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Asse di scrittura e Asse di inclinazione

Non si registra una particolare inclinazione dell'asse di scrittura, che sembra rimanere sostanzialmente invariato per tutto il testo. Il segno visibile di questa condizione risulta essere la mancanza di chiaroscuro o altri fenomeni di modifica dello spessore della linea di scrittura.

Per quanto riguarda l'asse di inclinazione delle lettere, esso risulta fortemente rivolto a destra, per effetto, probabilmente, della rapidità del ductus. Non si segnala, comunque, un'inclinazione uniforme dell'asse, che risulta di volta in volta lievemente o fortemente piegato, ulteriore indizio della scarsa perizia dello scriba e dell'assenza di cura formale rivolta al documento.

3.2.5-L'Inno (H.8 e H.22 Preisendanz)

L'Inno vero e proprio, che comprende i righi che vanno dal 298 al 327 e poi quelli dal 342 al 347, si presenta come un testo prevalentemente in esametri, il metro che fin dall'età arcaica era utilizzato per rivolgere invocazioni alla divinità, basti pensare alla raccolta dei cosiddetti Inni Omerici, composti da aedi, partecipanti ad agoni poetici, in genere rappresentati nel corso di qualche festività sacra, che li allegavano come introduzione o proemio alla propria rappresentazione, in genere la narrazione di un episodio del ciclo epico113. Pur a distanza di molti secoli, il rispetto della tradizione, che voleva che ad ogni genere corrispondesse il suo preciso metro e il suo preciso linguaggio, resta ancora forte abbastanza da imporre il suo metro e le sue regole anche in testi eccentrici come sono quelli magici. Pur con certe libertà e non senza errori, anche grossolani, è evidente il tentativo degli anonimi scrittori di tali componimenti,

113Cfr. G. Zanetto 1996, pag. 21 ss. La tradizione di aprire festività e celebrazioni con agoni poetici è

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non solo questo papiro, ma di tutta la Collezione Anastasi, di riallacciarsi ad un'illustre tradizione.

Passando a parlare più nello specifico del poema, rileviamo come questo componimento sia il risultato della collazione di diversi componimenti, di cui possiamo segnalare tre gruppi principali. Il componimento principale, che abbraccia i versi che vanno dal 300 al 347, è un inno sincretista, dove si vede una forte influenza sia ebraica, sia della mistica tardo egizia, la presenza della divinità Abrasax ne è una prova. La presenza di Abrasax ha fatto pensare allo studioso José Luis Calvo Martìnez che l'inno sia dedicato proprio a questa divinità114.Tuttavia, questa tesi, alla prova dei

fatti, mi sembra assai debole, tenendo conto che Abrasax viene nominato assieme ad altre divinità assai popolari nella religione, nonché nella magia, dell’età tardo-antica e anche senza considerare i due testi "aggiuntivi" posti sopra il testo "principale" esso viene nominato solo al quarto verso, non certo una posizione incipitaria o di particolare importanza. Ritengo, dunque, preferibile, la più cauta ipotesi di Preisendanz che attribuisce il componimento alla volontà di onorare un di un Dio Supremo dai forti tratti sincretistici, sia per quanto riguarda l’influenza pagana tradizionale, sia considerando l’ispirazione del dio ebraico-cristiano115.

Questo stesso testo "principale" è a sua volta "interpolato" avendo al suo interno, una parte di un inno dedicato alla figura di Helios, che doveva essere piuttosto popolare, dal momento che all'interno della raccolta dei Papyri Graecae Magicae sopravvive in ben quattro varianti, una qui in PGM I, due in PGM IV e una in PGM VIII.

Come già accennato, a precedere l’Invocation principale116, si trovano due brevi

invocazioni ad Apollo. La diversità di stile e linguaggio, molto più legato alla

114Cfr. J. L. Calvo Martìnez 2005, pag. 266 ss.

115Cfr. Preisendanz-Heitsch 1974, pag. 262. Non è dato sapere il nome della divinità venerata, essendo

l'incipit stato sostituito dalle due invocazioni ad Apollo, ma non è detto che questo fosse presente. Coerentemente con la filosofia in voga alla fine del mondo antico, la divinità poteva essere un Dio Supremo generico, in grado di abbracciare nella sua figura le molte divinità del mondo mediterraneo.

116La denominazione da noi utilizzata di "inno principale" non ha alcuna valenza qualitativa, ma è stata

usata per comodità per evidenziare la grande preminenza in termini di numero di versi rispetto agli altri due componimenti.

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tradizione e, in un caso, il metro hanno indotto la maggioranza degli studiosi ha considerare i due brani come interpolazioni117, aggiunte tratte da poesie molto più antiche, messe in posizione incipitaria dall'ignoto compilatore dell'inno per renderne chiaro, o conferirgli un carattere apollineo, che forse non sarebbe stato altrimenti facilmente rintracciabile nel contesto della poesia. Le due interpolazioni comprendono l'una i versi 296 e 297, l'altra i versi 298 e 299. Risulta da segnalare, tra l'altro, come Preisendanz, nel secondo volume dei suoi Papyri Graeci Magici, separi del tutto questi versi e quelli successivi, classificandoli addirittura come inni differenti, rispettivamente H.8 i testi interpolati e H.22 il resto del componimento, separandoli anche visivamente e ponendoli in due differenti sezioni della sua opera. Tale criterio, oltre a destare nel lettore non poca confusione, non dà ragione della volontà dell'anonimo compilatore del papiro, che vedeva nel testo da lui assemblato un componimento unico.

Dopo aver evidenziato il carattere di "collage" di questo Inno, risulta doveroso precisare come sarebbe sbagliato studiarlo come un insieme di componimenti separati, semplicemente accostati assieme. Ciò in quanto darebbe una visione non vera di quanto ci troviamo a studiare, dal momento che tale Inno era considerato come un corpo unico e come tale dobbiamo considerarlo noi per studiarlo a fondo. Inoltre, l'opera di "fusione" di diversi componimenti per formarne uno nuovo non doveva essere effettuata a "freddo", ma chi si adoperava in un simile compito effettuava nei testi con cui lavorava cambiamenti anche sostanziali per meglio farli aderire al nuovo compito per cui li aveva scelti. A tale proposito, è importante notare come Preisendanz, nel suo Papyri Graecae Magicae, divida i versi 296 e 297 dal resto del componimento, addirittura conferendogli una propria nomenclatura, come se si trattasse di due inni distinti118 (rispettivamente H.8 e H.23). Una simile operazione risulta errata, dal

117In particolare, sia Preisendanz che, più recentemente Faraone sembrano considerare interpolati solo

i due versi iniziali, caratterizzati da una metrica eccentrica rispetto al generale andamento in esametri dell'inno, mentre Martìnez aggiunge anche i versi 298 e 299. Da questo punto di vista, sono portato a dare maggior credito all'opinione di Martìnez giacché i versi 298 e 299 pur essendo esametri, mi sembrano distaccarsi fortemente da quelli precedenti, dove non vi è alcun riferimento esplicito ad Apollo e i riferimenti al Parnaso e a Delfi, così specificamente ellenici, appaiono abbastanza fuori luogo in un inno dove perfino sull'Olimpo si trovano degli angeli.

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momento che il cosiddetto H.8, per quanto un tempo probabilmente parte di un inno a sé stante, non ha alcun valore come entità separata, non essendo più che una semplice allocuzione ad un dio, priva di qualsiasi struttura. Inoltre, per rendere l'operazione coerente si sarebbe dovuto separare dal resto del testo anche i versi 298 e 299, operazione tuttavia, non possibile, poiché così facendo il testo sarebbe stato privo di qualsiasi introduzione iniziale, un inno troncato della sua parte più importante: l'inizio, col saluto alla divinità.

Questo fatto evidenzia come il testo sia ormai un tutt'uno e che la comprensione dello stesso sia impossibile senza studiarlo nella sua interezza. Per questo motivo, tale lavoro presenza il poema per intero, senza tagli e separazioni, così come presente nel papiro. Tale criterio sarà applicato anche nel commento successivo alla traduzione.

COMMENTO

Il commento verrà effettuato verso per verso. Mi permetto di unire assieme in un unico discorso quei versi che si presentino parte di un unico contesto e di tralasciare quei versi che non costituiscano materia per una discussione interessante o originale.

vv.296-297- "Ἄναξ Ἀπόλλων, ἐλθὲ σὺν Παιήονι, / χρημάτισόν μοι, περὶ ὧν ἀξιῶ, κύριε": i primi due versi risultano essere un’allocuzione ad Apollo, un invito a

giungere accanto a Peana, per rispondere alle esigenze del mago. Guardando al testo presentato e al suo contenuto, questo incipit risulta interessante dal momento che Peana sembra essere presentato come una divinità a sé stante, con una propria personalità e non come un epiteto o un aspetto di Apollo, come invece accade comunemente.

L'indipendenza o meno della figura di Peana da quella di Apollo, ossia l’esistenza in un certo momento storico di due divinità separate e distinte che portassero questi nomi, fu un argomento a lungo dibattuto tra gli gli studiosi119. Punto di partenza di tale

119Cfr. Huxley e Macurdy per uno spaccato delle discussioni prodottesi nel corso del tempo. Per quanto

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dibattito fu la scoperta di alcune tavolette in Lineare B rinvenute a Cnosso120, attestanti il culto di un certo Paiawon accanto ad altre divinità tradizionali micenee, testimonianti, quindi, l’origine molto antica e profondamente “ellenica” del nome e del dio Peana.

Questo fatto ha portato a pensare che Apollo, giunto successivamente dall'Asia Minore, abbia progressivamente assorbito le funzioni del dio più antico, di cui avrebbe conservato il nome come epiteto di sé stesso. Tale epiteto sarebbe anche un indizio della funzione originaria di Peana, dal momento che il dio figlio di Latona è chiamato in tal modo soprattutto quando viene richiesto o viene mostrato il suo potere taumaturgico. Peana sarebbe stato, dunque, una divinità guaritrice.

Non sono solo i rinvenimenti archeologici a mostrarci questo quadro: Omero stesso, in un passo dell'Iliade, mostra Peana intento a curare Ares ferito da Diomede121; ugualmente un altro frammento epico, attribuito invece ad Esiodo, mostra chiaramente Peana come divinità guaritrice, separata da Apollo (Il frammento recita:"εἰ μὴ Ἀπολλων Φοῖβος ὑπέκ θανάτοιο σαώσαι/ἢ αὐτὸς Παιήων, ὂς ἀπάντων φάρμακα οἶδεν" ossia "Se non lo salvasse dalla morte Apollo,/ o Peana, cui sono noti tutti i medicamenti" purtroppo non si sa con esattezza quale opera contenesse in origine questo frammento, o se sia da attribuire effettivamente ad Esiodo)122. Perfino un passo dell'Odissea, tratto dalla Telemachia, sembra suggerire per lo meno una certa indipendenza di Peana, come dio curatore, da Apollo123.

Tuttavia, esclusi questi esempi, non troviamo altre attestazioni di questa realtà fino a questo inno (che ricordiamo essere stato composto, o per lo meno confezionato, tra il IV e il V secolo d.C.).

abbastanza accettato tra gli studiosi, non è sempre stato così tuttora permangono alcune opinioni discordanti, all’interno della comunità degli sudiosi.

120Cfr. Graf 2009, pag. 129 ss. 121Il. V 899 ss.

122Merkelbach-West 1967, pag. 160 fr. 307. 123Od. IV, 232 ss.

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Ciò sembra suggerire una certa antichità del poema da cui questa interpolazione dovrebbe provenire, o forse una spiccata volontà arcaizzante del suo anonimo ideatore. A rendere le cose ancora più complesse, aggiungiamo l'ipotesi, in realtà non improbabile, che i versi 296 e 297 non provengano dallo stesso poema. La presenza di Peana, infatti, sembra suggerire di trovarsi di fronte a una preghiera votiva avente come fine la guarigione, mentre il verso successivo si appella al carattere di Apollo come divinità profetica, caratteristica non riscontrabile in Peana124. È, certamente, possibile che chi abbia composto il poema, finito poi in parte in questo componimento magico, abbia fatto confusione tra le due figure divine, tuttavia, ragioni di ordine metrico, che ora andiamo ad accennare, sembrano far propendere per due differenti realizzazioni.

Il verso 296 è scritto in trimetri giambici, metro assai raro all'interno dei Papiri Magici e che poco ha a che fare con gli esametri successivi, mentre il verso 297 risulta assai problematico e poco interpretabile dal punto di vista prosodico, per quanto sembri possibile intravedere un certo ritmo coriambico nel testo125. Per terminare il discorso, voglio porre l'attenzione su un particolare lemma ritrovato nel verso 296, ossia: Παιήονι. Παιήονι, dativo del nome proprio Παιήων, ossia Peana, la divinità, o aspetto divino di Apollo, a seconda delle epoche, focalizzato sull’aspetto della guarigione, risulta di particolare interesse, dal momento che è attestato assai raramente, solo sette volte in tutta la letteratura greca antica, di cui ben cinque volte in Nonno di Panopoli126, una volta in PGM I e un'attestazione, infine, si trova anche nell'Antologia Palatina127. In generale, la parola viene utilizzata solo all’interno di componimenti in esametri, con la vistosa eccezione proprio di PGM I, in cui si trova all'interno di un trimetro

124Calvo Martìnez nel suo articolo su PGM I riconosce il carattere taumaturgico del verso 296, ma lo

estende anche a 297, che in definitiva considera un tutt'uno con il precedente, pur essendo il contenuto e il metro dei due versi abbastanza differente da far dubitare di una loro comune origine. Cfr. J. L. Calvo Martìnez 2005, pag. 263 ss.

125 Cfr. J. L. Calvo Martìnez 2005, pag. 265, il quale ricostruisce un trimetro coriambico su questo verso,

modificando però il testo in maniera un poco invasiva e suscettibile di diverse interpretazioni.

126 Dyonisiaca, XXIX, riga 155; XLVI, riga 361; XLVIII, riga 234. Paraphrasis in I. Ev., Demonstratio

III, riga 13; Demonstratio XII, riga 161.

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giambico. Inoltre, essa viene riscontrata in autori della tarda antichità e non sembra avere attestazioni antiche.

Παιήονι, pertanto, si presenta in questo papiro come una vera e propria contraddizione: segno del ricordo di un'antica devozione, ma utilizzato solo in autori tardi; parola del mondo epico e della poesia in esametri, ritrovata qui in contesto giambico.

In definitiva, la scarsa ampiezza di questo frammento interpolato ci impedisce di capirne l'origine. Per quanto alcune ipotesi possano essere fatte, troppo poco è il materiale a nostra disposizione per parlare con qualche sicurezza.

vv.298-299-"δέσποτα, λίπε Παρνάσιον ὄρος καὶ Δελφίδα Πυθὼ/ ἡμετέρων ἱερῶν στομάτων ἄφθεγκτα λαλούντων,": Questa coppia di versi forma una sorta di seconda

introduzione per il componimento. Questa volta Apollo non viene nominato, ma ad esserlo sono i simboli terreni del suo potere: il Parnaso e Delfi, casa del suo più celebre e longevo oracolo. È evidente che il poeta qui vuole evocare il dio nella sua componente regale, di sovrano a cui il suddito rivolge le proprie preghiere, come peraltro si evince nel testo. Il riferimento alle labbra sacre e alle parole segrete pronunciate dai discepoli "ἡμετέρων ἱερῶν στομάτων ἄφθεγκτα λαλούντων" hanno fatto supporre per questo passo un’origine sacerdotale o da un culto misterico, sebbene l'esiguità del materiale non ci permetta di confermare alcuna teoria.

Il linguaggio legato alla tradizione e i riferimenti spiccatamente ellenici hanno fatto dubitare che questi versi in origine facessero parte del componimento e che, come 296 e 297, vi siano stati aggiunti in seguito come sorta di Proemio, forse per rendere più esplicito il carattere apollineo dell'inno, in funzione del rito magico. A questo proposito, tuttavia, è interessante notare come la parola metrica "Δελφίδα Πυθὼ" compaia solo qui e nelle Dionisiache di Nonno di Panopoli (libro 9, verso 251), senza ulteriori riscontri nella letteratura greca antica. Sorge quindi spontanea la domanda: l'anonimo creatore di questo poema ha deliberatamente imitato Nonno, post-datando l'intero papiro almeno alla metà del V secolo d.C., o questo verso faceva parte di un poema più antico, ora perduto, legato al culto di Apollo e abbastanza famoso da far sì che il poeta di Panopoli ne copiasse alcune espressioni?

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vv.300-347- Possiamo dire con sicurezza che qui inizi l'inno "originale", che appare

tipica espressione del pensiero filosofico e magico tardo antico. Pensare che questa parte sia un componimento unico, distinto dalle due "introduzioni" create con inserti di testi più antichi, risulta un errore, dal momento che al suo interno i versi 319-327 risultano essere il rimaneggiamento di un inno ad Helios estremamente popolare nei papiri magici e che riscontriamo, in diversi documenti, in ben quattro varianti diverse. Risulta dunque possibile che l'intero inno sia una sorta di "centone magico", in cui diversi componimenti magici e religiosi sono stati inseriti e, talvolta, rimaneggiati per rispecchiare le esigenze del compilatore, fossero esse di natura cultuale o "professionale".

vv.300-"ἄγγελε πρῶτε θεοῦ, Ζηνὸς μεγάλοιο, Ἰάω,": Ἰάω, traslitterazione greca del

Tetragramma biblico YHWH, viene definito "primo angelo" (espressione di cui troviamo più avanti una variante) di Zeus, una commistione tra religione tradizionale greca e spiritualità ebraica che riscontriamo in tutto il poema.

Calvo Martìnez interpreta questo verso come coerente alla dottrina gnostica marcionita128, vedendo in Zeus il Dio supremo della setta e in Iao un suo tramite con gli uomini. Questa teoria non mi sembra abbia molto credito, poiché questa corrispondenza con lo spirito della setta non si riscontra altrove nell'inno.

È più probabile che il compilatore dell'inno non faccia riferimento a una setta o una dottrina nello specifico ma, vivendo in un'epoca in cui ormai il cristianesimo era trionfante, ne sia influenzato profondamente, cogliendone il lessico e fondendolo con quello più compiutamente pagano, tenendo anche conto che i testi magici non erano

128La dottrina Marcionita, che alcuni studiosi definiscono gnosticismo marcionita, fu un'eresia cristiana

promossa da un certo Marcione, un greco di Sinope vissuto nella prima metà del II secolo d.C. il quale riteneva il Vecchio e il Nuovo Testamento come ispirati da due differenti demiurghi, essendo il primo ispirato da uno inferiore al secondo. In questo modo cercava di spiegare la presenza nella Bibbia di molti episodi di violenza e peccato, dove lo stesso Dio si mostra talvolta crudele o incomprensibile. Col tempo l'eresia marcionita, pur condannata dal Concilio di Nicea, si ramificò in diverse sette minori, modificandosi in vari modi prima di svanire attorno al VI secolo d.C.

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affatto estranei a commistioni e accostamenti di divinità anche molto lontane tra loro geograficamente e nel culto.

vv.301-"καὶ σὲ τὸν οὐράνιον κόσμον κατέχοντα, Μιχαήλ,": Μιχαήλ, l’arcangelo

Michele, è il più importante degli Arcangeli, nella tradizione ebraica e cristiana. Per quanto qui non venga esplicitamente definito come "angelo", ciò viene dato per sottinteso, essendo nominato tra due entità della cui natura angelica viene esplicitamente fatta menzione, ossia il sopra citato Ἰάω e Γαβριὴλ. In questo verso, Michele viene definito "colui che sostiene il cosmo celeste" e ciò potrebbe essere un richiamo al carattere di "angelo guerriero" che egli ha nella Bibbia, dal momento che è proprio lui, sostenuto da Dio, a gettare Lucifero nell'Inferno, un tema, questo, che avrà molta fortuna nell'iconografia cristiana successiva. Il tema poteva essere stato in qualche modo recepito dall'anonimo compilatore dell'inno, dal momento che il culto degli angeli, in particolare Michele, tutt'ora popolare, era già vivo alle origini del Cristianesimo.

Come nota metrica, segnaliamo una particolarità, dal momento che sia il sostantivo Μιχαήλ che Γαβριὴλ risultano essere, nella costruzione del verso, bisillabici, mentre i poeti cristiani contemporanei (mi riferisco al IV e al V secolo d.C.), quando scrivono in esametri, scandiscono i due nomi come composti da tre sillabe.

vv.303-"Ἀβρασάξ, ἀντολίῃς κεχαρημένος, ἵλαος ἔλθοις,": Abrasax è una divinità

molto popolare nell'Egitto tardo antico, la cui presenza ricorre frequentemente in formule magiche e amuleti protettivi. È associato al Sole129 e forse per questo in PGM I viene accostato ad Apollo ed Helios. Al di fuori della letteratura magica, Abrasax (il cui nome è attestato anche nella variante Abraxas) compare frequentemente nei testi gnostici, come sorta di angelo mediatore tra i fedeli e il Dio Supremo, sopravvivendo per diversi secoli alla fine del mondo antico.130

L'epiteto di cui viene fatto oggetto il dio al verso 303, ἵλαος, ossia "benevolo", risulta essere utilizzata come attributo degli dèi fin da Omero, risulta, pertanto, un termine tipico della devozione più antica, attribuito ad una divinità "nuova", un perfetto

129Cfr. J. C. B. Petropoulos 2008, pag. 35-37. 130Cfr. N. Denzey Lewis 2013, pag. 268 ss.

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esempio di sincretismo. L'altro termine che gli viene riferito, κεχαρημένος, da noi tradotto "pieno di grazia", per rendere al meglio l'idea che questo concetto doveva esprimere, attraverso un'allocuzione a noi nota attraverso la preghiera cristiana, può essere utilizzato come indizio per risalire all'epoca della prima composizione l'inno, nella sua versione originale, poi giunta fino a noi modificata negli elementi che già abbiamo evidenziato. Ciò in quanto tale termine, sebbene sporadicamente attestato già nella prima età ellenistica, in particolare Apollonio Rodio e Teocrito, compare in maniera frequente a partire dalla media età imperiale, in particolare in autori vissuti tra la fine dell'Età Antonina e la fine della dinastia Severa, quali Ateneo di Naucrati,

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