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Capitolo 4. Intervista a Mirta Yáñez: conosciamo meglio l’autrice

5.1 Aspetti teorici della traduzione

Se per molto tempo la traduzione è stata considerata da un punto di vista meramente linguistico e definita come la trasposizione di un testo da una lin- gua all’altra, a partire dagli anni Venti del 1900 questo concetto è stato supe- rato da studi specifici secondo cui la traduzione non si può analizzare sola- mente dal punto di vista linguistico, ma bisogna concentrarsi sul concetto stesso di traduzione che comprende al suo interno anche trasferimenti non verbali e non interlinguistici.

Walter Benjamin nel 1921 scrive nel suo saggio Il compito del traduttore che ciò che conta è l’essenza dell’opera73 che la traduzione deve saper cogliere e che il traduttore deve saper trasmettere senza stravolgere, poiché con il passare del tempo il linguaggio cambia.

Nel 1979 anche Heidegger approfondisce il concetto di traduzione secondo un punto di vista filosofico e si rende conto che la traduzione intesa come trasferimento di un significato da una lingua A ad una lingua B, come preve- dono le regole della traduzione letterale, non è possibile poiché spesso stare legati alle sole parole non consente di rimanere fedeli al testo di partenza e al suo vero messaggio74. Ciò a cui giunge Heidegger dunque è il concetto secondo cui bisogna riuscire a penetrare nel testo di partenza provando a trasportarne il senso nel testo di arrivo.

Ma oggi cosa significa davvero tradurre? Lo scrittore Umberto Eco afferma che la prima e consolante risposta vorrebbe essere: dire la stessa cosa in un’altra lingua75 ma purtroppo questo non è possibile poiché chiunque abbia provato a tradurre un testo, un racconto, un saggio, una poesia sa che non è possibile dire la stessa cosa a causa di vari fattori: la diversità della lingua di partenza da quella di arrivo, l’ampiezza del vocabolario, le sfumature lingui- stiche, la presenza di nomi appartenenti solo a una data cultura e così via.

73 Benjamin Walter, Il compito del traduttore, in “Angelus novus”, Einaudi, Torino, 1962, pp. 47- 48.

74 Martin Heidegger, Che cosa significa pensare?, SugarCo, Milano, 1979, p.151.

75 Umberto Eco, Dire quasi la stessa cosa - esperienze di traduzione, Tascabili Bompiani, Milano, 2015, p.9.

Per cui quello che oggi possiamo rispondere è che tradurre significa dire quasi la stessa cosa76, in cui il “quasi” sta a indicare i compromessi, o nego-

ziazioni, a cui il traduttore, in un modo o nell’altro, è sottoposto.

Nella maggior parte dei casi infatti il traduttore, pur di riuscire a trasmettere un aspetto del testo di partenza che ritiene essenziale, deve scendere a compromessi, come per esempio mettere in secondo piano o eliminare del tutto altre caratteristiche del testo di partenza. Ciò implica delle piccole rinun- ce, che nell’ambito della traduttologia possiamo chiamare anche perdite. Le perdite possono essere “parziali” o “assolute”. Nel primo caso il traduttore

riesce a mantenere il senso originario del testo di partenza, perdendo solo qualche sfumatura. Umberto Eco, citando le perdite “parziali”, fa l’esempio del termine francese bouquet77. In italiano il termine equivalente sarebbe

mazzo che però non trasmette perfettamente la sensazione di dolcezza che il termine bouquet ha insito in sé; mentre nel secondo caso, il traduttore deve accettare il fatto di aver fallito poiché una perdita “assoluta” può indica- re l’eliminazione voluta di alcune parti del testo per la loro “intraducibilità” (come per alcuni giochi di parole e i Realia) o l’aggiunta delle note.

5.1.2 A chi dare priorità?

A questo punto, il traduttore si trova di fronte ad un grosso dilemma: se tra - durre dando priorità al testo di partenza o dando priorità a quello di arrivo. Schleiermacher, filosofo e teologo tedesco, fu uno dei primi ad affrontare il problema scrivendo così:

A mio avviso di tali vie ce ne sono soltan - to due. O il traduttore lascia il più possibi- le in pace lo scrittore e gli muove incontro il lettore, o lascia il più possibile in pace il lettore e gli muove incontro lo scrittore.78

76 Ivi, p.10.

77 Ivi, p.96.

78 Friederich Schleiermacher, Sui diversi metodi del tradurre, in “Etica e ermeneutica”, Bi- blipolis, Napoli, 1985, p.153.

Secondo il filosofo, nel primo caso la traduzione rispetterà il volere iniziale dello scrittore ed il suo stile, catapultando il lettore all’interno della cultura di partenza, della sua lingua, degli usi e dei costumi fino a questo momento per lui estranei (traduzione straniante); nel secondo caso, il traduttore si prende- rà la briga di addolcire e facilitare la comprensione del testo di partenza li- mando, e talvolta eliminando, gli ostacoli che causerebbero una possibile in- comprensione del testo (traduzione addomesticante).

La decisione di intraprendere una modalità di traduzione invece che l’al - tra dipende soprattutto da due fattori: la scelta della dominante e la tipologia del lettore cui è rivolto il testo di partenza. La dominante può essere definita come la componente attorno alla quale si focalizza il testo79: il modo di scri- vere dello scrittore, il modo in cui i personaggi parlano, la tematica trattata, il ritmo. Individuare quindi il nucleo centrale del testo, può aiutare il traduttore a compiere alcune scelte stilistiche per la sua traduzione così da renderla non solo più adeguata ma più fedele, vicina al testo di partenza. L’altro fatto- re decisionale è sicuramente il tipo di lettore che ci si aspetta per il testo in questione. Sicuramente il lettore che comprerà un giallo non si aspetterà uno stile complicato ma lineare e avvincente. Il lettore che comprerà un saggio sulla politica, sulla religione, su temi per così dire scritti “per pensare”, saprà già anticipatamente che si troverà davanti un testo ricco, con termini ricercati e appositamente voluti dal traduttore del testo originale.

Per quanto riguarda i racconti che ho provato a tradurre, il lettore a cui è ri - volto il testo originale è sicuramente appartenente alla tipologia che acquista un libro perché vuole “pensare” e approfondire il contesto storico-culturale che la scrittrice ha vissuto in prima persona. L’intento della scrittrice non è infatti facilitare la lettura del possibile lettore estraneo alla realtà sociale di Cuba. Mirta Yáñez scrive per una ristretta cerchia di persone che fanno par- te della sua vita, della sua realtà e che conoscono alla perfezione i riferimen- ti che spesso fa all’interno del testo come: le guardie notturne dei cittadini, la raccolta del caffè nelle foreste, i riti di spiritisimo, l'emigrazione.

Per questo motivo, dopo aver letto e analizzato i racconti, in alcuni passi fin troppo ardui, mi sono permessa di aggiungere alcune note così da aiutare il lettore e, in altri, ho dovuto ammettere l’inevitabilità di qualche perdita non potendo tradurre esattamente il testo di partenza. Ho sempre mantenuto

79 Franca Cavagnoli, La voce del testo, Feltrinelli Editore (versione digitale), Milano, 2010, pos.198 di 2725.

però l’obiettivo di rispettare lo stile della scrittrice tentando di ricreare un lin- guaggio piuttosto scorrevole ed evitando di deformare il testo. La deforma- zione viene definita da Antoine Berman come un fascio di forze che deviano la traduzione dal suo puro obiettivo che tendono a prediligere la bella for- ma80.

5.1.3 Le tendenze deformanti

Ma quali sono queste tendenze deformanti? Berman ne menziona tredici:

1. La razionalizzazione: corrisponde ad una generalizzazione del testo in cui vengono linearizzate le costruzioni sintattiche tipiche della prosa;

2. La chiarificazione: consiste nell’esplicitare il significato di una parola, di un costrutto che nel testo originale risulta oscuro;

3. L’allungamento: è la tendenza per cui il traduttore tende ad allungare il testo di arrivo, non rispettando la ritmica del testo originale e che Berman chiama anche sovratraduzione;

4. La nobilitazione: indica che il testo di arrivo è più bello dell’originale;

5. L’impoverimento qualitativo: consiste nel sostituire termini, espressioni, costruzioni del testo di partenza con dei traducenti che non possiedono la stessa ricchezza significante e sonora;

6. L’impoverimento quantitativo: indica che, a volte, a diversi termini usati nel testo di partenza, corrisponde solo uno nel testo di arrivo;

7. L’omogeneizzazione: è la risultante delle tendenze finora elencate;

8. La distruzione dei ritmi: avviene quando si modifica la punteggiatura;

9. La distruzione dei reticoli significanti soggiacenti: avviene quando non si percepisce che all’interno di un testo esistono dei reticoli di significa- to ben precisi e connessi tra loro;

10. La distruzione dei sistematismi testuali : si riferisce alle scelte fatte al- l'interno di un testo, come per esempio la scelta di alcuni tempi verbali o di alcune costruzioni specifiche che vengono distrutte dalla raziona- lizzazione, dalla chiarificazione e dall'allungamento, rendendo il testo omogeneo e incoerente.

11. La distruzione dei reticoli linguistici vernacolari: può consistere nella soppressione di diminutivi, nella sostituzione di un verbo attivo con un

80 Antoine Berman, La traduzione e la lettera o l’albergo nella lontananza, 2004, Quodlibet, Macerata, p.41.

altro verbo unito a sostantivo, nella trasposizione di significanti verna- colari e così via.

12. La distruzione di locuzioni: accade quando il traduttore vuole sostituire la locuzione di partenza con una equivalente;

13. La cancellazione delle sovrapposizioni di lingue : avviene quando il rapporto che esiste tra il vernacolare e la koiné, all'interno del testo ori- ginale, tende a cancellarsi.81

Un buon traduttore, quindi, secondo Berman, per riuscire in una traduzione “perfetta” dovrebbe sempre stare attento a non lasciarsi coinvolgere dalle forze sopra citate ma dovrebbe essere molto equilibrato nelle scelte. Ovvia- mente non è così semplice e non tutti ci riescono. Credo che ci sia bisogno di studio, di esercizio, di vaste conoscenze sia linguistiche che storiche e culturali per rendere davvero una traduzione eccellente.

Per quanto riguarda il mio caso, purtroppo, in qualche punto, ho dovuto im - poverire il testo non potendo trasporre il termine e non potendo trovare un perfetto equivalente.

5.2 Osservazioni preliminari del testo El Búfalo ciego

I racconti della raccolta El Búfalo ciego, come ho detto precedentemente, non sono testi di facile comprensione per un lettore estraneo alla realtà di Cuba. Lo stile in cui scrive Mirta Yáñez è lineare, nonostante in alcuni brani siano presenti alcune ambiguità riguardanti ciò che concerne la religione e la spiritualità, come per esempio in un racconto intitolato Pájaro del mal agüero basato su una serie di riti cubani legati alla Santeria. Mi hanno aiutata molto alcuni saggi che trattano l’argomento come per esempio El Monte di Lydia Cabrera, il Diccionario de la lengua conga residual en Cuba di Teodoro Díaz Fabelo e Il Dio delle onde, del fuoco, del vento di Irina Bajini, per quanto ri- guarda la bibliografia italiana.

Nonostante le difficoltà riscontrate nella comprensione del suddetto racconto, gli altri testi, pur presentando alcune asperità linguistiche, sono stati di più facile comprensione grazie alla grande proprietà di linguaggio della scrittrice

che raramente presenta un lessico lontano dallo spagnolo standard. Un’ec- cezione, se si fa una riflessione sulle opere scritte tra la fine degli anni Ottan- ta e l’inizio degli anni Novanta del 1900 a Cuba che corrispondono all’inizio del cosiddetto “Período Especial”.

Sull’isola caraibica, in quegli anni, inizia a farsi spazio una letteratura che, facendo leva sul difficile periodo storico, sulla crisi economica che affliggeva la popolazione e sulle tante contraddizioni morali e politiche, favorisce la creazione di opere che affrontano questi problemi mettendo in risalto feno- meni come la nascita della prostituzione, o jineterismo; lo spaccio di cocaina, di marijuana, di rum e sigari; la sessualità e soprattutto la condizione omo- sessuale, omettendo ciò che era davvero importante: la povertà in cui vive- vano gli anziani, la crisi ideologica, l’emigrazione, il rifugio nel cattolicesimo o in altre forme religiose82. Questo perché i lettori occidentali si aspettano da- gli scrittori cubani alcune caratteristiche specifiche, i tipici cliché negativi del caribe.

Mirta Yáñez, diversamente da molti suoi colleghi, prende le distanze da questo fenomeno culturale (andando contro le leggi del mercato di allora) prediligendo, da anticonformista quale è, la trattazione di aspetti della vita quotidiana, con riferimenti al periodo vissuto, evitando così la facile esposi- zione del corpo femminile, dell’intimità umana e accantonando temi creati a tavolino per i turisti e gli stranieri.

Anche per quanto riguarda il linguaggio compie una scelta accurata: quella di rinunciare ai volgarismi, alla presenza del linguaggio caratteristico della stra- da, la cosiddetta habla de cuba, e all’uso del turpiloquio, se non in rari casi, prediligendo un linguaggio lineare, influenzato dallo spagnolo standard poi- ché i nonni della scrittrice emigrarono dalla Spagna a Cuba. Infatti, nelle va- rie interviste rilasciate, la Yáñez fa sempre riferimento alle sue origini galizia- ne.

A questo proposito, vorrei fare un breve excursus sull’influenza che il galle- go, galiziano, ebbe sulla lingua cubana verso la fine del XIX secolo, con l’ini- zio di un’emigrazione di massa verso l’isola di Cuba. Tra il 1788 e il 1797 il numero di individui che emigrano è di 14.000 all’anno83. Non è strano che il

82 Irina Bajini, La Isla de las mujeres - Recorridos literarios fememeninos en Cuba de la In-

dependencia al Período Especial, Ediciones UNIÓN, La Habana, 2012, p.123.

83 Carlos Sixirei, Los gallegos en Cuba en el siglo XIX: cultura y regionalismo, in “Historia Contemporánea”, n.19, Vigo, 1999, p.198.

popolo gallego si sentisse attratto dalla bella Cuba, infatti l’isola stava ini- ziando a diventare il maggiore produttore di zucchero e di caffè e la sua eco- nomia stava attraversando una fase di modernizzazione, mentre il popolo gallego in quegli anni stava attraversando una grande crisi sia economica che sociale dovuta a vari fattori: diminuzione demografica causata dalla mancanza di cibo (i galleghi non avevano ancora integrato le coltivazioni di mais e patate che avrebbero aiutato l’alimentazione del popolo e del bestia- me da allevamento), inesistenza di un settore industriale, stipendi troppo bassi. Così in molti decidono di partire alla volta di Cuba per provare a mi- gliorare le proprie condizioni di vita (molti ci arrivarono tramite il servizio mili- tare) e, con il tempo, ci riescono tanto che viene creato “El Centro Gallego de La Habana” nel 1879, la prima società mutualistica.

Agli inizi del XX secolo i gallegos iniziano a dedicarsi alla vendita al detta- glio, soprattutto del cibo, riuscendo ad ottenere il totale controllo del com- mercio in questo settore, tanto che le parole bodeguero e gallego diventano quasi sinonimi84. Con il passare degli anni da venditori al dettaglio si trasfor- mano in commercianti all’ingrosso, iniziando ad arricchirsi.

Anche tramite il teatro riescono a distinguersi: il teatro Bufo cubano85 aveva infatti come personaggi principali il negrito e il gallego: la prima maschera furba e indolente, la seconda, quella del gallego, tonta ma che si dava un gran da fare nel lavoro.

Grazie alla sua buona volontà, alla sua perseveranza e disposto a mettersi in gioco per conformarsi alla gente del posto, il gallego finirà per entrare a far parte della popolazione cubana per mezzo di matrimoni misti.

La presenza gallega a Cuba, ovviamente ha inciso sul lessico cubano ap- portando nuovi termini in uso tutt’ora. Ne riporto alcuni che ho trovato sul saggio di Xosé Neira Vilas86:

 “Botar” sta per “Tirar”;  “Brincar” sta per “Saltar”;

 “Abur” sta per “Adiós” (questo termine era usato soprattutto in

84 Ivi, p.203.

85 La prima rappresentazione del teatro Bufo cubano avvenne nel 1868 con il debutto dei “Bufos Habaneros” nel Teatro di Villanueva. Le rappresentazioni, di carattere satirico, ave- vano l’obiettivo di inscenare le caricature di alcuni personaggi.

86 Xosé Neira Vilas, A lingua galega en Cuba, Consello da Cultura Galega, Santiago de Compostela, 1995.

passato nel Teatro dei Bufos)

 “Arrempujar” sta per “Empujar” (nel significato di “spingere”);  “Morriña” sta per “Nostalgia”;

Ovviamente, la lingua gallega non fu l’unica ad entrare in contatto con la va- rietà linguistica cubana e ad arricchirla di nuovi termini. Di seguito, illustrerò non solo le caratteristiche linguistiche, ma anche le culture che influenzarono la popolazione dell’isola dal punto di vista linguistico.

5.2.1 La varietà linguistica cubana

Lo spagnolo cubano è la varietà linguistica della lingua spagnola parlata a Cuba ed è una delle varianti locali, quella antillana, dello spagnolo caraibico insieme alla Repubblica Dominicana e Porto Rico. Nonostante l’appartenen- za allo stesso gruppo, i tre territori hanno caratteristiche linguistiche diverse causate da fattori storici e sociologici.

La storia linguistica di Cuba si può delineare a partire dal 1510, anno in cui arrivano sull’isola i coloni spagnoli che entrano in contatto con le diverse po- polazioni del posto: i Taínos, la prima popolazione amerindia a popolare i Caraibi e i Siboney e i Guanahatabey, parlanti tutti lingua aruaca, di cui an- cora oggi rimangono alcuni termini come: ají, areíto, barbacoa, batata, bo- hío, caimán, canoa, caoba, cayo, cazabe, chipojo, curiel, enaguas, guaca- mayo, guanábana, guaraguao, guayaba, guayacán, güiro, hamaca, huracán, iguana, jíbaro, jicotea, jutía, liana, maíz, majagua, mamey, mangle, maní, seboruco, tiburón, yuca87.

Molto presto la popolazione indigena viene sterminata e nel 1702 le truppe britanniche occupano l'isola per quasi un anno. In questo breve periodo Cuba gode di un commercio liberale con la Gran Bretagna e le sue colonie, toccando con mano propria una libertà economica mai conosciuta sotto il do- minio dei coloni spagnoli.

L'industria dello zucchero subisce un'importante accelerazione nel 1791 fa- cendo diventare Cuba la maggiore produttrice al mondo e questo fa sì che

87 DalilaFasla Fernández, El español hablado en cuba: préstamos vigentes, lexicogénesis

y variación lingüística”, in “Cuadernos de Investigación Filológica”, vol.33-34, La Rioja,

molti haitiani con i loro schiavi fuggano a Cuba. La produzione cresce così tanto che i cubani sentono la necessità di nuova manodopera, così iniziano ad importare schiavi africani raggiungendo una cifra altissima in meno di un secolo: circa un milione.

A metà del XIX secolo la presenza degli africani è altissima, seconda soltan- to a quella di Santo Domingo dove la percentuale di bianchi in tale periodo è una sparuta minoranza. I matrimoni misti danno inizio ad un processo di me- stizaje (mescolanza) delle razze il cui risultato sarà la nascita di una nuova “razza” denominata criolla.

Anche gli schiavi africani, provenienti dall’Angola e dal Congo, lasciano un repertorio di vocaboli ancora oggi in uso, chiamati africanismos, come per esempio: banana, bemba, bembé, cumbé, cachimbo, conga, champola, che- keré, chimpancé, dengue, funche, guarapo, guineo, jimagua, jubo, macuto, majá, malanga, mambo, marimba, quimbombó, rumba, sambumbia, sirimba, tonga88.

Di ugual importanza, la forte immigrazione che avviene nel XIX secolo da parte degli spagnoli delle Canarie, della Galizia e Asturia che influenza mag- giormente i tratti linguistici della varietà cubana. Infatti, la coesistenza di dif- ferenti dialetti ispanici in uno stesso territorio influenzati dalle lingue indoa- mericane e africane, da luogo a un processo linguistico di scambio, selezio- ne e semplificazione di alcuni tratti dialettali che avrebbe consentito la crea- zione di una lingua comune, la koiné 89cubana. Successivamente, in base al- l’aumento della popolazione, alla quasi scomparsa dei nativi e a nuovi con- tatti con popoli stranieri come i francesi e gli inglesi, la lingua si è modificata fino ad assumere la forma di quello che è oggi: una connivenza di linguaggi. Le tappe fondamentali del processo di koineizzazione, standardizzazione e

indipendenza della lingua si possono così riassumere: 1492-1599 —> nascita della koiné;

1600-1762 —> stabilizzazione e consolidazione della koiné; 1763-1898 —> standardizzazione;

1899 - oggi —> autonomia della lingua.

88 Ivi, p. 84.

89 La teoria della koiné o standardizzazione della lingua fa parte delle quattro teorie sulla formazione dello Spagnolo in America. Secondo questa teoria, la koineizzazione è un pro- cesso di semplificazione o generalizzazione di varietà linguistiche all’interno di un territorio ispano-americano. La koiné, il risultato di questo processo, è quindi una lingua comune che viene usata dagli individui per comunicare.

Gli anglicismi, vengono usati oggigiorno da un gruppo ristretto di persone colte tanto che li ritroveremo anche in alcuni racconti di Mirta Yáñez, fatta eccezione per i termini ormai di uso comune come: blume, budin, chanse, clinch, cloche, closet, doily, elevador, estray, guajiro, jon, panqué, parquear,

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