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Le teorie che tentano di spiegare il fenomeno pirateria sia in chiave storica che attuale, fanno tutte riferimento a elementi cruciali di tipo politico o economico (o una combinazione di entrambi). Un importante studioso della storia della pirateria nel bacino del Mediterraneo, H. A. Ormerod, ritiene che tale fenomeno costituisca un’estensione delle tradizionali attività di caccia e raccolta delle società arcaiche dovuto, in larga parte, alla presenza di fattori deterministici sfavorevoli allo sviluppo di società agricole stanziali “where the country is narrow, or game scarce, the primitive

inhabitant will take early to the sea”117. Unitamente ai fattori deterministici Hubert Deschamps aggiunge che il brigantaggio marittimo debba essere considerato a tutti gli effetti quale precursore del commercio affermatosi con le prime civiltà fluviali del mondo; solo dopo la costituzione di un insieme di norme e regole sovrintendente al commercio per mare la pirateria ha assunto i connotati negativi con cui è intesa ancora oggi118. Fa notare in proposito Adrian Lapian

«indeed, the notion of piracy only emerged when people had abandoned their Hobbesian existence and established themselves in organized political units and states»119.

Tornando al periodo storico oggetto di analisi, Nicholas Tarling è un appassionato sostenitore della tesi secondo cui il proliferare della pirateria nei secoli XVIII e XIX nel Sud-est asiatico e, più nello specifico, all’interno degli stretti di Malacca e Singapore, non sia altro che il risultato della politica economica di stampo monopolistico portata avanti dalle potenze coloniali presenti nell’area120; non

è un caso, infatti, che alcuni studiosi121 riconducano i frequenti raids dei pirati di etnia Ilanun provenienti da Mindanao alla necessità di ottenere le risorse sufficienti per sostenere le spese di guerra contro i conquistadores spagnoli. In parziale disaccordo con tali teorie, all’inizio degli anni ’80, James F. Warren, propose una lettura alternativa della pirateria marittima nell’Asia di sud-est, sostenendo che la crescita in volume e varietà dei legami commerciali internazionali e la relativa impotenza delle marine militari europee nel garantire la sicurezza delle rotte, avevano contribuito a dare origine a profittevoli opportunità di guadagno tramite l’attività predatoria

«by 1800, regional redistribution had become the dominant pattern of the economy of the Sulu Sultanate. The advent of this expansive pattern, predicated on ever increasing international demand, inter-insular slave

117 H.A. Ormerod, Piracy in the Ancient World: An Essay on Mediterranean History, Liverpool University Press,

Liverpool, 1979, pag. 69.

118 H. Deschamps, Pirates et Flibustiers, Presses Universitaires de France, Parigi, 1952, pag. 11.

119 Adrian B. Lapian, Violence and Armed Robbery in Indonesian Seas in Pirates, Ports, and Coasts in Asia Historical and

Contemporary Perspectives, Institute of Southeast Asian Studies, Leida, 2010, pag. 131.

120 N. Tarling, Piracy and Politics in the Malay World, op. cit.

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raiding, and the littoral-procurement trade, enabled Sulu within the short span of several decades to establish itself as a pre-eminent market centre and regional power. […] Sulu’s ascendancy at the end of the eighteenth century developed out of the expanding trade between India, insular Southeast Asia, and China. Commercial and tributary activity became linked to long-distance marauding and incorporation of captive persons in a system which made Jolo the unrivalled centre for extracted produce for the China trade»122.

Come si è ampiamente documentato nel corso della prima parte di questo lavoro di tesi, la situazione del Sud-est asiatico lungo tutto l’arco del XIX secolo si presentava abbastanza complicata sotto molteplici aspetti: da sottolineare, in primo luogo, la simultanea esistenza di realtà statuali autoctone importanti e economicamente rilevanti impegnate in logoranti guerre interne (per la leadership locale) e coi paesi vicini in lizza con le potenze coloniali europee nel tentativo di strappare qualche aiuto in campo militare o di concludere dei buoni contratti commerciali; secondariamente, proprio la colonizzazione europea contribuì a frammentare il territorio costituendo diverse aree ad influenza britannica (Penang, Singapore, Malacca, dal 1786), spagnola (Manila, dal 1571), olandese (Batavia, dal 1619) e francese (Saigon, dal 1862); infine, l’assenza di confini marittimi ben definiti soprattutto in corrispondenza degli stretti, diede adito ad una successione di dispute e fraintendimenti riguardanti l’effettiva giurisdizione su specifici tratti di mare (dispute e fraintendimenti ancora oggi all’agenda degli stati rivieraschi e della comunità internazionale)123 e che genere di potere vi si dovesse esercitare fra quelli indigeno (delle autorità

locali) o internazionale (coloniale). Su quest’ultimo punto è interessante riportare l’analisi proposta da Adrian B. Lapian124 che tratteggia tre tipi differenti ma, al contempo, complementari di potere

sul mare. Il primo è il cosiddetto Raja Laut, letteralmente il re del mare, termine preso in prestito dalle gerarchie degli antichi regni della costa est di Sumatra che veniva utilizzato per indicare il comandante della flotta e nei regni marittimi più piccoli, privi di una reale potenza navale, rappresentava una sorta di carica onorifica che veniva attribuita direttamente al sovrano o ad un alto ufficiale. Scrive Lapian

«the RL represents the legittimate kind of sea power. And in this context, foreign, that is, Western, naval forces – although initially regarded as unlawful intruders in the region, had eventually developed into virtual RL, and as such, commanded respect from the indigenous RL. At the close of the nineteenth century they had gained a dominant position and became the superpowers in the area, the super-RL. Just like the

122 J.F. Warren, The Sulu Zone, 1768-1898: The Dynamics of External Trade, Slavery, and Ethnicity in the

Transformation of a Southeast Asian Maritime State, National University of Singapore Press, Singapore, 2007, pagg. 3- 4.

123 Vedi parte II.

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superpowers of the twentieth century who possessed the monopoly of nuclear technology, these super-RL jealously guarded their hold on steam energy»125.

Secondo lo schema di Lapian, pertanto, una delle componenti essenziali per esercitare il potere sul mare era la nave a vapore quindi, per traslato, la tecnologia; in realtà, i benefici legati ai miglioramenti della tecnologia navale, per essere goduti, abbisognavano di personale altamente qualificato in grado di padroneggiare al meglio il know-how sufficiente ad utilizzare i nuovi macchinari e, per tale ragione, l’accesso alla tecnologia a vapore degli stati autoctoni dell’area risultava essere fortemente limitato. Molto spesso, accadeva che le poche navi a vapore di cui disponeva il sovrano di un regno marittimo fossero comandate e gestite da personale straniero (europeo) costituendo, di fatto, l’elemento di raccordo più tangibile fra l’autorità locale e quella internazionale.

«In the 1870s, the Sultan of brunei’s steamship Sultana had a British commander. Earlier, in the mid-1860s, the Annamese king in Hué tried to buy a steamship in Singapore. The movements of the king’s agent were stealthily watched by the local French consul who was relieved when he was able to report that the agent’s efforts had failed. Later, in the 1880s, the king could obtain a small steamboat in Hong Kong with the help of the French, but then French control over Indocina was already firmly established” e, ancora, “a similar event happened in Manguindanao in 1855 when a Spanish colonel, was officially installed as Datto del Mar by sultan […]. Although he was a colonel of the infantry, the deed should not be regarded as unvano honor, because as such he would be commanding the embarcacion mahometana which, it is hoped, would put an end to the piratical activities of the Manguindanaos»126.

Il secondo tipo di potere sul mare, sempre seguendo quanto descritto da Lapian, è quello del Bajak

Laut che può definirsi a tutti gli effetti la controparte del Raja Laut, rappresentando, infatti,

l’equivalente di pirateria e stando ad indicare ogni atto di violenza perpetrato in mare da un potere diverso da quello istituzionale e privo di qualsiasi legame con esso. È interessante notare come lo schema escluda la possibilità di una commistione fra potere legittimo e illegittimo, non ammettendo o ignorando la distinzione fra pirata e corsaro. Nella realtà dei fatti, la differenza fra i due termini assume dei connotati meno marcati e si arricchisce di sfumature e stravolgimenti di senso in relazione alle diverse aree geografiche e condizioni sociali e politiche degli osservatori: le prime spedizioni navali della Compagnia Olandese delle indie orientali, ad esempio, erano percepite come Bajak Laut dalle popolazioni del golfo del Bengala e venivano etichettate col termine Olondaz (pirati, atti di pirateria127). In indonesiano interi gruppi etnici fanno riferimento alla figura del pirata,

alcuni di essi sono gli Ilanun, i Mangindanao, i Tobelo (i primi due filippini, il terzo indonesiano,

125 A.B. Lapian, Violence and Armed Robbery in Indonesian Seas op. cit. pag. 133. 126 Ivi, pag. 134.

127 Confronta, L. Douw, Unsettled frontiers and transnational linkages: new tasks for the historian of modern Asia,

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arcipelago delle Maluku); nel XVII secolo anche il nome Papua stava ad indicare pirata nella regione indonesiana di Banda, probabilmente legato al fatto che quelle acque fossero sistematicamente battute da temibili razziatori papuanesi. Bajak Laut, allora, diventa un termine che non caratterizza esclusivamente un individuo in base alla propria posizione di potere sul mare ma va a ricomprendere un insieme etnico, sociale e geografico che contribuisce ad estenderne il significato: interessante è il caso dell’isola Balangingi nell’arcipelago delle Sulu nota per essere stato un importante rifugio di pirati filippini e malesi

«the Balangingi were a mixture of local people and sailors from elsewhere, including ex-slaves, who had grown as a maritime community mostly committed to magoorap (pirating), becoming real rivals of Taosug»128

in makassarese antico il termine balangingi ha assunto la connotazione di pirata e, ancora oggi, indica una persona maleducata o dai modi particolarmente rudi andando a sottolineare, in maniera esplicita, l’importanza che la geografia riveste nel definire un gruppo di individui. Oltre a cooperare fra di loro, i Bajak Laut erano soliti intessere legami con i poteri istituzionali e con i Raja Laut, avvicinandosi in maggior misura alla figura del corsaro comunemente nota. Nel Tuhfat al-Nafis, un antico testo storiografico del 1885, si racconta di come il sultano Mahmud di Riau assoldò una flotta di prahos di pirati Ilanun col preciso mandato di taglieggiare le rotte marittime olandesi per tentare di porre un freno al monopolio della VOC sul commercio dello stagno

«the Ilanun had already entered by the Terusan. A great uproar broke out in Riau, and the Dutch ordered the cannon to be loaded to fire on the Ilanun perahu while the penjajab in the Riau River were made ready and pretended that they would open fire. The Ilanun approached Tanjung Pinang and the penjajab fired on them, but only with blanks, so they were able to land and make an assault on Tanjung Pinang. The Dutch put up a strong opposition, and many were killed, but those that were still alive took to their keci or belah semangka and sailed to Malacca»129.

In aggiunta alla cooperazione per motivazioni eminentemente economiche i Bajak Laut stringevano alleanze con i poteri istituzionali anche per ottenere equipaggiamento bellico (armi e imbarcazioni); Singapore, ad esempio, era uno dei principali punti di riferimento per la compravendita di materiali militari. Inoltre, la continua richiesta di manodopera da parte dei potentati locali, favorì lo sviluppo di una macabra tratta di esseri umani fra le Filippine, il Borneo e Sumatra, in cui i Bajak Laut giocavano un ruolo di fondamentale rilevanza costituendo i principali fornitori di tale “mercanzia”. L’ultimo tipo di potere sul mare è quello dell’Orang Laut il cui nome in origine designava tutte quelle comunità marittime degli Stretti di Malacca e Singapore che erano solite vivere su piccoli

128 J.F. Warren, The Sulu Zone, 1768-1898, op. cit. vedi appendice.

129 A cura di V. Matheson e B. Watson Andaya, Raja Ali Haji ibn Ahmad, The Precious Gift (Tuhfat al-Nafis), Oxford

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natanti in continuo movimento (per tale ragione erano anche noti come nomadi di mare, Rakyat

Laut). Quantunque al giorno d’oggi tali popolazioni si confondano all’interno dei confini dei

moderni stati nazionali o ne siano state interamente assorbite, fino a buona parte del XX secolo hanno condotto un’esistenza autonoma rispetto alle realtà rivierasche locali. Come sottolinea Lapian, da un punto di vista squisitamente teorico, non è corretto considerare gli Orang laut come aventi un reale potere marittimo in quanto non disponevano di una flotta militare e preferivano evitare di inserirsi attivamente nel circuito delle razzie di stampo piratesco e delle contese fra stati e, tuttavia, esisteva una qualche genere di relazione fra Raja Laut, Bajak Laut e popoli nomadi: in un rapporto del 1853 si legge di come il sultano di Gunung Tabur a Kalimantan est fosse solito rifornire gli Orang Laut locali di vestiti e altri beni di prima necessità in cambio di gusci di tartaruga e nidi di uccelli130. I legami fra Orang Laut e Raja Laut andarono a configurarsi in una vera e propria rete di relazioni in cui i primi godevano della protezione dei secondi in cambio di beni e conoscenze sulla navigazione; persino i poteri coloniali si servivano delle abilità marittime dei Rakyat. Il rapporto con i Bajak Laut è più complesso da stabilire in quanto la cooperazione fra questi due poteri si fondava su rapporti di occasionale interesse; paradigmatico il caso di Abdul Rahman, Temenggong di Singapore, che fra il 1819 e il 1825 dovette occuparsi di porre un freno alle scorrerie delle comunità marittime di Orang Laut che avevano reso insicure le acque prospicienti l’isola131. È importante e al contempo curioso rilevare il fatto che la figura dell’Orang

Laut sia quella che maggiormente si avvicini alla semantica originaria del termine greco

ovvero avventuriero, colui che cerca fortuna per mare.

Come si è abbondantemente scritto in precedenza, dalla seconda metà XIX secolo, le rivalità fra le potenze coloniali nel Sud-est asiatico erano diventate, fatto salvo alcune rare eccezioni132, delle mere questioni di politica internazionale, in cui il tavolo della diplomazia e gli accordi bilaterali erano andati a sostituire la forza persuasiva dei cannoni. La Gran Bretagna, uscita vincitrice dalle guerre napoleoniche, si configurava quale forza economica e militare dominante in Asia (e non solo) e, in accordo con i propri vicini europei, Paesi Bassi, Francia e Spagna, aveva cominciato a costruire le fondamenta di quello che sarebbe diventato il diritto internazionale universalmente riconosciuto. Sottolinea ancora una volta il prof. Lapian

130 A.B. Lapian, Violence and Armed Robbery in Indonesian Seas, op, cit. pag. 137.

131 C.A. Trocki, Prince of Pirates. The Temenggongs and the development of Johor and Singapore 1784-1885, Singapore

University Press, Singapore, 1979, capitolo II.

132 Ad esempio la guerra Ispano-americana del 1898 a seguito della quale, il governo di Madrid dovette cedere l’intera

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«it was a time when Western concepts of sovereignty, of law and order, of just and un just behaviour, were becoming the standard in International relations in Southeast Asia. As for the local RL, they did not have any other options»133.

Per tale ragione, il concetto stesso di pirateria venne utilizzato in maniera strumentale per indicare ogni atto ostile rivolto alle marine mercantile e militari delle nuove entità politiche coloniali europee: come si è avuto modo di vedere in precedenza, Tungku Udin, uno fra i capi militari che avevano guidato la resistenza all’occupazione di Kedah da parte dell’impero del Siam, era stato etichettato dalle autorità britanniche quale individuo colpevole di pirateria; allo stesso modo gli olandesi, con regio decreto del 1876, avevano esteso il concetto di pirateria ad ogni atto di violenza commesso lungo le coste, le linee marittime di comunicazione, i porti e gli estuarii dei fiumi. Il regime di collaborazione fra le potenze coloniali sul tema pirateria (nel senso più ampio del termine) è ben descritto da un decreto del governo coloniale britannico degli stretti del 1883134, in cui si bandiva la vendita di armi ai nativi pena ingenti multe o i lavori forzati; tale iniziativa era stata presa su richiesta del governatore di Batavia che per tutto il corso degli anni sessanta dell’800 aveva dovuto fare i conti con una strenua lotta di resistenza a Jambi e Kalimantan in cui i ribelli locali andavano a rifornirsi di armi e munizioni nel libero mercato di Singapore. Dalla seconda metà del XIX secolo fino ai primi anni del novecento, si realizzò il processo di assorbimento delle realtà politiche autoctone all’interno degli imperi coloniali e, da quel momento in avanti, RL, BL e OL, iniziarono a confondersi vicendevolmente e ad aggiustare il proprio modus operandi in ragione delle mutate condizioni internazionali (vedi parte II). Il trattato anglo-olandese del 2 novembre 1871 unitamente al protocollo di Madrid dell’11 marzo 1877, rappresentarono i due capisaldi del dominio europeo sul Sud-est asiatico decretando, almeno formalmente, la fine degli ultimi due regni autonomi dell’area: il Sultanato di Sulu (1878) e il Sultanato di Aceh (1904).

133 A.B. Lapian, Violence and Armed Robbery in Indonesian Seas, op. cit. pag. 138. 134 «Singapore and Straits directory» Fraser & Neave, n°6, Singapore, 1883.

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Paragrafo 3.2: Dall’Operation Mudlark alla decolonizzazione, la pirateria si adatta ai