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Capitolo I : Il positivismo in Italia La “natura della donna”

3. La “natura della donna”

3.3 Aspetti giuridici

Il riflesso della visione deterministica della “natura” femminile, coniugata ad aspetti storici e culturali, si rifletteva sul ruolo giuridico della donna, sia pubblico, che privato. Si è già detto di come l’antropologia, ritenesse in quegli anni, che ci fosse un legame tra aspetti fisiologici e criminalità. Caratteristiche che erano considerate la normalità per il genere maschile diventavano simbolo di devianza se presenti nel corpo e nella psiche femminile. Sempre partendo da considerazioni biologiche si riteneva che le donne avessero una minore tendenza a delinquere, sulla base del fatto che:

“[…] la mancanza di ingegno, di forza e di variabilità ci dà ragione perché, essendo congenitamente meno morale, pure sia meno rea: e questo e l’atavismo e i prepotenti ardori maschili ci aiutano a comprendere come l’equivalente della reità- nata sia in esse, più che il delitto, la prostituzione, che pure non dovrebbe sorgere a filo di logica, in chi ai bisogni sessuali è tanto meno sensibile.”58

Naturalmente un simile mix di saperi scientifici e presunti tali portava in sé un lungo elenco di contraddizioni: la donna era allo stesso tempo maligna e cattiva, ma fragile e materna; peccava di notevole ferocia e efferatezza nel compiere i delitti, ma le pene commisurate erano ridotte rispetto a quelle riservate agli uomini; era inferiore e infantile, ma allo stesso tempo educatrice e veicolo di valori.

La debolezza e inferiorità di cui veniva bollata la donna provocarono un dibattito in ambito giuridico sulle questioni della minore imputabilità e della

57 Valeria P. Babini, Annamaria Tagliavini, Fernanda Minuz, La donna nelle scienze dell’uomo…,

cit., pag. 97-98.

31 minore punibilità. Nello specifico, le conseguenze di un simile modo di pensare potevano essere di tre tipi:

1. negazione della minore imputabilità e, implicitamente, della minore punibilità;

2. negazione della minore imputabilità, ma ammissione della minore punibilità; 3. affermazione della minore imputabilità e, conseguentemente, della minore

punibilità.59

Il collante fra le diverse posizioni rimase l’accettazione sostanziale dell’ideologia naturalistica dell’infirmitas sexus 60 . Tali argomentazioni

rendevano palese la contraddizione della doppia responsabilità civile della donna: il diritto privato limitava le donne e concedeva loro una minore capacità civile, allo stesso tempo alcuni celebri giuristi richiedevano l’attribuzione di una maggiore responsabilità penale per le donne. In questo senso il principio di eguaglianza giuridico invocato per i due sessi, con l’obiettivo di rifiutare la minore responsabilità penale femminile, veniva sistematicamente contraddetto dalla condizione di “minorità” politica e civile delle donne61. La questione della condizione femminile nel diritto penale

rimanda, dunque, alla questione della disuguaglianza giuridico-privata.

Nel contesto familiare era considerato l’uomo il capo della famiglia sia nelle relazioni personali, che patrimoniali. La cultura scientifica del positivismo andava a saldare una situazione giuridica e culturale già profondamente radicata nella società dell’epoca. Trattandosi di presupposti biologici, tali differenze erano considerate non modificabili, né attraverso l’intervento dell’educazione né attraverso la cultura. Contraddire norme consolidate dalla tradizione e dalla scienza, appariva come un tentativo di minare la solidità dell’istituzione familiare. Il Codice Civile del 1865 ribadiva la preminenza

59 Mario Manfredi, Ada Mangano, Alle origini del diritto femminile…, cit., pag.46. 60 Ivi, pag. 47.

32 maschile prevedendo: la patria potestà, una diversa punibilità rispetto l’adulterio, e la presenza dell’autorizzazione maritale, secondo la quale le donne non possono compiere gli atti giuridici più importanti senza l’autorizzazione del marito (l’istituzione della autorizzazione maritale sarà eliminata nel 1919) 62. Gli “scienziati” non mancarono di proporre soluzioni e

giustificazioni a simili ragionamenti, ovvero, che la donna non possiede, per un motivo o per un altro, le attitudini mentali, la stabilità psicologica e le qualità fisiche tali da equiparare il ruolo dell’uomo. Piuttosto erano enfatizzate specifiche peculiarità femminili che andavano invece esaltate per mantenere positivo il segno dello sviluppo della civiltà. Si tratta delle qualità che solo in quanto madre la donna possiede e che sono talmente importanti e univoche da escludere la possibilità che possano essere trascurate senza provocare una devianza all’interno della famiglia, che è la cellula prima della società per riversarsi poi sull’intera specie.

Non necessariamente simili posizioni scientifiche comportavano una totale esclusione politica delle donne, purché si trattasse di un impegno sociale che non contrastasse le “naturali” disposizioni femminili.

“Anche in questo caso, dunque, il soggetto femminile assume un ruolo sociale in virtù della funzione sociale di madre, educatrice, trasmettitrice delle idee dominanti, tramite ideologico tra la struttura sociale e le giovani generazioni che in essa devono insierirsi.”63

La funzione sociale della donna assume quindi i connotati di una funzione privata, familiare. Anche nel momento in cui le donne si fossero affacciate al mondo del lavoro, avrebbero dovuto farlo con l’esclusiva funzione di migliorare la vita domestica. In ogni caso la corrente maggioritaria era convinta che le donne fossero inadatte al lavoro extradomestico e che fosse compito dell’uomo dedicarsi alla produzione economica, rispettando, in

62 Ivi, pag.78. 63 Ivi, pag,94.

33 questo modo, la logica secondo cui l’unica funzione del corpo femminile era quella della maternità, dal momento che il lavoro sottraeva tempo prezioso all’educazione dei figli e all’amministrazione della casa, oltre che per una serie di motivi morali collegati alla promiscuità nella sede lavorativa o di altro genere. Inoltre, le donne, sulla base di indagini biologiche, erano considerate inferiori non solo da un punto di vista fisico e muscolare, dunque inadatte per i lavori pesanti, ma anche da un punto di vista intellettuale, a causa delle minori dimensioni del loro cervello e dell’instabilità psicologica dovuta a problemi ginecologici, ragione che negava loro l’accesso ai mestieri per i quali era richiesta una certa cultura e capacità di ragionamento. Anche nel caso in cui fosse ammesso l’ingresso delle donne nel mondo lavorativo, questo non poteva avvenire in condizioni paritarie; le giustificazioni date ad una simile scelta erano, oltre che la suddetta inferiorità fisica (che era collegata ad una minore produttività), la convinzione che la donna avesse meno bisogni rispetto all’uomo64. Per cui era giustificabile che alle donne fosse attribuito un

orario di lavoro maggiore, o che a parità di ore di lavoro fossero retribuite meno. Le iniziative che si interessavano a garantire una maggiore tutela per il lavoro femminile, non consideravano la donna come autonomo soggetto sociale, ma la tutelavano in quanto madre, e in quanto riproduttrice di forza lavoro:

“ Le condizioni di lavoro fatte oggi alla donna ledono ogni sentimento anche primordiale di giustizia e umanità, colpiscono la società tutta alla fonte istessa della riproduzione della specie, e ne calpestano gl’interessi più vitali, con danno gravissimo dello svolgimento calmo e progressivo d’una vera e utile azione civile.”65

Allo stesso tempo il lavoro femminile appare bisognoso di tutela secondo la concezione per cui la donna è un soggetto “debole”. Queste intenzioni sembrano riflettere l’accettazione della tesi lombrosiana secondo cui la donna

64 Cfr. Mario Manfredi, Ada Mangano, Alle origini del diritto femminile…, cit., pp.89-114. 65E. Majno Bronzini, Relazione al Congresso della previdenza, Milano, 29-30 giugno 1900,

34 è caratterizzata da un punto di vista anatomico, psicologico e intellettuale dalla somiglianza con i fanciulli. Si accetta altresì il principio dell’accessorietà del lavoro femminile nel momento in cui si richiede la riduzione delle ore lavorative per motivi familiari. L’ampio dibattito sulla questione del lavoro femminile che caratterizza i primi anni del Novecento, ribadisce alcuni degli stereotipi femminili di quegli anni e non tocca altri fondamentali problemi come quello della parità salariale.

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