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“Fabula rasa”: poetica e retorica del Nuovo Romanzo

A. A RBASINO Come writers and critics

1.2 Lo sbarco americano

I nuovi tipi di ordine ten- dono, naturalmente, ad apparire come un preme- ditato disordine.

S.SONTAG

L’accostamento tra Robbe-Grillet, John Barth, William Burroughs e Vladi- mir Nabokov, esplicitamente praticato da Fiedler in nome di una stessa idea di “morte” del romanzo, è a ben vedere lo specchio di una congiunzione sostanziale, oggi comunemente avversata, tra la sperimentazione artistica americana e quella francese nel dopoguerra. Si interpreti allora l’evoluzione del romanzo nella prima fase della postmodernità come criticamente “decostruttiva”, ovvero la si consideri semplicemente “distruttiva”, annichilente o negativa, il parallelo avanzato dal critico americano è indicativo di un rapporto che, per quanto detto sopra, potrebbe anche estendersi alla sperimentazione narrativa della neoavanguardia italiana. Molti degli studiosi che si sono occupati di romanzo postmodernista americano, al contrario, hanno insistito piuttosto sulle ragioni di una fondamentale incompatibilità tra le prime esperienze postmoderne degli Stati Uniti e quelle europee: l’essenza del post- modernismo statunitense, infatti, sarebbe vieppiù misconosciuta, sterilizzata o peg- gio fraintesa nel momento stesso della sua ricezione. Ciò dipenderebbe, per l’esattezza, dalla tendenza ad assimilare lo sperimentalismo dei romanzi americani con quello dei movimenti di neoavanguardia.

Effettivamente, scorrendo un inserto pubblicitario dedicato al romanzo V. di Thomas Pynchon apparso su «La Stampa» del 19 giugno 1965, si può avere un chiarissimo esempio di cosa doveva colpire la critica italiana in quegli anni:

“l’opera più complessa apparsa nella narrativa americana dai tempi di Faulkner (New York Review of Books)”.

“il romanzo d’avanguardia per eccellenza, nella corrente stagione americana (Paolo Milano, L’espresso)”.

“una allegoria dell’alienazione moderna, ma formule del genere non rendono giusti- zia alla varietà ricca, anche se disordinata dei suoi motivi. Le note grottesche e maca-

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bre si alternano con un senso robusto di comicità e di satira, e di effetti di diverti- mento burlesco con gli effetti di allucinazione ossessiva (Ugo Stille, Corriere della Sera)”.

“se vogliamo qualificare subito il nuovo clima, dovremmo rivolgersi subito a quelle opere che l’hanno precorso: Naked Lunch di Burroughs, Comma 22 di Joseph Heller, e il recentissimo V. di Thomas Pynchon (Marisa Bulgheroni)”.

Complessità, satira, grottesco, nuovo clima culturale: queste sembrano le di- rettrici che accompagnano la prima ricezione del capolavoro pynchoniano in Italia. Di ascendenza palesemente avanguardista, col loro insistere sui concetti di rottura, di superamento e di critica, tali direttrici, paradossalmente, sembrano oggi le stesse che irrimediabilmente separano la nozione di avanguardia da quella di postmoderni- smo: secondo molti interpreti dei nostri giorni, come noto, il postmodernismo in narrativa sarebbe una forma di sperimentalismo che va oltre la dialettica storica tra innovazione e conservazione, tra rottura e continuità, tipica delle avanguardie. Ep- pure, il nome di Pynchon – indubitabilmente il maestro e padre della letteratura postmodernista – ricorreva più volte negli interventi pronunciati dal Gruppo 63 al convegno sul romanzo sperimentale, pur con giudizi che oscillavano tra due poli praticamente opposti. Da un lato c’era chi, come Furio Colombo, lo considerava un romanziere sperimentale, anzi il «massimo sperimentatore americano» assieme a William Burroughs; dall’altro chi, come Aldo Tagliaferri, credeva invece di riconoscervi «l’inconscio collaboratore di una ideologia ferocemente competitiva e individualistica» obiettando comunque che «le sue storielle, “autentiche” o no» non gli apparivano «tanto diverse da quelle che intellettuali spiritosi inventano chiacchierando al bar»235.

Al di là dei giudizi discordanti, comunque, pare di buon senso ritenere che dagli anni Ottanta ai nostri giorni si sia verificata, a livello di analisi storico- letteraria, una sorta di frattura percettiva: ciò che negli anni Sessanta appariva come la prova di una connessione tra le esperienze artistiche sorte in contesti molto diffe- renti236, si è configurato oggi come il motivo principale di una discrasia temporale

235 A. Tagliaferri, Dibattito, in Gruppo 63. Il romanzo sperimentale, cit., p. 60.

236 Su questo punto sembra concordare, seppure indirettamente, anche Peter Brooks. Nel suo Trame, infatti, anche il critico americano mette in relazione la sperimentazione di Robbe-Grillet con quella di

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che condanna il contesto europeo ad una sorta di ineludibile ritardo rispetto alla narrativa angloamericana. L’insistenza sull’aspetto “avanguardistico” del postmo- dernismo delle origini lascia il passo nel giro di poco tempo a interpretazioni che in- sistono particolarmente sui concetti di metanarrazione, di incredulità di fronte ai grandi récit della modernità, di double coding, oltre che sugli aspetti pop, sulla mesci- dazione tra registri, sulla “fine della storia”. Aspetti che, dunque, finirebbero per escludere le nozioni di rottura e critica, per esaltare semmai quelle di imitazione e ironico distacco. La prima fase del postmodernismo statunitense è così ricondotta anche all’esplosione del postmodernismo europeo degli anni Ottanta, con tutta la propria carica teorica, tra “pensiero debole” e “fine delle ideologie”, e, più sopra, ab- biamo già ricapitolato le implicazioni speculative della questione. Ma come si è potu- to produrre questo distacco? È esso derivato dalla correzione di un abbaglio storico, o non sarà piuttosto il portato di una rilettura ideologica indotta dall’egemonia cul- turale del postmodernismo nel senso che esso è venuto ad assumere a partire dagli anni Ottanta? E ancora, che tipo di paralleli possono essere posti oggi, alla luce di quanto è poi accaduto nel campo della critica letteraria e più in generale del pensiero

alcuni narratori americani. Cfr. P. Brooks, Trame. Intenzionalità e progetto del discorso narrativo [1984], trad. D. Fink, Torino, Einaudi, 20042, pp. 130-131: «Robbe-Grillet resta a mio avviso uno degli esempi più felici di come si possano combinare insieme i resti del romanzo tradizionale e i luoghi comuni della società consumistica, la moda e le riviste patinate, i cliché del desiderio e la banale seduzione erotica che pervadono i suoi romanzi e i suoi film. I luoghi comuni e i resti (il “surplus”) possono essere trattati co- me elementi affettati, o più semplicemente come un oggetto di divertito interesse, da mettere alla prova in differenti contesti e combinazioni. La narrazione diviene infatti una combinatoire, un gioco di assem- blaggio, quasi una metonimia generale in cui gli elementi dati, alla pari dei prodotti e paradigmi culturali e sociali a disposizione, provvedono, per così dire, il collante metaforico. Il concetto di plot che cogliamo nei romanzi di Robbe-Grillet è quindi molto frequentemente di natura seriale, per rubare il termine dal genere di musica così chiamato: assistiamo alla prova generale dei possibili ordini imposti a questo mate- riale, ordini soppiantati poi da un’altra “bobina” che a sua volta si svolgerà fino in fondo. Al lettore non viene mai concesso qualcosa di simile al tradizionale nome di plot: al contrario, egli è costretto a prende- re parte a questo plotting, se non per raggiungere la creazione di un significato, almeno per esplorare le condizioni richieste da un ipotetico significato narrativo. […] Altri romanzieri appartenenti a questo moderno genere sperimentale, in particolare quelli delle due Americhe, hanno contribuito soprattutto alla parodia della trama tradizionale, sviluppando in parte il modello rappresentato dall’uso joyciano del plot omerico. John Barth, ad esempio, costruisce The Sot-Weed Factor su un elaborato revival parodistico del plotting settecentesco (Fielding, per intenderci): il risultato è un’avvincente trama di congiure e mac- chinazioni, che in un contesto moderno appare necessariamente sia un sistema di significato ormai ob- soleto, sia un paradigma del nostro desiderio di avventure epiche e di una loro coerente conclusione». Sul concetto di cliché si veda anche M. McLuhan, From cliché to archetype, New York, Viking, 1970.

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filosofico, tra il postmodernismo americano, il Nouveau Roman e la neoavanguardia italiana?

In un saggio del 2004, Alberto Rollo sottolinea che tra il 1965 e il 1974 si col- loca il «primo mero tentativo, per lo più di carattere editoriale»237, di far conoscere il

romanzo postmodernista americano in Italia. E, poco oltre, anch’egli aggiunge che John Barth e Donald Barthelme, tra i primi ad essere tradotti, sarebbero «sostan- zialmente letti come scrittori sperimentali, di uno sperimentalismo per altro che po- co ha a che fare con le neoavanguardie italiane e neppure con le lambiccate intellet- tualizzazioni del nouveau roman francese»238. Secondo Rollo, dunque, «ciò che, in

questa prima fase, non “passa” è la complessità di quanto in America sta accadendo a livello letterario: la relazione fra new journalism, beat, camp, iperrealismo e la sor- prendente vitalità di quel gruppo di autori che saranno poi battezzati postmoderni tremola appena e non appare del tutto. La dimensione “pop”, l’arte “intermediale” (l’aggettivo è di Barth), la strategia parodica del riuso di materiali esistenti, l’aspetto serissimamente giocoso del racconto che racconta se stesso, le connessioni interna- zionali (Messico e Sudamerica, innanzitutto) tutto ciò, nella cultura degli sessanta- settanta, non emerge»239. Per il critico, in definitiva, «è solo in un secondo momento

che emergono i tratti ora considerati canonici del postmodernismo romanzesco: in- tertestualità, metaletteratura, mescolanza dei generi, recupero ironico della tradizio- ne alta come di quella popolare. Ed è soprattutto in un secondo tempo che si fa stra- da una nozione antielitaristica di pubblico»240.

Ora, nel “secondo momento” di cui parla Rollo devono essersi modificati, e in maniera sostanziale, anche i parametri in base ai quali formulare il giudizio. D’altra parte, lo sostiene Žižek, ciò avviene comunemente nelle imprese conoscitive della storiografia, in corrispondenza per lo meno con i maggiori momenti di “rottura

237 A. Rollo, Gli sbarchi del postmoderno in Italia, in Che fine ha fatto il postmoderno, a cura di V. Spinaz- zola, Milano, il Saggiatore, 2004, p. 18.

238 Ivi, p. 20. 239 Ivi, pp. 20-21.

240 B. Pischedda, Il romanzo: la pienezza del postmoderno, in Che fine ha fatto il postmoderno, cit., pp. 26- 27.

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storica”241. A proposito del significato di questa mutazione, però, l’interpretazione di

Rollo appare sorreggersi fin troppo fiduciosamente sopra l’efficacia distintiva, la coe- renza e la pertinenza dei parametri attualmente «considerati canonici del postmo- dernismo letterario». Essa, cioè, concepisce come una correzione migliorativa la re- visione dei criteri di giudizio applicati sui primi romanzi postmodernisti americani rispetto alle letture degli anni Sessanta. Eppure c’è anche chi, come Roberto Cagliero, ammette una forte congiunzione tra le prime esperienze postmoderniste americane e quelle neoavanguardiste europee. Nella postfazione all’edizione italiana di Un lento apprendistato di Thomas Pynchon, il critico scrive:

il romanziere John Barth, ad esempio, agli inizi degli anni Sessanta scrive un saggio sull’esaurimento della letteratura, dando così una paternità teorica al romanzo postmoderno e al suo progetto metanarrativo, che trasforma l’artificio del raccontare nella storia stessa, l’oggetto del racconto. In questi atteggiamenti sono riconoscibili certe movenze tipiche non solo della narrativa d’ispirazione borgesiana, ma anche del nouveau roman francese. Gli stessi scrittori americani si dichiarano indebitati con tali forme242.

E prosegue, poi, a proposito dell’autore di V, sottolineando che comunque: il rapporto di Pynchon con le avanguardie indica piuttosto una necessità sentita di premere sulla forma, di cancellare la convenzione di una letteratura come rappresen- tazione. Nella tradizione americana, la tendenza anti-realistica del romanzo risale all’Ottocento, e a partire da questo accanimento prolungato si può facilmente intuire il concetto di “esaurimento” proposto da John Barth243.

Anche per quel che riguarda il contesto italiano, calcolate le implicazioni che se non saldano di certo intrecciano tra loro le teorie del Nouveau Roman e quelle del Gruppo 63, è verosimile immaginare che quel legame che veniva posto dagli stes-

241 Cfr. S. Žižek, I sette veli dell’immaginario, in Id., L’epidemia dell’immaginario [1997], Roma, Meltemi, 2004, p. 27: «le vere rotture storiche sono, semmai, più radicali rispetto ai meri sviluppi narrativi, poiché quello che cambia in essi è l’intera costellazione di acquisizioni e perdite. In altre parole, una vera rottura storica non solo designa la perdita “regressiva” (o il guadagno “progressivo”) di qualcosa, ma il cambia- mento della griglia stessa che ci permette di misurare perdite e acquisizioni».

242 R. Cagliero, Thomas Pynchon e le integrazioni segrete, in T. Pynchon, Un lento apprendistato, cit., pp. 184-185.

243 Ivi, pp. 185-186.

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si critici negli anni Sessanta tra lo sperimentalismo statunitense e quello europeo non sia anodino. Pare corretta, ad esempio e nonostante la forma vagamente tran- chante, priva di giustificazioni probatorie, l’interpretazione di Monica Jansen. Nel commentare un saggio di Daniela Daniele244 sulla ricezione del romanzo postmo-

dernista americano in Italia – saggio che per più di un verso risulta consonante all’interpretazione di Rollo – la studiosa ha affermato:

al contrario di Daniele, che giudica la ricezione del romanzo postmoderno america- no in Italia senza tener conto sufficientemente della logica interna del dibattito ita- liano sul postmoderno, credo che esista piuttosto una continuità fra le metafinzioni dei postmodernisti americani e quelle dei neoavanguardisti italiani degli anni Ses- santa, una continuità che viene messa in discussione negli anni Ottanta proprio dalle nuove tematiche mutuate tra l’altro dal dibattito filosofico che mettono in questione i valori innovativi della sperimentazione245.

Anche Jansen è disposta ad ammettere che il dibattito degli anni Ottanta metta in discussione la continuità tra la sperimentazione della neoavanguardia ita- liana e quella dei primi romanzieri postmodernisti americani, ma il suo discorso, ri- spetto a quello di Rollo, appare come ribaltato di senso. In questo caso si può pensa- re infatti ad una sorta di applicazione a posteriori di una surrettizia congiunzione ideologica tra la stagione letteraria degli anni Sessanta e le teorie sociologiche e filo- sofiche degli anni Ottanta: non quindi una correzione di giudizi superficiali, ma un’imposizione tarda di un senso ideologicamente consustanziale all’ideologia del capitalismo avanzato. Se infatti una continuità tra le metafinzioni dei postmodernisti americani e quelle dei neoavanguardisti italiani esiste, allora la lettura di Rollo, cen- trata su una presunta “differenza” o “unicità” americana, appare insensibile alla spe- cificità della ricezione italiana di quegli anni. Ora, è chiaro che i modelli importati dall’esterno servono generalmente alla neoavanguardia per finalità ideologico- politiche sconosciute al contesto di partenza. Vi è dunque, indubitabilmente, una

244 Cfr. D. Daniele, The Fate of Postmodern American Fiction in Italy, in Closing the Gap. American Post- modern Fiction in Germany, Italy, Spain and the Netherlands, a cura di T. D’hean e H. Bertens, Amster- dam-Atlanta, Rodopi, 1997, pp. 148-170.

245 M. Jansen, Postmoderno: una categoria ambigua, in Ead., Il dibattito sul postmoderno in Italia, cit., p. 39.

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reinterpretazione, o, se si preferisce, un riuso manipolatorio delle fonti, che, depriva- te spesso dei loro contenuti anarco-libertari, restano valide per i soli aspetti retorico- formali – si pensi in particolare alla figura di William Burroughs e alla tecnica del cut-up. Ma, d’altra parte, la neoavanguardia compie la stessa operazione di sofistica- zione delle fonti anche con i ben più noti modelli modernisti Pound e Eliot. Da un lato, quindi, è senza dubbio corretto ritenere con Rollo che nel contesto italiano “non passi” l’intricata ragnatela dei rapporti tra «new journalism, beat, camp, iper- realismo e la sorprendente vitalità di quel gruppo di autori che saranno poi battezzati postmoderni»; per quanto, poi, si potrebbe addirittura dimostrare che molte di que- ste manifestazioni vengono in qualche modo sussunte dal contesto di arrivo, sebbene sotto forme, maschere e iconologie diverse. Dall’altro lato non è lecito assimilare le prime opere di Pynchon, di Gaddis, di Barth alla letteratura europea degli anni Ot- tanta e Novanta solamente pel tramite di una parola, “postmodernismo”, che, come abbiamo già mostrato, è croce e delizia del dibattito intellettuale da almeno trent’anni, col suo portato tanto larvatamente ambiguo quanto mistificante.

Occorre poi considerare che negli stessi Stati Uniti le opere di Pynchon, Gaddis, Brautigan, Barth e altri venivano accusate di neo-elitarismo, ovvero le si po- teva incolpare di iper-intellettualismo, di messa in crisi della narrazione romanzesca, di “canzonatura” del genere. Portatrici non raramente di una caustica critica al si- stema dei consumi statunitense, o di un nichilismo conoscitivo senza precedenti, nonché di letteraria insubordinazione nei confronti della letteratura dei padri, le prime opere postmoderne americane rimangono certo distanti e non omogenee a quelle europee. Tuttavia – si pensi al titolo della prima raccolta di racconti di Donald Barthelme (Come back, dr. Caligari) – esse si richiamano a loro volta, più o meno esplicitamente, alla lezione delle avanguardie storiche, e da esse ripartono246. Come

gli scrittori neoavanguardisti, anche quelli del primo postmodernismo statunitense si nutrono di una cultura essenzialmente composta di esistenzialismo, fenomenologia e mimesi realistica, ma presto ne superano o ne forzano i limiti, ne esasperano gli ef-

246 La connessione tra Nouveau Roman e la narrativa americana degli anni Sessanta e Settanta è, pur indi- rettamente, segnalata da Mas’ud Zavarzadeh in un intervento del 1975. Cfr. M. Zavarzadeh, The Apoca- lyptic Fact and the Eclipse of Fiction in Recent American Prose Narratives, in «Journal of American Stud- ies», No. 1, 1975, pp. 69-83.

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fetti ovvero ne cauterizzano gli aspetti sentimentali o patetico psicologici, in direzio- ne di costruzioni narrative che fanno della fredda ironia il fulcro della propria co- struzione. E viene in mente, a epitome di ciò, il sarcastico scimmiottamento dell’angoscia sartriana presente nel primo capitolo del romanzo V. di Pynchon: «la vita è la cosa più preziosa che hai? Senza saresti morto!». Ha notato il critico Franco La Polla in un capitolo dedicato al romanzo americano degli anni Sessanta:

tutti [i romanzieri postmoderni] sono accomunati dalla volontà di strappare il ro- manzo dalle secche di una tradizione che da tempo si è rivelata inadeguata alla con- correnza dei tempi, e specificamente di forme di conoscenza incalcolabilmente più immediate, anche quando, come il cinema, operano sul terreno dell’arte247.

E poco oltre, specificamente su Barth:

Barth agisce sul terreno della forma. Il suo gioco, che può apparire freddo a una cri- tica ancorata a un concetto ricevuto di letteratura, è in realtà una dissezione del ge- nere, un lavorìo tecnico che ha il senso di una speranza, la speranza che “history will turn our way again”248.

Se ciò è vero, come non vedere la connessione tra Barth e le esperienze neoavan- guardiste? Utilizzando categorie jamesoniane per motivare l’idea del passaggio dalla cultura moderna a quella postmoderna, e pur includendo il discorso goldmaniano all’interno di tale passaggio, si dovrà tenere probabilmente conto del fatto che i le- gami che si stabiliscono tra il contesto americano – e dunque il centro del sistema imperialista che organizza a livello strutturale il “sistema della moda” – e l’Europa che ne è la provincia, saranno di per sé ambigui. Ciò è complicato, poi, da una serie di implicazioni che abbiamo provato a elencare nei capitoli precedenti: la tendenza recente della critica a uniformare sotto la stessa insegna di postmodernismo prove artistiche di discosta natura e cronologicamente sfalsate organizza un metadiscorso che se non sterilizza di certo appiattisce il dibattito. Epperò toccherà alla lettura dei

247 F. La Polla, John Barth: «Letters», in Id., Un posto nella mente. Il nuovo romanzo americano: 1962- 1982, Ravenna, Longo, 1983, p. 87.

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testi dimostrare quanto ci sia di corretto in questi legami, nonché quanto invece si debba oggi ripensare.