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L’assetto normativo predisposto dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (1982)

Esiste un generale consenso a livello internazionale sul fatto che gli stretti di Malacca e Singapore costituiscano una delle principali vie marittime ai commerci mondiali. Tale affermazione è resa ancora più intelligibile se si fa riferimento al dato storico e alla componente socio-culturale dei tre paesi dell’area: Malesia, Indonesia e Singapore2. È chiaro, dunque, che qualsiasi genere di

malfunzionamento o interruzione dei flussi passanti annualmente per quel tratto di mare che mette in comunicazione l’Oceano Indiano con quello Pacifico produrrebbe delle gravi conseguenze economiche globali. Alle tradizionali problematiche, che concernono il regime di sicurezza della navigazione negli stretti, i disastri ambientali e, come si è già avuto modo di notare, la pirateria, si aggiungono nuovi temi di riflessione all’agenda dei governi nazionali e delle organizzazioni internazionali quali la lotta al terrorismo e al commercio illegale di stupefacenti. Come fa notare Abdul Rahim Hussin

«The present maritime security environment is concerned with a broad range of threats. They include piracy and robbery at sea, illegal migrants, drugs smuggling, maritime terrorism and other transnational threats. Given this, it is pertinent to review the management of the Straits by taking into account its legal regime and by balancing the concerns of the littoral states, the users states and other stakeholders»3.

Annualmente transitano per gli stretti più di 60.000 natanti di grossa taglia (Vlcc, Ulcc, LPG Tanker, etc.) che rappresentano circa un terzo del commercio globale e la metà di quello petrolifero, con un buon 80% di importazioni verso la Cina, il Giappone, la Corea del Sud e Taiwan: si stima

1 G.G. Ong-Webb, Southeast Asian Piracy: Research and Developments in Piracy, Maritime Terrorism and Securing the

Malacca Straits, Institute of Southeast Asian Studies, Singapore, 2006, pagg. XIII-XIV dell’introduzione.

2 Vedi Parte I.

3 A.R. Hussin, The management of the Straits of Malacca: Burden sharing as the basis for cooperation in Proceeding of

Lima International Maritime Conference 2005: Enhancing Security in the Straits of Malacca: Amalgamation of Solutions to Keep the Straits Open to All, Maritime Institute of Malaysia, Kuala Lumpur, 2007, pag. 38.

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che nei prossimi vent’anni quasi i due terzi delle importazioni cinesi nel settore dell’approvvigionamento energetico che partono dal Medio Oriente passeranno per gli stretti di Malacca e Singapore4. Oltre al petrolio e al gas naturale liquefatto, lo stretto tratto di mare fra

Indonesia e Malesia vede annualmente anche il traffico di materie prime fra cui ferro, rame e biomasse dirette verso il gigante asiatico e pericolosi rifiuti nucleari di provenienza prevalentemente nipponica. A completare il quadro, dopo gli eventi dell’11 settembre 2001, gli Stati Uniti hanno rivolto un’attenzione particolare al tema della sicurezza marittima internazionale all’interno di tutte quelle aree considerate di rilevanza strategica e economica; in questo senso, il Sud-est asiatico e gli stretti di Malacca e Singapore costituiscono uno dei punti caldi di più grande impatto geopolitico laddove si intessono specifici reticoli di relazioni fra terrorismo, pirateria e sicurezza marittima nei trasporti. Nel corso degli ultimi quindici anni, gli Stati Uniti, l’India, la Cina e gli stati rivieraschi degli stretti, hanno posto in essere svariate misure di sicurezza e controllo delle principali rotte marittime e delle cosiddette SLOC (Sea Lanes Of Communication) dando così luogo a iniziative unilaterali e multilaterali come la Container Security Initiative (CSI), la Proliferation Security Initiative (PSI), la Regional Maritime Security Initiative (RMSI), la SUA (Suppression of Unlawful Acts Against the Safety of Maritime Navigation), la MALSINDO e la ReCAAP di cui tratterò in seguito.

Per il lavoro che interessa la mia ricerca tuttavia, ovverosia lo studio della pirateria in prospettiva storica e attuale, alcune delle questioni sopra riportate non verranno esaminate in questa sede (es. disastri naturali, collisioni fra navi, emissione di petrolio nel mare e conseguente impatto ambientale) e altre saranno soltanto accennate o riportate per sommi capi in funzione del grado minore o maggiore di attinenza all’argomento principale. In ragione di ciò e prima di continuare con la disanima del problema pirateria, ritengo opportuno aprire una breve parentesi sul regime di navigazione attraverso le acque territoriali e gli stretti, in modo tale da avere più chiari i confini giuridici all’interno dei quali devono muoversi le marine mercantili e militari degli stati.

A partire dalla fine del ‘700 e lungo tutta la prima metà del XIX secolo si diffuse fra le nazioni europee la convinzione che il mare rappresentasse la più importante via di comunicazione e commercio con i paesi dell’Asia sud-orientale e dell’Estremo Oriente (India, Malesia, Cina etc.) e che quantunque fosse indispensabile porre sotto protezione la sovranità di uno stato costiero in relazione alle acque immediatamente prospicienti la linea di costa, una ipotetica disciplina internazionale delle acque territoriali avrebbe dovuto prevedere il diritto, per un natante straniero, di passarvi pacificamente attraverso. A tal fine, fra le prime questioni al vaglio delle potenze marittime

4 H.J. Kenny, China and the Competition for Oil and Gas in Asia, Asia-Pacific Review, «Journal of the Institute for

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occidentali, si posizionavano la definizione di passaggio inoffensivo e quali tipi di imbarcazioni potessero godere di tale diritto: un primo parere in merito giunse dai lavori preliminari alla Harvard

Draft Convention on the Law of Territorial Waters del 1929, in cui si leggeva

«there is no reason for innocent passage of vessels of war. Furthermore, the passage of vessels of war near the shores of foreign States and the presence without prior notice of warships in marginal seas might give rise to misunderstanding even when they are in transit. Such considerations seem to be the basis for the common practice of States in requesting permission for the entrance of their vessels of war into the ports of other States»5.

Una prima determinazione del significato di passaggio inoffensivo era contenuta nella Convenzione sul Mare Territoriale e la Zona Contigua del 1958 dove, all’articolo 14 e paragrafi veniva riportato che

«passage means navigation through the territorial sea for the purpose either of traversing that sea without entering internal waters, or of proceeding to internal waters, or of making for the high seas from internal waters [14.2] … passage includes stopping and anchoring, but only insofar as the same are incidental to ordinary navigation or rendered necessary by force majeure or by distress [14.3] … passage is innocent so long as it is not prejudicial to the peace, good order or security of the coastal State. Such passage shall take place in conformity with these articles and with other rules of international law»6.

Da quanto si evince, dunque, il passaggio inoffensivo doveva essere tale da non apportare alcun pregiudizio alla pace, al buon ordine e alla sicurezza degli stati rivieraschi. Nel rapporto del 1956 dell’International Law Commission, organo sussidiario permanente delle Nazioni Unite atto a promuovere lo sviluppo e la codificazione del diritto internazionale, erano presentate alcune delle aree all’interno delle quali la regolamentazione statale avrebbe potuto esprimersi e, fra queste, la sicurezza del traffico navale; la protezione delle acque territoriali dall’inquinamento causato dalle navi di passaggio; la conservazione delle risorse ittiche e conseguentemente il diritto di pesca e caccia; qualsiasi genere di rilevamento e indagine idrografica; l’utilizzo della bandiera nazionale7.

Ciò nonostante, il solo criterio della salvaguardia della pace e sicurezza dello stato costiero non risultava essere in grado di contemplare la complessità dei casi in cui una nave potesse transitare in modo inoffensivo attraverso le acque territoriali: ad esempio, all’articolo 14.6 della Convenzione del 1958 si prevedeva un generico “submarines are required to navigate on the surface and to show

their flag”8 non dando alcuna ulteriore specificazione se sommergibili adibiti ad uso militare o

civile e, ancora, all’articolo 16 si contemplava la facoltà per lo stato litoraneo di

5 C.Colombos, The International Law of The Sea, Longmans Green & Co., Londra, 1967, pag. 261. 6 Convention on the Territorial Sea and the Contiguous Zone, 29 aprile 1958, Ginevra, art. 14.

7Yearbook of the International Law Commission, Documents of the eighth session including the report of the

Commission to the General Assembly, vol. II, 1956, pag. 274.

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«without discrimination amongst foreign ships, suspend temporarily in specified areas of its territorial sea the innocent passage of foreign ships if such suspension is essential for the protection of its security. Such suspension shall take effect only after having been duly published»9.

Inoltre, un ulteriore problema che abbisognava di una precisa e specifica disciplina internazionale era quello che faceva riferimento al passaggio inoffensivo delle navi da guerra, questione che fino agli anni cinquanta del XX secolo gli stati avevano trattato con estrema riluttanza in ragione dell’idea che il transito di una nave da battaglia nelle acque territoriali implicasse, in ogni caso, una possibile minaccia alla sicurezza e alla pace. Nel 1917, il premio Nobel per la pace Ellihu Root, politico e giurisperito statunitense, ebbe modo di dichiarare che le navi da guerra non potevano navigare attraverso le acque territoriali di uno stato “without consent because they threaten.

Merchants ships may pass because they do not threaten”10; un simile indirizzo di pensiero escludeva in toto l’eventualità di prevedere un passaggio inoffensivo associato alle navi militari. Durante la conferenza internazionale dell’Aja del 1930 molti paesi fra cui gli Stati Uniti in testa, fecero proprie le considerazioni di Root asserendo che non esistessero

«[…] equivalent rights of warships and merchant ships to traverse the territorial sea, but rather a tendency to favour the view that in times of threat to national security passage of warships could be prohibited, and even the view that in normal times previous authorization, or at least previous notification, was required»11.

Concluso il secondo conflitto mondiale, tuttavia, la direzione generale dei consessi internazionali circa l’opportunità o meno di estendere il diritto di passaggio inoffensivo anche alle navi da guerra, iniziò a subire un deciso cambio di rotta e, già nel 1956, il rapporto annuale dell’International Law Commission all’articolo 24, sezione D, statuiva

«the coastal State may make the passage of warships through the territorial sea subject to previo authorization or notification. Normally it shall grant innocent passage subject to provisions of Articles 17 and 18” e continuava nei commenti allo stesso articolo, “after noting the comments of certain Governments and reviewing the question, the Commission felt obliged to amend this article so as to stress the right of the coastal State to make the right of passage of warships through the territorial sea subject to previous authorization or notification. Where previous authorization is required, it should not normally be subject to conditions other than those laid down in articles 17 and18. In certain parts of the territorial sea, or in certain special circumstances, the coastal State may, however, deem it necessary to limit the right of passage more strictly in the case of warships than in that of merchant ships. […] The majority of the Commission, however, saw no reason to change its view. While it is true that a large number of States do not require previous authorization or notification, the Commission can only welcome this attitude, which displays a laudable respect for the principle of freedom of communications, but this does not mean that a State would

9 Ivi, art. 16.

10 P.C. Jessup, The Law of Territorial Waters and Maritime Jurisdiction, GA Jennings, New York, 1927, pag 120. 11 R.P. Anand, Studies in International Law and History: An Asian Perspectives, Martinus Nijhoff, Leida, 2004, pag. 200.

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not be entitled to require such notification or authorization if it deemed it necessary to take this precautionary measure. Since it admits that the passage of warships through the territorial sea of another State can be considered by that State as a threat to its security, and is aware that a number of States do require previous notification or authorization, the Commission is not in a position to dispute the right of States to take such a measure. But so long as a State has not enacted—and duly published—a restriction upon the right of passage of foreign warships through its territorial sea, such ships may pass through those waters without previous notification or authorization provided that they do not lie in them or put in at a port»12.

In maniera del tutto inattesa le indicazioni della Commissione del Diritto Internazionale furono accolte oltreché dal blocco sovietico (che in linea di principio era da sempre favorevole ad un ampliamento del diritto di passaggio inoffensivo, ma che al momento di sottoporlo al dibattito internazionale aveva storto il naso) persino dagli Stati Uniti (che, al contrario, fino ad allora avevano esibito una solida posizione restrittiva in materia); la vittoria nella guerra mondiale e l’enorme potenza marittima acquisita erano state l’elemento chiave nella determinazione di una nuova concezione strategica globale in cui qualsiasi barriera alla libertà di navigazione, dall’estensione legale delle acque territoriali fino alle limitazioni poste al transito delle navi da guerra, non avrebbe potuto essere tollerata. In aggiunta a tali motivazioni, i paesi della NATO temevano che, senza una puntuale legislazione sul diritto di passaggio inoffensivo, l’URSS avrebbe ottenuto un enorme vantaggio militare potendo liberamente e in maniera del tutto incognita far circolare la propria flotta di sottomarini nucleari13. In realtà, come scrive Anand

«Although a majority of states still wanted the coastal state to have at least the right to require notification, several states which wanted the right of authorization by the coastal state refused to accept this truncated right mentioned in the draft convention. They, therefore, voted against the article in its emasculated form and it was defeated and eliminated from the Convention. Defeated on the substance of the article, the Soviet Union organized sufficient support to ensure that the truncated article did not obtain the requisite two-thirds majority. It was, therefore, not included»14.

Il mancato raggiungimento della soglia dei due terzi della maggioranza dei paesi votanti (che ammontavano complessivamente a ottantasei) per l’approvazione dell’articolo 24 contenuto nella bozza della convenzione, produsse il risultato di eliminare dal testo finale della convenzione del 1958 ogni specifica disciplina prescrittiva sul diritto di passaggio inoffensivo per le navi da guerra.

12 Yearbook of the International Law Commission, Documents of the eighth session including the report of the

Commission to the General Assembly, vol. II, 1956, pagg. 276-277.

13 La flotta di sommergibili militari dell’Unione Sovietica era la più grande al mondo, confronta A.H. Dean, The Geneva

Conference on the Law of the Sea: What was Accomplished, «The American Journal of International Law» (The American Society of International Law), Vol. 52, n°4, 1958, pagg. 607-628, in part. 610-612.

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Unico richiamo al transito delle navi militari in acque territoriali si riscontra all’articolo 23 della convenzione in cui è scritto

«If any warship does not comply with the regulations of the coastal State concerning passage through the territorial sea and disregards any request for compliance which is made to it, the coastal State may require the warship to leave the territorial sea»15.

La mancanza di una regolamentazione precisa, diede adito ad un acceso dibattito fra giuristi e diplomatici circa l’interpretazione di tale silenzio normativo: una prima scuola di pensiero facente capo a giuristi e filosofi della politica del calibro di Hans Kelsen, Gerald Fitzmaurice e Philip Jessup, riteneva che l’assenza di un articolo specifico sul diritto di passaggio inoffensivo per le navi da guerra dovesse leggersi in maniera non restrittiva considerando, all’articolo 14 della convenzione, la locuzione “rules applicable to all ships” quale estensione del concetto di libero passaggio anche alle imbarcazioni militari. Di avviso diametralmente opposto erano esperti di diritto come Ian Brownlie e Grigory Ivanovich Tunkin che sostenevano la tesi secondo cui il termine navi dovesse riferirsi esclusivamente ai natanti mercantili, non includendo quindi tutte quelle categorie di navi militari che, diversamente e per la loro peculiare natura di essere strumenti d’offesa, necessitavano di una espressa e chiara fonte di diritto16. Alla fine, a prevalere fu il secondo

metodo di interpretazione e cioè quel criterio che risolveva la questione del passaggio inoffensivo delle navi da guerra in acque territoriali facendo riferimento alle consuetudini normative del diritto internazionale marittimo: notifica e autorizzazione, pena il divieto di transito o l’assunzione di provvedimenti disciplinari. Evidenzia Max Sørensen, diplomatico e professore danese

«the proceedings of the conference leave no room for doubt that the majority of delegations did not want warships to have the same rights as other ships»17

ed effettivamente bisognerà aspettare più di vent’anni per la formulazione di un assetto legislativo certo.

Nonostante il fallimento delle trattative diplomatiche in relazione alle modalità e alle condizioni in cui una nave da guerra potesse navigare attraverso le acque territoriali di uno stato diverso da quello d’appartenenza, la prima convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, in inglese UNCLOS (United Nation Convention on the Law of the Sea), fu considerata un vero e proprio successo in quanto rappresentava il primo tentativo concreto di sistematizzazione del diritto internazionale marittimo e perché aboliva definitivamente sia la teoria del cosiddetto colpo di cannone (imperium

15 Convention on the Territorial Sea and the Contiguous Zone, 29 aprile 1958, Ginevra, art. 23

16 In linea teorica e volendo generalizzare per mettere ordine, al primo gruppo facevano riferimento gli Stati Uniti e i

paesi NATO, al secondo gruppo l’Unione Sovietica, i paesi del Patto di Varsavia e i paesi del Terzo Mondo quali, nello specifico, Indonesia, Malesia e Filippine.

17 M. Sørensen, “Law of the Sea”, International Conciliation, n°520, Anne Winslow & Agnese N. Lockwood, New York,

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terrae finiri ubi finitur armorum potestas) che delimitava le acque appartenenti alla giurisdizione di uno stato costiero, sia quel concetto di mare liberum di groziana memoria che fino alla conclusione del secondo conflitto mondiale avevano costituito i cardini fondamentali del diritto consuetudinario sul mare18. Soltanto nell’aprile del 1982, dopo anni di riflessioni e dopo un lungo processo di negoziazione, si riuscì a trovare un generale accordo sulle modalità con le quali uno stato era in grado di esercitare la propria sovranità sul mare

«The UN General Assembly called for the third Law of The Sea conference and the third Law of The Sea Convention was put to vote on 30 April 1982. One hundred and thirty states, including India and China, voted yes, four states were against the convention (United States, Israel, Turkey and Venezuela) and seventeen states abstained»19.

Durante i lavori della terza conferenza sul diritto del mare (UNCLOS III), i paesi del Patto di Varsavia, complice il progressivo mutare della posizione sovietica sul piano dei rapporti internazionali, iniziarono ad allentare l’opposizione al diritto di passaggio inoffensivo delle navi militari attraverso le acque territoriali e, insieme a Stati Uniti e NATO, nel 1975 arrivarono alla stipula di un testo di negoziazione informale (Informal Single Negotiating Text), in cui all’articolo 29 veniva previsto un eguale trattamento fra natanti mercantili e militari. Forti resistenze al diritto di passaggio inoffensivo, tuttavia, continuavano a provenire da tutti quelli stati costieri o arcipelagici che ritenevano, non certo a torto, di ritrovarsi altrimenti invischiati fra le manovre di geostrategia marittima delle due superpotenze (fra questi segnatamente Bangladesh, Yugoslavia e Somalia, ma anche Indonesia, Malesia, Filippine)

«it is significant that the revision of the Single Negotiating Text between the 1975 and 1976 sessions of the Conference omitted the reference to warships and thus restored the situation that existed under the 1958 Geneva Convention. The requirement that warships comply with the law and regulations of the coastal state,