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Sally Price rileva come sia gli antropologi sia gli storici dell'arte cominciarono dagli anni Novanta a riconoscere che «l'arte non viaggia su una strada a senso unico e che non sono solo gli oggetti a spostarsi, ma tutto ciò che è a essi collegato: dalle valutazioni critiche e dalle interpretazioni del significato ai principi etici ed estetici sottesi alla loro esposizione». Perciò, da quel momento, i musei etnografici occidentali adottarono un nuovo approccio, rinegoziando le identità culturali e procedendo anche al rimpatrio di alcuni oggetti43 (Price 2010: 64). Oggi, queste istituzioni hanno spesso acquisito una nuova denominazione, come sottolinea Giovanna Parodi da Passano: «museo delle culture, museo delle civiltà, museo delle società, ecc.». Essi

42 Per intenderci la Négritude di Senghor, cfr. Cap. 2. 43

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«si orientano verso una ricerca multidirezionale sperimentando inediti stili di rappresentazione che comportano l'ingresso di nuovi attori, identità, esperienze, e che attivano processi di reinvenzione, negoziazione e traduzione culturali in cui confluiscono istanze diverse - fino ad includere lo sviluppo dei piani di marketing basati sul concetto del turismo culturale» (Parodi da Passano 2007a: 9).

Un esempio di questa tendenza all'apertura si ritrova nel Museo Etnografico e preistorico L. Pigorini di Roma. In esso è conservata la raccolta seicentesca del gesuita romano Athanasius Kircher e «in quanto collezioni storiche, nel Museo attuale sono opportunamente presentate come testimonianze di un processo di elaborazione dell'immagine dell'altro costruita da parte della nostra cultura» (v. supra) (Lattanzi 2009: 37) 44. La novità dei musei

etnografici risiede nel tentativo di liberare «gli oggetti dall'identità in cui la tradizione li ha "surgelati"» e per fare ciò Vito Lattanzi, direttore del settore "Culture del Mediterraneo", «propone di aprire il museo alla scoperta etnografica del suo territorio, cioè dello spazio di fruizione sociale in cui si realizza la funzione di mediazione del patrimonio culturale, propria dell'istituzione museale» (Cafuri 2005: 130-131). Le stesse popolazioni africane non sopportano l'idea di vedere rinchiusi nelle vetrine dei musei degli oggetti sia rituali sia di uso quotidiano appartenenti alla loro cultura. Il museo etnologico, secondo Lattanzi, può rivestire un nuovo ruolo: esso

«consiste nel costruire insieme alla comunità dei migranti un'idea condivisa e partecipata di patrimonio culturale. Ciò significa anzitutto mettere a problema l'assenza di territorio tipica dei grandi musei europei di etnologia, provando a stabilire contatti con le associazioni della diaspora presenti sul territorio comunale, provinciale o regionale nel quale il museo è collocato» (Lattanzi 2009: 38).

La figura dell'antropologo, afferma Alberto Sobrero, docente di Etno-antropologia all'Università "La Sapienza" di Roma, ha bisogno di «rimanere fortemente ancorato all'etnografia, alla descrizione più minuta, più attenta ma contemporaneamente avere proprio la capacità attraverso l'etnografia di vedere altrimenti, non tanto altre possibilità, ma altri scenari, di vedere le cose in maniera diversa» (Sobrero 2009: 34; corsivo aggiunto).

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La seguente affermazione e le seguenti di Sobrero e Turci sono tratte dagli interventi degli autori (Lattanzi "Musei etnologici e didattica delle differenze", Sobrero "Esposizioni africane. Riflessioni sull'ultimo libro di Jean-Loup Amselle", Turci "Raccontare gli altri. Politiche dello sguardo e poetiche dell'orma al museo") ad un corso di aggiornamento sulla didattica museale intitolato Il museo, la città e gli uomini. La ricerca antropologica

a servizio dell'educazione museale organizzato a Ravenna il 30 Ottobre 2007. Il resoconto del corso è scaricabile

online dal sito:

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Infatti, il suddetto Museo si prodiga per fare ciò partecipando ad un progetto europeo, chiamato Read-me, avviato nel 2007 e riproposto con il titolo (S)oggetti migranti nel 2009, in collaborazione con il Musée du Quai Branly di Parigi, il Musée Royal de l'Afrique Centrale a Tervuren in Belgio e il Museum für Völkerkunde di Vienna. Il progetto tende a far diventare il museo un luogo di incontro e di dialogo, favorendo una maggiore familiarizzazione del pubblico con il patrimonio museale e culminando con una mostra a Roma prevista per Settembre 201245. La missione del museo etnologico non è riservata, secondo l'antropologo Mario Turci, esclusivamente alla raccolta di oggetti, «quanto di biografie, di umanità, oggetti che non parlino di Storia, ma di vita. In tal senso il museo etnografico può veramente tentare la sua missione di luogo d'incontro» (Turci 2009: 29).

«Il compito del museo», asserisce Lattanzi, «è al contrario quello di decostruire il concetto di identità culturale in modo da aprirsi, a partire dalla pratica delle differenze, a quella fondamentale missione sociale che è l'interpretazione delle diversità in chiave interculturale» (Lattanzi 2009: 39).

Se da un lato abbiamo constatato un'apertura nell'ideologia museale, ci soffermiamo ora a valutare un altro museo etnografico (ma più che altro un museo d'arte): il Musée du Quay Branly di Parigi, inaugurato il 20 Giugno 2006 dall'allora presidente francese Jacques Chirac. Sin dal momento della sua inaugurazione, lo scopo del Museo mira a valorizzare sia la cosiddetta Arte Primitiva sia l'arte contemporanea del Terzo e Quarto mondo (Ciminelli 2008: 197). Tuttavia, la scelta di questo approccio di riunione dei due mondi ha innescato una serie di critiche.

Secondo il punto di vista di Jean-Loup Amselle, il metodo adottato è molto confusionario: «equivale a mettere tutti in un mazzo; è un modo che evidenzia una sorta d'incertezza sulla filosofia stessa del museo». La sua finalità, o quella che realmente doveva essere, puntava ad una collaborazione con gli artisti provenienti dai paesi poveri e ad una loro conseguente esposizione di opere; concretamente ciò non viene rispecchiato all'interno: gli Altri compaiono «solo sotto forma di opere d'arte codificata, disattivata», la loro identità è neutralizzata (Amselle 2007: 181).

L'idea primitivista che si pensava fosse del tutto superata, fa la sua comparsa nell'architettura stessa del museo, progettato da Jean Nouvel: essa riproduce una sorta di

45 <http://www.pigorini.beniculturali.it/progetti-europei.html>, per maggiori informazioni sull'esposizione:

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riparo, attorniato da un bosco, al cui interno risuonano dei tamburi e dove tutto è inondato da una fitta oscurità che sottolinea la spiritualità degli oggetti esposti. Nouvel lo descrive come «uno spazio posseduto, abitato dagli spiriti ancestrali di quegli uomini che, svegliatisi alla condizione umana, inventarono dei e religioni. Un luogo singolare e strano. Poetico e perturbante». Il tema dominante e ricorrente in tutto l'edificio è quello della tartaruga, animale magico per le religioni animiste e politeiste, che «delinea i contorni di una radura, ritorna nel disegno di una panca, nelle forme di un masso rivestito di muschio o di un riparo coperto di piante arrampicanti» (Nouvel 2006, cit. in Price 2010: 70).

Lo storico Herman Lebovics (2006) vede il MQB come un ambiente dove i popoli del Sud vengono mercificati ed esibiti (Ciminelli 2008: 205), una nuova eco di quegli zoo e circhi umani tipici di fine Ottocento che ospitavano i Selvaggi e gli essere umani anomali.

Amselle appare dubbioso sulla buona riuscita del progetto: «se esso riuscirà a far capire ai visitatori che esistono altre culture, altri modi di pensare degni di rispetto e attenzione, sarà una vittoria. Ma la scommessa non è vinta in partenza» (Amselle 2007: 182).

Alle critiche negative46 rivolte al museo si aggiunge pure Sally Price:

«I visitatori non hanno alcun bisogno che il museo proponga loro una visione del cosiddetto mondo primitivo, ambientato in uno scenario da giungla e dominato da animismo, sciamanesimo, cannibalismo, totemismo, riti di iniziazione e tabù dell'incesto. Tutto ciò è già ampiamente disponibile in qualsiasi altra occasione della vita quotidiana, dal cinema alla televisione e ai romanzi pulp, dalle riviste popolari ai siti internet. Nel momento in cui lasciano quella parte della loro vita che è sottoposta al controllo di queste fonti di informazione per entrare in un museo del ventunesimo secolo meritano qualcosa di radicalmente differente, qualcosa che non sia intaccato dagli stereotipi di metà Novecento; qualcosa di più vicino a quello che sappiamo oggi delle società e delle culture sulla base di un approccio straordinariamente meditato e profondamente interdisciplinare» (Price 2010: 70).

Sebbene qualcosa si sia mosso nel mondo museale, i problemi di esposizione e di percezione degli Altri non sono ancora stati del tutto superati. Rivolgendo lo sguardo al continente nero, viene ora da chiedersi quale sia la situazione dei musei etnografici in Africa.

Giovanna Parodi da Passano nota con dispiacere come, purtroppo, il lavoro da compiere sia gravoso e lacunoso, in quanto non sempre si riesce, seppur cambiando la denominazione, ad allontanarsi dal sistema museale coloniale e post-coloniale (Parodi da Passano 2007a: 9). Difatti, i musei etnografici furono creati nelle colonie per dare la possibilità alla borghesia locale di "sbirciare" le culture indigene, perciò queste istituzioni non avevano nessun legame

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con l'ambiente circostante, andando a costituire solamente «una riserva delle culture tradizionali» (Cafuri 2007: 139). La creazione di questo tipo di musei in quei luoghi era stata «funzionale al colonialismo», sostiene Roberta Cafuri, «separando il presente dalla memoria degli antenati rinchiusi nei musei, gli individui sarebbero stati docili e sottomessi una volta alienati dal proprio bagaglio culturale e trasformati radicalmente dall'insegnamento di una cultura loro estranea». In seguito, con l'indipendenza, il museo ebbe il compito di creare delle nuove identità nazionali, decolonizzando quelle esistenti precedentemente, per questo furono riuniti oggetti e opere antiche appartenenti agli antenati (Cafuri 2007: 142). Inoltre, il riaffiorare di questo attaccamento verso il proprio passato e la propria cultura svela il bisogno da parte degli artisti di definire nuovamente i concetti di autenticità e identità, di ricontestualizzarli. Essi rivendicano, secondo Giovanna Parodi da Passano, un rapporto attivo con la propria storia, che gli permetta di entrare in un circolo più grande: quello mondiale, come afferma l'artista del Senegal Souleymane Keita: «sono aperto al mondo. Non voglio rinchiudermi in Africa» (Stanislaus 1990, cit. in Parodi da Passano 1999: 11).

Alcuni piccoli passi si sono compiuti dagli anni Novanta quando i musei africani hanno dedicato del tempo alla conoscenza reciproca dei vari gruppi sociali insediati nel territorio nazionale per poterne favorire l'integrazione. George S. Mudenda, direttore del Lusaka National Museum in Zambia, auspica in un futuro non molto lontano che queste istituzioni museali diventino dei luoghi di dibattito in opposizione al razzismo, dei siti preposti alla rivalutazione delle proprie origini, degli spazi di riscatto sociale in grado di raggiungere un amplio pubblico, volti a creare nel popolo il bisogno di ricercare un proprio ruolo all'interno della società (Mudenda 2007: 33).

Al termine del nostro viaggio storico sulla percezione dell'arte africana nel corso dei secoli, dopo aver discusso e criticato i concetti di tradizionale e autentico, è necessario, afferma la studiosa Sidney Littlefield Kasfir, compiere un'azione per superare il problema dell'autenticità, ossia quella di: «relocate the notion of authenticity in the minds of those who make art and those on the other side of the Atlantic Ocean who collect it» (Kasfir 1999: 107).

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CAPITOLO 2