“Fabula rasa”: poetica e retorica del Nuovo Romanzo
J. B AUDRILLARD «Je est un autre» Quasi chiunque ricorderà la celeberrima rivendicazione con
cui l’Arthur Rimbaud della “lettera del veggente” poneva una mai scontata distinzio- ne tra l’io reale e l’io finzionale. Gran parte dei critici, oggi, è pronta a prenderne le difese, a sposarne la sostanza. Per molti di essi, addirittura, è ben chiaro che l’operazione concettuale di Rimbaud modifica lo statuto dell’io, che non è qui l’io pensante, ma, appunto, un io pensato, un oggetto di autoriflessione, come dimostra il verbo declinato alla terza persona «io è». Si potrebbe rileggere alla luce di ciò, oggi, un romanzo tanto singolare quanto decisivo nel panorama della neoavanguardia ita- liana come Il Giuoco dell’Oca di Edoardo Sanguineti439. Si potrebbe rileggerlo, cioè,
come estrema e dimostrativa esternazione della convenzionalità dei meccanismi let- terari, secondo due direttrici specifiche: l’identificazione tra l’io finzionale e l’io reale, da un lato; l’identificazione del lettore con i personaggi della finzione, dall’altro. Ma
Federico Fastelli
187
già sulla parola romanzo bisognerà specificare: Il Giuoco dell’Oca non appare, a tutta prima, come un “romanzo” nel senso canonico del termine, né sarà assimilabile a quegli esempi di antiromanzo che sono intervenuti, più o meno efficacemente, sul livello della narrazione moltiplicandola, serializzandola, decostruendola, rendendola paradossale, incoerente o esplosa440. Meglio: l’opera di Sanguineti non sembra agire
solamente sul piano narratologico; essa interviene, a ben vedere, a livello dello statu- to dell’oggetto libro, in maniera non dissimile dai “romanzi combinatori o potenzia- li” che vedremo nel prossimo paragrafo441, ovvero da quelle modalità compositive
della Pop Art, che – abbiamo già accennato – rivoluzionano la posizione concettuale del soggetto di fronte all’opera d’arte, e dunque la funzione di questa nella società. Converrà andare con ordine.
Dalla data della prima pubblicazione, avvenuta per i tipi di Feltrinelli nel 1967, ad oggi, molto è stato detto e scritto sul significato e sulla portata in senso lato sim- bolica dell’opera. Talvolta l’accento è stato posto sul dato dell’innovazione stilistico- formale, dell’irriverenza avanguardista, sul tentativo di sabotaggio della struttura realistico-borghese della forma romanzesca442; tal altra, avvicinandosi maggiormente
al dato che qui cercheremo di mettere in luce, e che crediamo centrale, si è insistito
440 Si fa qui riferimento non solamente alle esperienze italiane, ma, come già ricordato (cfr. supra II,1) ad una tendenza internazionale a forzare i limiti del romanzo tradizionale. Pleonastico, forse, ripetere nuo- vamente i nomi di Pynchon, Barth, Nabokov, Burroughs accanto a quelli dei i nouveaux romancieurs francesi.
441 Il riferimento è in particolare al Saporta di Composition no. 1 e al Balestrini di Tristano. Si veda infra, II,3.5.
442 Emblematica è la recente lettura di Gilda Policastro. Cfr. G. Policastro, I romanzi: Capriccio italiano e Il Giuoco dell’Oca, in Ead., Sanguineti, Palermo, Palumbo, 2009, p. 27: «pur recuperando e riproponen- do la forma di narrazione di maggior credito e successo (ossia il romanzo), Sanguineti ne viola sistemati- camente i codici, disattendendo ad ogni livello l’aspettativa di chi legge. Pressoché inafferrabile la trama, inconsistenti come individui identificati da azioni e convenzioni tradizionali i personaggi, irrisolto (o risolto in un modo che dichiaratamente irride alla aspettative del lettore) il finale: è a questa rimarcata istanza del sovvertimento o “sabotaggio” programmatico (come Sanguineti dirà, con definizione rimasta celebre, nell’intervento scritto per il ventennale di Palermo, e apparso poi su “Alfabeta”, 69, 1985) che consegue la celebre avversione sanguinetiana al romanzo ben fatto (o, viceversa, è da quest’ultima che trae alimento il sabotaggio), culminata nella celebre boutade su scrittori come Bassani e Cassola, declas- sati dall’autore, nel corso di un’occasione orale più volte variamente rammentata negli anni a seguire, a “Liale del ‘63”».
Federico Fastelli
sull’aspetto pop del testo, sul suo calarsi, ma importa che sia un calarsi imperfetto, nei miti della società dei consumi. De Matteis:
Sanguineti sposta l’obiettivo, dal territorio mitico del profondo, al campo aperto di una fenomenologa immaginativa della civiltà di massa contemporanea443.
Gabriella Sica:
Il Giuoco dell’Oca è uno sforbiciamento della mitologia insieme letteraria e collettiva, nient’altro dunque che un romanzo pop; un romanzo che, proprio come la Pop Art, utilizza materiali di recupero, non originari, unici, ma appartenenti a una serie444.
Comunque la si pensi, vi sono ragioni più che valide che, soprattutto quando os- servate da una prospettiva sociologico-letteraria, riconnettono l’opera sanguinetiana a una matrice prettamente romanzesca: Il Giuoco dell’Oca, infatti, si pone prima di tutto come un tentativo di restituzione testuale dell’ideologia borghese della società dei consumi, attraverso – e questa è la scommessa sanguinetiana – il proprio stesso linguaggio. E cos’è il romanzo moderno se non quella forma di comunicazione arti- stica che funziona da sistema di autonarrazione e autodefinizione della società bor- ghese445? Non rifletterà forse, l’opera sanguinetiana, sullo scollamento tra due diffe-
443 C. De Matteis, Neoavanguardia e altri sperimentalismi, in Id., Profilo del romanzo italiano del Nove- cento. Da Svevo a Siti, L’Aquila, Arkhé, 2008, p. 254.
444 G. Sica, Sanguineti, Firenze, La Nuova Italia, 1974, p. 71.
445 Come noto, già il György Lukács della Teoria del romanzo segnalava che nella storia delle forme lette- rarie a una fase epica succede una fase romanzesca. Se nella prima, secondo il critico, vi era una sostan- ziale omologia tra la totalità del mondo e l’epopea che lo rappresentava, nella seconda domina il fram- mento, il difforme, l’eterogeneo, poiché la possibilità di ridare unità alla rappresentazione del mondo è come smarrita, benché se ne conservi l’aspirazione. Tale perdita, secondo Lukács, si perfeziona proprio con l’avvento e il dominio della borghesia, e, si ricorderà, trova ne L’educazione sentimentale di Flaubert il proprio momento di pieno compimento. L’omologia tra forma romanzesca e lo sviluppo della società borghese sarà uno dei tratti distintivi dell’opera critica di Lucien Goldmann. Cfr. L. Goldmann, Per una sociologia del romanzo [1964], Milano, Bompiani, 1967, nonché Id., Le due avanguardie, in Id., Le due avanguardie e altre ricerche sociologiche, cit., pp. 27-56. Tra i contributi recenti che affrontano questi no- di concettuali si veda anche C. Magris, È pensabile il romanzo senza il mondo moderno?, in Il romanzo. La cultura del romanzo, a cura di F. Moretti, vol. I, Torino, Einaudi, 2001, pp. 869-870: «il romanzo na- sce e cresce quando si sgretolano quella civiltà agraria e quell’ordine feudale, specchio di strutture peren- ni – o quantomeno di lunghissima durata – dell’essere […]. Il romanzo è il mondo moderno; non solo non potrebbe esistere senza di esso, come un’onda senza il mare, ma per taluni aspetti si identifica con
Federico Fastelli
189
renti modelli di sviluppo borghese, mostrando le differenze tra la presente società dei consumi, e, per reciproco, quella della grande borghesia ottocentesca e primo nove- centesca446?
Ammessa e non concessa, allora, la legittimità di questa prospettiva, non sor- prende che Il Giuoco dell’Oca venga consegnato alla lettura privo di profondità, e, solo apparentemente – ma ciò è ovvio – di qualità estetiche, di sapienza letteraria. Contemporaneamente, però, esso risulta alieno, come incapace di definire corretta- mente il campo della propria narrazione, inabile cioè a comunicare con precisione ciò che pure si prodiga a descrivere e raccontare, almeno sino a che non si compren- dano le regole del gioco ivi proposto. Se l’avvento dell’industria culturale come pre- supposto sociale ed economico, la pervasività e per così dire l’impertinenza della so- cietà dei consumi e dei suoi simboli sono le premesse del discorso sanguinetiano, es- so sembra eccedere un livello di critica aperta nei confronti di tali aspetti, per inau- gurare una riflessione in merito alla percezione stessa dell’uomo-consumatore. Co- me hanno spiegato Deleuze e Guattari nell’Anti-Edipo il «rapporto distintivo uomo- natura, industria-natura, società-natura, condiziona […] nella società la distinzione di sfere relativamente autonome che si chiameranno “produzione”, “distribuzione”, “consumo”»447. La sovrapposizione tra industria e natura, evidente in molti Nuovi
Romanzi di cui abbiamo parlato, e emblematicamente impressa nella scena del “ri- storante automatico” delle Gomme – si ricorderà la descrizione del pomodoro nel piatto di Wallas448 –, è immagine di una società nella quale produzione, distribuzione
e consumo si compenetrano, una società, cioè, che inizia a prendere coscienza di quel “consumo di consumo” che sarà tratto distintivo di tutta la postmodernità. La separazione tra produzione, distribuzione e consumo, infatti, «presuppone (come ha mostrato Marx) non solo il capitale e la divisione del lavoro, ma la falsa coscienza che l’essere capitalista ha necessariamente di sé e degli elementi irrigiditi d’un pro- esso, ne è la mutevole espressione, come lo sguardo o la piega di una bocca sono l’espressione di un vi- so».
446 Cfr. A. Guglielmi, Vero o falso, Milano, Feltrinelli, 1968, p. 143: «il romanzo come proposta di avven- tura è morto (nato con l’esplosione della civiltà individualista e ipocrita del primo capitalismo è trapassa- to con essa) e al suo posto è subentrato il romanzo in quanto invenzione di forme».
447 G. Deleuze, F. Guattari, Le macchine desideranti, in Eid., L’antiedipo. Capitalismo e schizofrenia [1972], Torino, Einaudi, 20022, p. 5.
448 Cfr. supra II,2.
Federico Fastelli
cesso d’insieme»449. Quindi, laddove venga meno la percezione stessa di questa con-
dizione imprescindibile al Capitale – la divisione del lavoro – «la produzione è im- mediatamente consumo e registrazione, la registrazione e il consumo determinano immediatamente la produzione, ma la determinano in seno alla produzione stessa. Cosicché tutto è produzione: produzioni di produzioni, di azioni e di passioni; pro- duzioni di registrazioni, di distribuzioni e di punti di riferimento; produzione di consumi, di voluttà, d’angosce e di dolori»450. A partire dalla società neocapitalista
degli anni Sessanta, attraverso una sorta di rispecchiamento allegorico, Sanguineti appronta il suo “tabellone-catalogo”451 all’insegna di una sovrapposizione (“superpo-
sitions”) tra soggetto e oggetto, narratore e narrato, produzione e consumo che fini- sce per simulare letterariamente lo stesso fenomeno del “consumo di consumo”. Ciò non solo nella forma già incontrata in molti altri autori della “letteratura di letteratu- ra” – necessario adeguamento estetico, artistico e letterario ad una società che rag- giunge il massimo della con-fusione tra industria e natura –, ma a livello percettivo, nella messa in opera di una pervicace schizofrenia nei distinti livelli del romanzo. Se lo schizofrenico, come hanno spiegato ancora Deleuze e Guattari, «è il produttore universale»452, esso, nella società neocapitalista, assume pure i tratti del “prodotto
universale”, in quanto risultato di una forza sclerotizzante che gli oggetti e i miti moderni esercitano sull’intera cultura. Sanguineti, quindi, non fa che restituire quel- lo «straripante e magniloquente bazar della società dei consumi»453 di cui ha parlato
Gabriella Sica, attraverso la lente idiosincratica di un io-narrante con cui volta volta il lettore dovrà cercare di identificarsi. Tuttavia, tale io-narrante presenta delle parti-
449 Ibidem.
450 Ibidem. Vale la pena aggiungere, anche considerate le implicazioni e la situazione attuale dell’economia nel mondo occidentale, che negli anni in cui scrivono Deleuze e Guattari si pongono le basi teorico-tecniche per l’evoluzione finanziaria della produzione capitalistica. Tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta, ancora, non si era definito convincentemente l’assetto finale di ciò che i due filosofi chia- mano produzione di produzione. Le conseguenze sono oggi, di contro, sotto gli occhi di tutti.
451 Cfr. C. De Matteis, Neoavanguardia e altri sperimentalismi, cit., p. 254: «un po’ come avviene nell’arte pop, il romanzo di Sanguineti celebra impassibile il trionfo dell’effimero e del degradato, la crisi definiti- va dell’oggetto, ovvero del testo come prodotto irripetibile, ridotto a montaggio di elementi già dati, rici- clati all’infinito. Sulle ceneri dell’opera-messaggio, dell’opera-creazione, dell’opera-ragione, la scrittura si esibisce in un Totentanz spettacolare che mostra i segni di un’allegra disperazione».
452 G. Deleuze, F. Guattari, Le macchine desideranti, cit., p. 8. 453 G. Sica, Sanguineti, cit., p. 71.
Federico Fastelli
191
colarità che problematizzano il processo di identificazione. Come ha ben compreso Massimiliano Borelli, infatti, la pratica ecfrastica che struttura Il giuoco dell’oca è da mettere in stretta relazione con la pratica psicanalitica del Test di Appercezione Te- matica, pure alla base della raccolta poetica T.A.T. In questi test l’analista presenta una serie di tavole, fotografie o quadri e chiede al paziente di costruire delle storie coerenti con un passato e un futuro. In questo senso, tale pratica proiettiva trasferita in letteratura diventa strumento autoriflessivo relativamente ai processi di identifica- zione tra l’io poetico e l’io reale, nonché a quelli di immedesimazione del lettore con l’io. Ed è appunto per questo che l’io sanguinetiano, evidentemente affetto da una forma di schizofrenia patologica, diventa un io-pensato, vero e proprio oggetto di cui il soggetto lettore deve prendere possesso. L’impressione spiazzante della patologia, difatti, è “significata” solo dall’intervento dal lettore stesso ed istituisce proprio per- ciò un rapporto dialettico tra l’io finzionale e l’io reale, il quale io reale è già a sua volta di natura problematica, l’autore-analista essendone solo l’estensore, e niente affatto il referente reale. Il “bazar” di cui parla Sica, pure inserito in una congeniale cornice – il tabellone del gioco dell’oca appunto454 –, non riesce quindi a strutturarsi
in altro modo che per semplice giustapposizione di singole istantanee. La multifor- mità che ne risulta annichilisce la forma del romanzo moderno realista e borghese, la priva dell’azione, di chi la compie, la priva dei tempi e degli spazi che normalmente la sovrintendono, in una apertissima allegoria della società di massa. In un’intervista rilasciata ad Antonio Gnoli, è stato lo stesso Sanguineti a dichiarare che la società contemporanea vive in «un collage di cose eterogenee e accumulate»455 e quindi si
tratta «non tanto di sistemarlo, il disordine, quanto di sistemarlo evidenziando il la- birinto»456. Tale disordine, ne Il Giuoco dell’Oca, sminuisce il ruolo del protagonista-
narratore e trasferisce metaforicamente il compimento dell’avventura romanzesca
454 Si consideri che la scelta del gioco dell’oca non è casuale né banale. Come hanno scritto Silvia Masche- roni e Bianca Tinti «il modello originario si rivela, con l’andar del tempo, estremamente duttile, in grado di trasformarsi e di arricchirsi con varianti finalizzate, di volta in volta, alla trasmissione di valori e cono- scenze relative ai campi più diversi». Cfr. S. Mascheroni, B. Tinti, Il gioco dell’oca. Un libro da leggere, da guardare, da giocare, Milano, Bompiani, 1981, p. 21.
455 E. Sanguineti, Sanguineti’s song. Conversazioni immorali, a cura di A. Gnoli, Milano, Feltrinelli, 2006, p. 21.
456 Ibidem.
Federico Fastelli
dal personaggio al lettore - je est un autre, si diceva. Quest’ultimo, così, viene tra- sformato in personaggio finzionale, mentre il primo è semplicemente ridotto a pura funzione verbale. Una funzione verbale il cui fine si riassume nella messa in luce di un’insufficienza linguistica: l’io narrativo, infatti, non può identificarsi pienamente con quelle nuove mitologie che, immagine dopo immagine, cella dopo cella, egli stesso va elencando. La morte del personaggio-narratore è pure segnalata metanarra- tivamente alla casella 44, a proposito della quale la nota paratestuale avverte: «ma chi arriva al 44, se è accorto si ferma per due giri: perché la sosta è importante». Ora, l’importanza di tale casella, già segnalata da Borelli, è data soprattutto dal fatto che qui l’io narrativo tenta di identificarsi con il creatore del tabellone del gioco:
mi faccio il mio monumentino, lì dentro la mia bara, un po’ per mia moglie. È un monumentino a due piani. È come le vetrinette del Kurfürstendamm, che stanno da- vanti ai negozi e ai ristoranti, con le luci accese, di sera, sul marciapiede. Ci incollo tutto quello che posso, lì nel monumentino, al piano sopra e al piano sotto delle cose mie457.
Quasi come in una mise en abîme, l’immagine della casella contiene la cornice stessa del romanzo. L’io narrativo sta infatti creando un album con una serie di og- getti che gli appartengono. Il tono – tra l’ironico e il distaccato – cozza con l’immagine funerea e faustiana che domina la scena, e si notino i termini “monu- mentino”, per il tabellone che si sta disegnando, e “bara”, a intendere probabilmente il luogo di lavoro, la stanza, del soggetto narrativo. La crisi a cui l’atto creatore tenta di porre rimedio si fa dunque immagine allegorica della crisi del romanzo tradizio- nale. Importa, però, che tale “atto creatore” proceda attraverso una riutilizzazione di materiali polimorfi, piuttosto che con una creazione ex nihilo:
ci incollo le vecchie lettere che ho, i biglietti del tram, le tessere scadute, i programmi dei concerti del Conservatorio, un certificato di cittadinanza italiana del 1954, un pettine con i denti rotti, il ritratto di Jakob Meyer di Hans Holbein il Giovane, un pezzo di carta a quadretti dove c’è scritto: è un fatto, una pianta di Bruxelles, con una croce segnata in rue Belliard, dietro a St. Joseph, nella direzione del Parc Leopold. Ci incollo anche un pianeta della fortuna, tutto blu, con una testa d’uomo tutta nera,
Federico Fastelli
193
dello Stabilimento Tipografico G. Pennaroli, che dice di giocare 4 – 12 – 6, e dice: Vi consiglio di lavorare allegramente, di amare una donna sola e di interessarvi degli af- fari vostri e poco di quelli degli altri. Poi ci metto le mie scarpe da tennis usate, lì al piano di sotto. Sembra un portascarpe, così, il monumentino. Poi ci incollo qualche fotografia di mia moglie, lì, ancora. C’è quella dove lei è in bicicletta, da ragazzina, in campagna, davanti a un grande albero di mele, vicino a un paracarro, in una strada camionabile. In un’altra fotografia, invece, che deve essere dello stesso periodo, lei è seduta sopra un mucchio di pietre, al mare, abbracciata a un’amica. Poi ci sono le al- tre fotografie. Sono otto o nove. Sono quelle dove lei è più giovane ancora, grassa che ci scoppia, come era davvero grassa, lei, allora, quando era ancora bambina. C’è an- che quella fotografia formato tessera, dove lei ride, del fotostudio G. Rossi, via Frejus 49, Torino458.
La trama del romanzo, se di trama è lecito parlare, si riduce, così, ad una sorta di ricostruzione ecfrastica di una serie di “immagini di catalogo”, le tavole del Test di Appercezione, come recita la dedica a Luciana, in calce al romanzo:
per Luciana, perché ci giuochi:
ce n’est pas que superpositions d’images de catalogue:
Da un punto di vista prettamente narratologico l’operazione si palesa come se- minale: non fanno forse qualcosa di molto simile scrittori come Calvino quando, pur a partire da elementi pretestuali diversi – i tarocchi, ad esempio –, replicano una moltiplicazione delle narrazioni secondo una sorta di schema organizzato da alcune immagini? Nel Castello dei destini incrociati la narrazione, a ben vedere, si avvia sempre dall’immagine di una carta, esattamente nello stesso modo in cui, nel Giuoco dell’Oca, essa coincide con la descrizione della casella del tabellone disegnato da San- guineti. Ma se nel romanzo di Calvino la catena delle immagini funziona anche co- me un pretesto per attivare la narrazione, nel Giuoco dell’Oca l’azione si riduce, ca- sella dopo casella, ad una rigida e straniata descrizione, secondo quanto disposto dal- le modalità del test psicologico-comportamentale di cui il tabellone del gioco dell’oca non è altro che lo specchio. Sanguineti, così, fa quasi sprofondare il proprio io fin-
458 Ivi, pp. 95-96.
Federico Fastelli
zionale nell’immagine che pure tenta di tradurre verbalmente: la sovrapposizione tra il narratore e, di volta in volta, uno dei personaggi o degli oggetti descritti corrispon- de, al contrario di quanto avviene nel Castello, alla perdita del potere creativo del lin- guaggio. Così, mentre in Calvino l’oggetto visuale attiva nel narratore una sorta di capacità regressiva che risale la tradizione narrativa sino al mito, passando, tra l’altro, da quel deposito dell’immaginario che sono i racconti cavallereschi, in San- guineti la descrizione si blocca su se stessa e invita il lettore ad offrire il supplemento della sua partecipazione attiva per darle significato. Il risultato appare come l’esasperazione dei limiti di un linguaggio volontariamente superficializzato e so- stanzialmente orfano di una tradizione narrativa che lo sorregga. Certo, la fedeltà a