Milano e Roma. La Romagna sconta anche un certo ritardo nell’aggiornamento culturale, se la si pone a confronto con la vicina Firenze. In effetti, a parte alcune (pur considerevolissime) eccezioni che si vedranno più avanti, un linguaggio compiutamente all’antica sembra essere introdotto in Romagna in maniera pervasiva solo a partire anni ’80 del secolo, con il caso del rinnovamento urbano di Imola, che riguarda numerose architetture civili, private e ecclesiastiche. In effetti, anche operazioni analoghe a quelle faentine, come i loggiati delle piazze 4 Sulla politica sforzesca in Romagna, cfr. Duranti 2007, pp. xxiv-cxxviii.

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di Forlì e Ravenna, mostrano un linguaggio ancora tardo-gotico. Non è un caso che il rinnovamento imolese tragga linfa da un signore di origine ‘forestiera’, Girolamo Riario, e soprattutto dotato di notevoli capacità finanziarie, al contrario dei suoi omologhi romagnoli di origine locale. L’esempio imolese è presto imitato a Forlì, parte dello stato riaresco. Ancora più tardi, e tutto sommato parte di un contesto politico e culturale completamente mutato, sono altri notevoli esempi di architettura rinascimentale, come la Loggetta Lombardesca di Ravenna (1503- 1518), o il tempietto di S. Antonio di Padova di Rimini (1518).

Le eccezioni cui si è fatto cenno sono oggetti architettonici parzialmente estranei al contesto culturale romagnolo, dove fino agli anni ’60-’70 del Quattrocento continuano a rimanere largamente usuali modi costruttivi e forme architettoniche di carattere tardo-gotico.5 Il primo caso è quello del Tempio Malatestiano di

Rimini (fig. 1), architettura fondante per la riflessione antiquaria degli architetti- umanisti del Quattrocento, e fabbrica inimitata nell’ambito regionale non solo per l’irripetibile responsabilità progettuale di Leon Battista Alberti, ma anche per le cospicue risorse (non solo economiche, ma anche di stabilità istituzionale e politica) che un simile cantiere mostrò ben presto di richiedere, pena il non completamento 5 Significativo, a questo proposito, il fatto che la cappella finanziata dagli Sforza a Cotignola sia un edificio semplicissimo e del tutto alieno da elementi decorativi anticheggianti, come forse ci si sarebbe potuto aspettare da una committenza così prestigiosa. Documenti inediti indicano che la cappella era in costruzione nel 1477, cfr. ASMi, Carteggio Visconteo Sforzesco, Potenze estere, Romagna, 1477, maggio 3 e 1477, luglio 25. Per inciso, il ritrovamento di questi documenti chiarisce definitivamente che la cappella era già costruita da qualche anno quando furono eseguiti gli affreschi degli Zaganelli e di Gerolamo Marchesi (1495-99).

1. Rimini, Tempio Malatestiano, facciata.

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dello stesso.6

Altra fabbrica di notevole interesse, e a tutt’oggi non pienamente indagata né nelle sue implicazioni linguistiche né nella sua vicenda storica, è la chiesa di S. Maria delle Grazie di Fornò, nei pressi di Forlì.7 La chiesa, costruita in due fasi (la facies attuale risalirebbe agli anni ’60 del Quattrocento),8 mostra una singolarissima

(e unica a quelle date in Italia) pianta circolare con sacello centrale circondato da deambulatorio (figg. 2-3). Tale schema planimetrico (unitamente al vestibolo d’accesso, con le pareti divergenti e radiali secondo l’impostazione centrica del vano principale) rimanda in maniera piuttosto calzante alla chiesa romana di S. Stefano Rotondo (v sec. d. C.), oggetto nel 1453 di un rinnovamento a opera di Bernardo Rossellino, su probabile influsso albertiano.9 Non casuale pare il fatto che la chiesa

di Fornò, nella sua configurazione finale, mostri lo stesso impianto planimetrico del S. Stefano Rotondo rinnovato con la perdita del secondo deambulatorio; si potrebbe ipotizzare una paternità progettuale, per Fornò, di Rossellino, forse 6 Per una trattazione aggiornata sul Tempio Malatestiano, cfr. Calzona 2006, pp. 72-74; Turchini 2006; Fiore 2006.

7 Per una trattazione sintetica ma completa su questa chiesa, cfr. Gori 1994c.

8 Ma alcune evidenze di fabbrica sembrerebbero posticipare la costruzione del muro perimetrale circolare ai primi anni del Cinquecento, cfr. Gori 1994c, p. 315. Non è però chiaro se in tali date si sia operata una semplice ricostruzione di parti della chiesa per ragioni di dissesti strutturali, oppure se effettivamente il muro perimetrale sia stato costruito ex novo in quegli anni.

9 Questa somiglianza è già stata notata da Canali e Gori, cfr. Canali 1994, p. 158; cfr. Gori 1994a, p. 205.

2. Forlì, Santa Maria delle Grazie di Fornò, pianta. 3. Forlì, Santa Maria delle Grazie di Fornò, prospetto laterale e sezione longitudinale.

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anche in questo caso con a monte un pensiero di Alberti.10 A questo proposito,

non va dimenticata la presenza di Alberti in Romagna per il cantiere riminese né quella di Antonio Rossellino, fratello di Bernardo, a Forlì per la realizzazione dell’arca del Beato Marcolino (1458). Inoltre, a ulteriore parallelo con il cantiere albertiano di Rimini, si ricorda che l’apparato scultoreo della chiesa di Fornò (una statua della Madonna, due acquasantiere, un bassorilievo con la Trinità) è opera di Agostino di Duccio, presente negli stessi anni nel cantiere riminese. Ogni ipotesi in questo senso andrebbe comunque vagliata meglio alla luce della documentazione archivistica (purtroppo scarsa quella reperita finora). Resta indubbia in ogni caso la straordinarietà della chiesa di Fornò, che, come nel caso riminese, rimase un

unicum nel contesto romagnolo.11

Ultimo esempio architettonico databile alla metà del secolo è la Biblioteca Malatestiana di Cesena, voluta dal signore locale Domenico Malatesta Novello e costruita su progetto di Matteo Nuti tra il 1447 e il 1452. La biblioteca è la prima a seguire il modello michelozziano di quella di S. Marco a Firenze, e inaugura il filone delle biblioteche monastiche a tre navate su colonne (fig. 4). In ogni caso, quest’architettura, intima e completamente racchiusa all’interno delle mura del convento di S. Francesco, rimane un esempio isolato nello sviluppo architettonico della Romagna del Quattrocento. La sua carica innovativa si sviluppa tutta all’interno, con l’impianto tipologico a tre navate e i capitelli che – pur nell’ingenuità della mano di scalpellini non aggiornati – si sforzano di assumere un linguaggio

10 Ulteriori ipotesi di un parallelo tra la chiesa forlivese e quella romana possono essere fatte in relazione alla sua committenza. Certamente la costruzione fu patrocinata da Pino iii Ordelaffi, signore di Forlì, ma il primo promotore fu l’eremita Pietro Bianco da Durazzo, figura a tutt’oggi poco chiara di eremita giunto attraverso l’Adriatico dalla penisola Balcanica (cfr. Bernardi 1895, pp. 13-16). L’abito bianco portato da Pietro da Durazzo potrebbe rimandare all’abito bianco indossato dai monaci Paolini, eremiti originari dell’Ungheria, ben presenti nei Balcani e rettori nel Quattrocento proprio della chiesa romana di S. Stefano Rotondo? Questi monaci avevano del resto già fatto una fugace apparizione in Romagna nel 1402, quando Carlo Malatesta affidò loro i monasteri di S. Maria di Scolca, S. Gregorio in Conca, S. Lorenzo in Monte, S. Maria di Donegaglia e i beni dell’Ospedale del Santo Sepolcro (nell’entroterra riminese), da loro lasciati però già nel 1421, al loro improvviso ritorno in Ungheria.

11 In effetti, pare poco opportuno accomunare questa chiesa ad altre chiese a pianta centrale, ma di tipo più comune, come S. Stefano Vetere di Faenza (su base ottagona) e l’oratorio di S. Sebastiano di Forlì (su base quadrata), cfr. Pagano 1996. Su quest’ultima interessante architettura di Pace di Maso del Bambase, cfr. Gori 1994b.

4. Cesena, Biblioteca Malatestiana, interno. 5. Cesena, Biblioteca Malatestiana, esterno.

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antiquario.12 All’esterno, invece, il corpo della biblioteca è completamente anonimo

e risolto con un paramento murario in mattoni, piccole finestre ad arco e una cornice in cotto del classico tipo padano a peducci e archetti decorati da conchiglie (fig. 5).

Come si inserisce il caso faentino nel quadro succintamente delineato? La datazione degli interventi di Carlo e Federico Manfredi (1469-1478), sia in campo urbano (ampliamento della piazza, rettificazione delle strade principali, demolizione dei portici medievali), sia in campo architettonico (loggiato del palazzo Manfrediano, Cattedrale) si situa in un decennio intermedio tra quelli delle magistrali architetture degli anni ’50 e ’60 – pionieristiche in Romagna (e non solo) ma senza seguito immediato, probabilmente per la loro dirompente carica innovativa – e quelli della definitiva affermazione in regione del linguaggio rinascimentale (anni ’80 e ’90). Purtroppo le numerose trasformazioni del volto urbano di Faenza avvenute dal Settecento al Novecento impediscono di valutare appieno la portata dell’opera rinnovatrice dei fratelli Manfredi sull’intero tessuto urbano. Ma i loggiati e soprattutto la Cattedrale restano a testimonianza di un intervento sostanzialmente palingenetico (perlomeno nelle ambizioni) dell’aspetto medievale della piazza, dunque qualcosa di ben diverso rispetto alle architetture isolate di Rimini, Forlì e Cesena. Perché questa differenza anche ‘quantitativa’ del programma urbano faentino rispetto agli altri casi citati? Probabilmente gli interventi faentini furono ben assimilati nel tessuto urbano anche per via di un carattere innovativo più modesto rispetto al modello albertiano di Rimini. In effetti, l’architettura maianesca affonda le sue radici nel contesto medievale toscano e in una moderata evoluzione del magistero brunelleschiano: una sapienza progettuale che non nasce da un processo intellettuale ma da un approccio artigianale all’architettura, differenziandosi in ciò dalle premesse metodologiche e culturali del cantiere del Tempio Malatestiano. Dunque, a Faenza si riesce a dare il via a un grande processo di riforma urbana non solo grazie alla strenua volontà dei due promotori di questo intervento, ma forse anche per via dell’uso di forme architettoniche non del tutto estranee al contesto culturale locale e facilmente assimilabili (pur dopo un’iniziale malcontento, dovuto più che altro ai prelievi fiscali imposti per la realizzazione di queste opere) dalle élites e dagli artigiani locali chiamati a collaborare con il fiorentino Giuliano da Maiano. I capitoli di approfondimento sulla piazza e sulla Cattedrale serviranno anche a valutare più approfonditamente quest’ipotesi.

12 Per inciso, alla Biblioteca Malatestiana si conservano anche sette corali provenienti dalla Cattedrale cesenate realizzati tra il 1480 e il 1495 da miniatori di scuola bolognese e ferrarese. Alcune delle miniature mostrano fondali architettonici di pregevolissima concezione, e pienamente indicativi di una conoscenza dell’architettura romana (in maniera diretta o più probabilmente mediata da disegni e taccuini di viaggio) da parte dei miniatori. Il frontespizio del graduale D, in particolare, mostra un sontuoso arco trionfale con quattro colonne libere al livello inferiore e due inconsueti (ma funzionali alla moltiplicazione degli effetti decorativi) attici, il primo più tradizionale, con grosse paraste parallelepipede, il secondo con quattro binati di colonne corinzie che sorreggono la cornice terminale. Recentemente vi è stata riconosciuta in via ipotetica la mano di Leonardo Scaletti, pittore faentino di orientamento stilistico cossesco, cfr. Colombi Ferretti 2013, p. 58. Già attribuita a Scaletti (ma con qualche dubbio, cfr. Gnudi-Becherucci 1938, p. 81) è la bella Madonna col Bambino conservata al Louvre (cat. M. I. 539; i cataloghi del museo oggi la ritengono più latamente di ambito romagnolo), il cui fondale in forma di arco trionfale è una ricca esibizione (per quanto ingenua in molti dettagli) degli interessi antiquari dell’ignoto artista, non esente da influenze cossesche.

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2.3. La signoria manfrediana a Faenza: società, politica,