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Per comprendere a fondo le radici culturali del programma edilizio e urbano di Carlo ii Manfredi bisogna indagare i possibili riferimenti nella trattatistica e nella pratica architettonica coeva. Cosa non facile vista la relativa novità rappresentata dal doppio loggiato faentino nel campo della riscoperta dell’antico mediata dal trattato di Vitruvio e da quallo di Alberti; e soprattutto il suo anticipo (in alcuni casi molto ampio) rispetto alle altre piazze porticate padane. Bisogna poi interrogarsi 205 Cfr. Fei 1994, p. 196. Il tipo toscano del doppio loggiato doveva essere ben noto a Giuliano, dal momento che a quel tipo si rifà il doppio loggiato del fianco della collegiata di S. Fina a San Gimignano, edificio in cui Giuliano aveva lavorato negli anni ’60 del Quattrocento.

206 La somiglianza è principalmente formale, perché dal punto di vista funzionale il loggiato faentino e quello napoletano sono in parte differenti: il secondo infatti era costruzione autonoma e non svolgeva funzioni di filtro tra interno ed esterno (cfr. Modesti 2014, p. 158), oltre a essere situato al centro di lussureggianti giardini e non al centro del tessuto urbano. Le cronache cinquecentesche però ricordano che il loggiato superiore era utilizzato per accogliere la corte in occasione delle visite di personaggi importanti: per esempio, vi fu fatto accomodare Carlo v quando ormai la villa era diventata spazio di rappresentanza dei viceré spagnoli (cfr. ivi, p. 66).

65. Arezzo, Badia delle SS. Flora e Lucilla, chiostro. 66. Arezzo, S. Maria delle Grazie, portico.

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sul riferimento (formulato all’inizio del Seicento, ma probabilmente seguendo una tradizione ben consolidata risalente al Quattrocento) alla Stoà Poikile di Atene come modello per il doppio loggiato: quali erano i possibili contatti della piccola corte faentina con il mondo (all’epoca ancora piuttosto ristretto) degli studi della lingua greca antica?

3.2.1. Trattati

Nell’indagare possibili influssi dei teorici dell’architettura del Quattrocento sul progetto di Carlo ii Manfredi, bisogna tenere presente un dato fondamentale, cioè la diffusione di queste teorie nella Romagna del Quattrocento. In effetti, il De Re

Aedificatoria di Alberti, benché completato già alla metà del secolo, sarà stampato

solo nel 1485, quindici anni dopo la costruzione del doppio loggiato, e del 1486- 87 è la prima edizione dello stesso Vitruvio. In ogni caso, di entrambe le opere circolavano già da alcuni decenni edizioni manoscritte negli ambienti colti italiani ed è probabile che Carlo o Federico o Galeotto (non ancora esiliato da Faenza nei primi anni del dominio di Carlo) Manfredi, o qualcuno degli intellettuali della loro cerchia conoscessero queste opere.207 Non è escluso che Alberti possa aver

incontrato qualche personaggio della corte manfrediana, data la sua presenza in Romagna sul cantiere riminese del Tempio Malatestiano, o che Carlo o Federico possano averlo incontrato a Roma negli ultimi anni della sua vita.208 Un’altra opera

fondamentale, il trattato di Filarete, doveva essere noto a Carlo almeno nelle sue fasi preparatorie (dato che la versione definitiva fu composta intorno alla metà degli anni ’60 del Quattrocento) per via della sua permanenza a Milano negli anni 1456-61.209 Disegni dell’antico e tratti da Vitruvio avevano comunque una

certa diffusione in taccuini risalenti anche alla prima metà del Quattrocento.210

Non bisogna dunque ritenere un ostacolo insormontabile quello delle date di pubblicazione dei trattati vitruviano e albertiano.

Per valutare l’attinenza degli interventi sulla piazza di Faenza con i trattati sopra 207 Un elenco (non esaustivo ma comunque di grande utilità) di questi manoscritti è stato redatto da Georgia Clarke, cfr. Clarke 2003, pp. 283-290. Tra questi, numerosi si potevano trovare in città prossime (geograficamente e politicamente) a Faenza, come Bologna e soprattutto Firenze. 208 Carlo Manfredi passò circa un mese a Roma alla fine del 1468 per ottenere la riconferma del vicariato su Faenza dal papa. Cfr. ASMi, Carteggio Visconteo Sforzesco, Potenze estere, Romagna, cart. 169, 1468, novembre 20 e dicembre 24. A margine, si può notare anche che in quel periodo era presente a Roma anche l’Imperatore. Due anni dopo (ma già a questa data erano stati realizzati i lavori più importanti, cioè la demolizione del portico dei Sartori e la costruzione del doppio loggiato) era Federico a essere andato a Roma per trattare la condotta del fratello agli ordini del papa. Cfr. ASMi, Carteggio Visconteo Sforzesco, Potenze estere, Romagna, cart. 170, 1470, novembre 2. C’è notizia anche di una presenza a Roma negli stessi anni del chierico faentino Nicolò Marchesini (canonico della Cattedrale dal 1494), ma egli era all’epoca alla corte imolese di Taddeo Manfredi. Cfr. ASMi, Carteggio Visconteo Sforzesco, Potenze estere, Romagna, cart. 171, 1470, febbraio 6. Potevano Carlo o Federico aver conosciuto in uno di questi viaggi a Roma anche Francesco Patrizi? Nelle sue opere si trovano numerosi accenni al buon funzionamento dello stato, specialmente per ciò che concerne la gestione della città. Cfr. Schofield 2003, pp. 600-606.

209 Cfr. Lazzarini 2007c. 210 Cfr. Nesselrath 1986.

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ricordati, bisogna leggere le parti relative ai fora. Vitruvio (libro v, capitolo 1) ricorda che il foro dei Greci è a pianta quadrata, mentre quello italico, per via dell’abitudine di tenervi i gladiatoria munera, è a pianta rettangolare, con una proporzione fra i lati di due a tre: si ottiene così una forma oblunga adatta allo svolgimento degli spettacoli. Sempre per via della funzione ‘circense’ del foro italico, gli intercolumni devono essere larghi; sotto ai portici saranno collocati i banchi dei cambiavalute e sopra i portici saranno disposte balconate per la riscossione dei pubblici tributi. Vitruvio prosegue stabilendo che il rapporto tra le colonne dell’ordine inferiore e quelle dell’ordine superiore deve essere di quattro a tre, sia per ragioni di solidità strutturale, sia per imitare l’ordine naturale, in cui i tronchi degli alberi sono più sottili in alto. Infine, stabilisce le proporzioni per le basiliche, con una larghezza non inferiore a un terzo della lunghezza, né superiore alla metà. Il parapetto tra il colonnato superiore e quello inferiore dev’essere alto un quarto di meno delle colonne superiori. Interessante notare che, a proposito dei capitelli della basilica, parla di blocchi (pilae) poste a sostegno delle travi.211

Diverse somiglianze si possono intravedere tra il foro descritto da Vitruvio e la piazza di Faenza. Innanzi tutto somiglianze di carattere funzionale, come l’uso del foro per spettacoli popolari (e la piazza faentina era sede di giostre e tornei), le botteghe sotto i portici (presenti anche a Faenza), e la sede per la riscossione dei tributi (simile alla Gabella grossa del palazzo Manfrediano). Ma questi punti di contatto sono in fondo poco significativi, dal momento che ogni piazza medievale italiana accoglieva queste attività e nessuno penserebbe di vedere in ciò una diretta filiazione dal trattato di Vitruvio, quanto piuttosto un’evoluzione di durata secolare dell’antico foro romano. Più interessante è il punto di contatto fornito dal fatto che anche la piazza di Faenza, come quella vitruviana, è articolata su due livelli. Nella trattazione vitruviana anche il secondo livello è sede di attività pubbliche, mentre a Faenza la sua fruizione doveva essere semi-privata, riservata cioè solo alla corte del Signore e ai notabili cittadini e forestieri.212 Come si vedrà nel prossimo

paragrafo, quasi nessuna piazza coeva (parzialmente quella di Ferrara) è fornita di una struttura simile, che distilla in sé una tale complessità funzionale, cerimoniale e anche di richiami simbolici.

Quanto al problema delle proporzioni, è pressoché ovvio che il doversi attenere alle preesistenze di origine medievale abbia precluso a Carlo qualsiasi tentativo di seguire canoni di origine classica. In effetti, la piazza faentina, perlomeno lo spazio antistante il doppio loggiato, nel 1521 oggetto di lastricatura, ha una proporzione superiore all’uno a tre (1:3,5), ben minore dunque di quel due a tre prescritto da Vitruvio, e inferiore anche a quella, per esempio, della piazza di Vigevano (1:2,8). Se si valuta però solo l’estensione originaria del doppio loggiato manfrediano (dieci campate), si vede come la proporzione dello spazio antistante sia effettivamente di due a tre, al netto delle irregolarità della piazza; ma questa notazione è da considerare

cum grano salis, perché prescinde dall’intenzione (già nel 1477) di prolungare il

portico inferiore. La perdita materiale dell’architettura originaria impedisce sensate 211 Cfr. Vitruvio 1997, pp. 551-553.

212 Anche se la spartizione del palazzo tra i due poteri faentini, quello ‘popolare’ (ma ormai esautorato da ogni reale importanza) degli Anziani al piano inferiore, e quello signorile al piano superiore, lascia immaginare che anche la duplicazione del loggiato avesse una ben precisa ragione cerimoniale e simbolica: entrambi gli organi di governo avrebbero avuto a disposizione camere di udienza e un luogo di filtro tra interno ed esterno per facilitare i rapporti (solo a distanza nel caso del loggiato superiore) con la cittadinanza.

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considerazioni sul proporzionamento del loggiato inferiore e superiore secondo la norma vitruviana. Tuttavia, le proporzioni dei loggiati originari possono essere desunte dalla veduta di Pistocchi del 1763, sufficientemente scientifica per quanto riguarda il metodo di rappresentazione, e dunque quasi certamente basata (seppur con aggiustamenti dovuti alla necessità di rendere ben visibili tutti gli edifici) su misurazioni accurate. Ebbene, nella veduta di Pistocchi, la proporzione tra le colonne inferiori e quelle superiori è appunto all’incirca di quattro a tre, come suggerito da Vitruvio. In ogni modo, l’inesistenza dell’originale e la non sicura affidabilità della fonte iconografica suggeriscono di procedere con cautela su questa strada. Infine la menzione vitruviana delle pilae poste sopra i capitelli a sorreggere le travi, problema di difficile interpretazione, può far pensare ai blocchi d’imposta presenti originariamente nel loggiato superiore, anche se le proporzioni indicate da Vitruvio sono diverse.

Alberti (libro viii, capitolo 6) replica in gran parte la trattazione vitruviana nella descrizione dei fora greci e romani. Quello greco era in forma quadrata e circondato «porticibus amplissimis et duplicibus»,213 ornato di colonne e travi in

pietra e con i loggiati superiori usati per le ambulationes. Il foro italico, invece, si basava su una proporzione dei lati di due a tre, era usato per i ludi gladiatorii, e circondato da botteghe dei banchieri. A questi esempi antichi, Alberti contrappone la sua proposta. Egli preferisce che la proporzione dei lati sia di uno a due; l’altezza degli edifici che si affacciano sulla piazza dev’essere di un terzo della larghezza, o comunque non inferiore ai due dodicesimi. I portici saranno rialzati sul livello della piazza, e larghi quanto l’altezza delle colonne. Le colonne superiori siano di un quarto più basse di quelle inferiori.214

Anche in questo caso è difficile cercare una corrispondenza esatta tra i proporzionamenti proposti da Alberti e quelli riscontrabili nella piazza di Faenza,215

anche se l’allungamento della piazza proposto da Alberti in contrasto con Vitruvio potrebbe fornire le basi per un paragone con il caso faentino. Importa però rimarcare la possibile suggestione che la continua menzione delle porticus duplices presenti nei

fora greci e romani può aver suscitato nella mente di Carlo o di chi lo consigliava.

Inoltre, un influsso albertiano si può anche vedere nella sopraelevazione del piano del portico sul livello della piazza, cosa effettivamente verificabile oggi, ma soprattutto nelle vedute sette-ottocentesche, nelle quali al posto dei gradini attuali si vede ancora il gradone di discreta altezza che ospitava botteghe sotterranee.

Più sfumato il possibile rapporto con il trattato di Filarete. Anche in questo caso, non sembrano esserci paragoni possibili con i proporzionamenti degli spazi pubblici, dato lo stretto rapporto di dipendenza con Alberti. Inoltre la Sforzinda filaretiana era dotata di due piazze, cosa non possibile in una città di piccole dimensioni come

213 Va notato, sia qui sia in Vitruvio, che il termine ‘duplex’ va interpretato con ogni probabilità come sinonimo di ‘a due navate’, e dunque non va confuso con quanto dicono subito dopo i due trattatisti a proposito dei loggiati superiori. In realtà, pare che nel Rinascimento questa interpretazione non abbia avuto grande successo nei tentativi di ricostruzione dei fori antichi (per esempio, nel progetto di Fra Giocondo per il mercato di Rialto, dove i portici non hanno due file di colonne), e dunque è sostanzialmente ininfluente ai fini del discorso in questione.

214 Cfr. Alberti 1989, pp. 393-394.

215 Una breve analisi di questo passo di Alberti, con analoghe conclusioni relative alle proporzioni tra lunghezza e larghezza della piazza, è in Gualdrini 2012, pp. 251-252.

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Faenza:216 la piazza del mercato delle erbe doveva essere dotata di botteghe poste

sotto ai portici, mentre quella più ‘nobile’, dei Mercanti, era affiancata dagli edifici pubblici. Alcuni paralleli si possono invece fare tra l’impaginato di facciata del doppio loggiato manfrediano e quelli dei palazzi rappresentati nel trattato. Filarete usa molto l’impianto a due livelli, con l’inferiore definito da un portico ad archi e il superiore articolato con paraste architravate (fig. 67). Ma nel caso filaretiano non è mai presente un vero e proprio loggiato al livello superiore, come invece avviene nel caso faentino.

In definitiva, nella piazza faentina si può cogliere un sensibile scostamento rispetto ai proporzionamenti proposti da Vitruvio e da Alberti per quanto riguarda le piazze pubbliche. Risulta però di estremo interesse la somiglianza tra la struttura a doppio loggiato faentina e quelle descritte dai due trattatisti come ornamento principale dei fora romani e greci. È quindi forse semplicistico negare una parentela tra la piazza faentina e il trattato albertiano solo sulla base delle discrepanze tra le proporzioni;217 è probabile invece che anche l’elemento formale (il loggiato a

due livelli) fosse di grande interesse per Vitruvio e per Alberti. Non è escluso, dunque, che proprio quest’elemento (mediato forse anche dai disegni di Filarete) abbia colpito l’immaginazione di Carlo Manfredi, e che lo abbia spinto a ricreare a Faenza un foro all’antica.

216 A meno di non voler considerare come seconda piazza lo slargo posto dietro la Cattedrale, che fungeva da mercato del bestiame. Ma questo luogo sarà riqualificato solo in piena età controriformistica (1619), quando il vescovo Giulio Monterenzi costruirà il portico settentrionale per unire la residenza episcopale alla Cattedrale manfrediana e per fungere da facciata al nuovo Seminario diocesano. Cfr. Gualdrini 2012, p. 265.

217 «[...] Nessuna delle regole compositive indicate da Leon Battista Alberti è rintracciabile nella piazza faentina la cui compagine risulta distante da una rigida applicazione dei criteri proporzionali suggeriti dall’autore del trattato. L’adattamento alle preesistenze edilizie che punteggiavano il sito non permetteva, peraltro, altre soluzioni» (Gualdrini 2012, p. 251).

67. Filarete, Palazzo del Principe.

109 3.2.2. Le piazze porticate del Rinascimento

I lavori della piazza di Faenza si situano cronologicamente in un momento cruciale per lo studio della città rinascimentale. La seconda metà del Quattrocento e i primi anni del Cinquecento sono infatti il periodo in cui sono aperte, rinnovate, ampliate, e nobilitate numerose piazze sia dell’Italia centrale (la piazza della Santissima Annunziata a Firenze, e le piazze di Pienza, Fermo,218 Ascoli) sia dell’Italia padana

(Vigevano, Carpi, Cortemaggiore, piazza Nuova a Ferrara, Bologna) e in particolare, per ciò che attiene questo studio, in Romagna (Ravenna, Forlì, Imola). La piazza di Faenza si inserisce pienamente in questa temperie culturale. Anzi, gli interventi principali sulla piazza datano agli anni 1469-71, e questo ne fa in assoluto il primo caso del genere nell’Italia padana, forse per i suoi stretti rapporti con Firenze; di più, la sua conformazione a loggiati sovrapposti è quanto mai rara e la rende un buon esempio (volontario o involontario?) di piazza di matrice albertiana e vitruviana. In questo paragrafo si analizzeranno alcuni casi particolarmente significativi: la piazza della Santissima Annunziata a Firenze, le piazze romagnole di Forlì e di Imola, con un nota sulla piazza del borgo di Cotignola, e i casi di maggior rilevanza dell’Italia settentrionale, rappresentati da Vigevano e dalle piazze del ducato di Milano, dalle piazze ‘bentivolesche’ di Bologna, dalle piazze di Ferrara, dalla piazza di Carpi.

La piazza della Santissima Annunziata a Firenze (fig. 68) è una caso emblematico e utile anche per un parallelo con il caso faentino. Questa, a differenza di quella di Faenza e di tutte le altre che saranno analizzate nel paragrafo, non è una piazza civica, con gli edifici pubblici e il mercato; al contrario, tutta l’area della piazza è di proprietà dell’ordine mendicante dei Serviti. Il primo edificio che vi viene costruito è l’Ospedale degli Innocenti di Brunelleschi, della prima metà del Quattrocento; intorno alla metà del secolo segue il portico della chiesa dell’Annunziata e per finire, tra il 1516 e il 1525, viene eretta la Loggia dei Servi, progettata da Antonio da Sangallo il Vecchio e Baccio d’Agnolo. Dunque, si tratta di una piazza dalla genesi lunga ma lineare: un progetto di notevole rilievo, quello brunelleschiano, ha guidato dopo circa un secolo la costruzione del terzo lato della piazza. È un’operazione insolita per un edificio costruito nel Cinquecento: la loggia completa la piazza conferendole carattere unitario e assimilandola (pur senza mercato) al foro romano.219 Lo stesso avviene nel caso faentino: a un loggiato considerato di

notevole valore (per questioni estetiche, funzionali, simboliche) vengono affiancati nei secoli altri loggiati per completare l’unità della piazza.

In ambito romagnolo, la piazza di Forlì (fig. 69)220 è oggi pressoché irriconoscibile

nella sua veste medievale e rinascimentale, dopo i rifacimenti sette-ottocenteschi e le demolizioni di età fascista; i capitelli e i peducci quattro-cinquecenteschi 218 Per chiarire la differenza tra le logge medievali (sovente di piccola estensione) e la piazza porticata rinascimentale, Lotz confronta la piazza di Verona con quella di Fermo: «Il confronto tra le piazze di Verona e di Fermo dimostra il modesto contributo che la loggia a cinque arcate della Casa dei Mercanti di Verona reca all’aspetto della piazza. Ben diverso è il caso di Fermo, dove l’immagine della piazza come unità è la base dell’idea architettonica, a cui le logge conferiscono realtà» (Lotz 1989, p. 50).

219 Cfr. Lotz 1989, p. 57. Ma già Lorenzo il Magnifico aveva pensato di cingere uniformemente di portici la piazza, cfr. Schofield 1992-93, p. 163.

220 Per un’analisi del tessuto medievale forlivese, cfr. Balzani 1994, pp. 182-184. Per una trattazione generale sull’architettura a Forlì nel Quattrocento, cfr. Gori 1994a.

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del palazzo comunale sono però visibili sotto al portico, all’interno dei pilastri ottocenteschi. Anche a Forlì, come a Faenza, il palazzo Comunale era diventato sede della signoria degli Ordelaffi che si era dedicata nei secoli ad ampliarlo e abbellirlo. In particolare, nel 1459 Pino iii Ordelaffi dà inizio alla costruzione del portico, poi proseguito negli anni successivi dai suoi successori e ancora nei primi anni del dominio papale.221 Tuttavia, contrariamente al caso faentino, qui le diverse

aggiunte sono inserite nel contesto senza ricercare una vera unitarietà: il primo tratto di portico (nella parte sinistra della facciata del palazzo) mostra capitelli di foggia ancora medievale, con foglie lanceolate agli spigoli; segue la parte centrale con capitelli di stile pseudo-corinzio, ma piuttosto grossolani nell’esecuzione, e la parte aggiunta in età pontificia. La foggia dei capitelli si differenzia notevolmente nelle tre parti, tanto che si può intuire che il palazzo non dovesse avere un aspetto unitario. Anche il palazzo del Podestà,222 ricostruito nel 1458-60 all’angolo sud-est

della piazza e dotato di portico con capitelli pseudo-corinzi in cotto, si qualifica più come aggiunta casuale che come tassello fondamentale per la costruzione di uno spazio urbano unitario.

Ben diverso è il caso di Imola, dove Girolamo Riario attua un profondo rinnovamento nel tessuto urbano e soprattutto nella piazza, forse ispirato da quanto aveva fatto il ‘vicino’ Carlo Manfredi. In particolare, Girolamo nel 1480 (ma più probabilmente nel 1483) dà il via alla regolarizzazione della piazza principale: alcune case medievali e la chiesa di S. Lorenzo sono abbattute per ampliare lo spazio disponibile, e un lungo (72 metri) edificio porticato sorge in sostituzione di una serie di botteghe (fig. 70).223 E non è escluso che il disegno urbano di

Girolamo mostrasse precisi intenti di rifarsi al trattato vitruviano, tanto da essere preso a modello in successive esperienze urbane dell’Italia padana.224 Il portico

settentrionale della piazza, costruito a partire dall’inizio del Cinquecento (fig. 71), mostra di volersi uniformare alla loggia riaresca, in un intento di «perpetuare un modello formale condiviso, assicurando continuità a quell’idea di piazza che probabilmente era stata consapevolmente formulata nell’ottavo decennio del Quattrocento, ma che non aveva avuto modo di trovare attuazione negli anni della signoria riaresca».225 Esattamente come avverrà a Faenza per tutto il Cinquecento e

fino alla seconda metà del Settecento.

Un caso forse marginale ma significativo è quello di Cotignola. In questo borgo, possesso sforzesco ma a brevissima distanza da Faenza, tanto da essere spesso oggetto delle mire espansionistiche dei Manfredi, si realizza nel 1470 un piano che prevede l’ampliamento della piazza e la sua regolarizzazione con la sua selciatura