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Le pratiche curatoriali: la costruzione di un artista

L'artista africano e le pratiche curatorial

3.3. Le pratiche curatoriali: la costruzione di un artista

Eriberto Eulisse (2003), con il quale concordo, analizza il mondo curatoriale dividendo la produzione dell'arte contemporanea africana in due prospettive molto diverse tra loro:

- la prima si riferisce ad un approccio "neoprimitivista": in questo modello coloro che vi operano, ossia i critici d'arte, i collezionisti e i curatori, definiscono le opere in base ad una serie di attese che il mondo occidentale possiede nei loro confronti. L'Africa, da questo punto di vista, è rappresentata come un continente immobile, astorico, aggrappato ancora alle forze della natura o agli stereotipi degenerazionisti25 che vedevano l'uomo di colore fermo a uno stadio primordiale nello sviluppo psichico umano. Secondo questa strategia la produzione artistica africana, come nota Eriberto Eulisse,

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«risulta condannata a rappresentare e a mettere in scena indefinitamente un siffatto contesto culturale per poter essere accolta nel sistema globale dell'arte [...]. Questo approccio, che attinge incessantemente a una sorta di discarica dell'immaginario collettivo dell'Occidente, piuttosto che alimentarsi dei vividi contesti culturali che caratterizzano l'Africa attuale, è di fatto rinvenibile in numerose biennali e manifestazioni internazionali che si sono svolte dagli anni Ottanta ad oggi» (Eulisse 2003: 15).

Il neoprimitivismo esprime una sorta di continuazione con le idee paternalistiche che hanno visto sorgere dagli anni Quaranta in poi numerosi laboratori artistici alla ricerca dell'autenticità africana26. Essi infatti sarebbero stati in grado di sviluppare un immaginario puro e non contaminato da influenze esterne (Eulisse 2003: 15). Se allora il pensiero era questo, oggi la situazione non è cambiata poiché esistono ancora numerosi curatori, che dopo analizzeremo, i quali utilizzano tuttora questa idea di base nelle loro scelte.

Eulisse conferma l'efficacia di questa prospettiva in quanto riporta alla mente gli stereotipi comuni attualmente ben radicati nel pensiero degli Occidentali: le immagini di un'arte pura e incontaminata rinsaldano nuovamente, e non contrastano mai, quello che è il luogo comune sull'arte africana nel mondo industrializzato. Roland Barthes nel suo saggio Miti d'oggi (1994) riporta questa visione di arte intatta come una delle principali mancanze dell'Occidente, una specie di schiavitù psicologica a cui siamo sottoposti e non riusciamo ad uscirne. Egli scrive che se da un lato il sapere scientifico progredisce, dall'altro «le rappresentazioni collettive non stanno al passo, sono arretrate di secoli, mantenute stagnanti nell'errore dal potere, dalla grande stampa e dai valori d'ordine» (Barthes 1994: 59, cit. in Eulisse 2003: 16). Ciò significa che ancora oggi la stampa, la televisione, la rete fanno trapelare l'idea di un continente esotico, primitivo e puro27.

- La seconda prospettiva, invece, è chiamata "concettualista" ed è la nuova strategia che cercano di estendere curatori come Salah M. Hassan, Okwui Enwezor e Olu Oguibe. Essi mirano a distruggere la nozione di autenticità, analizzata nel Capitolo 1, ampliando l'arte africana verso quei generi considerati pure espressioni occidentali come i video, le installazioni e le performance. I curatori provano a non etichettare gli artisti e vanno oltre: si sono resi conto che le nuove opere non sono legate unicamente al contesto africano, ma sono "ibride" poiché sono connesse sia alla tradizione africana sia al linguaggio occidentale. Essi danno voce agli artisti

26 Cfr. Cap. 1. 27

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«che interpretano e traducono in nuovi idiomi di espressione artistica, e con il tramite d'una sensibilità globale, le specifiche esperienze sociali ed estetiche dell'Africa e delle sue diaspore, filtrate attraverso le esperienze del colonialismo e del postcolonialismo, della migrazione e della globalizzazione» (Eulisse 2003: 17-19).

Gli artisti stessi si dichiarano contrari alle idee di originalità e autenticità, giocando sui cliché e ribaltandoli, come fa Yinka Shonibare con il suo tessuto wax (Hassan 2003: 153).

Ritornando al concetto di "ibrido" Roberta Cafuri trova l'ideologia del meticciato una questione importante poiché

«autorizza creatività, inventiva e permette all'agire creativo di esprimersi [...]. Adottare questa prospettiva, costruttiva e non passiva, implica uscire dall'immediatezza del presente, dalle urgenze dettate da logiche che parlano di rischi di estinzione per realtà ecologiche e culturali, dall'emergenza su cui paiono affondare le politiche culturali, per progettare il futuro» (Cafuri 2008: 158).

Anche Ivan L. Bargna parla del métissage e della creolizzazione e li individua come

«gli indicatori di dinamiche storiche permanenti: in realtà ogni cultura, pur con diversi gradi d'apertura e spazi di manovra, si definisce a partire da un orizzonte interculturale. L'apposizione di confini, il loro attraversamento regolato o le irruzioni dall'esterno provvedono a fornire la materia e i ventagli formali attraverso cui costruire la propria identità, esprimere il sacro, tracciare i limiti e vie di comunicazione fra l'umano e il divino» (Bargna 2003 [2008: 155]).

L'antropologo Jean-Loup Amselle non è però di questo parere. Nel saggio Connessioni. Antropologia dell'universalità delle culture (2001) Amselle asserisce che

«per sfuggire a questa idea di mescolanza per omogeneizzazione e ibridazione, occorre postulare, al contrario, che ogni società è meticciata e quindi che il meticciato è il prodotto di entità già mescolate, che rinviano all'infinito l'idea di una purezza originaria» (Amselle 2001: 21).

Questo concetto di meticciato è stato dibattuto in un precedente saggio di Amselle, Logiche meticce. Antropologia dell'identità in Africa e altrove (1999), nel quale analizza come non esista una società originaria pura, bensì un meticciato originale, frutto di continui cambiamenti, di "negoziazioni" politiche, di scambi culturali avvenuti nel tempo. L'antropologo sostiene che è giunto il tempo «di cessare di pensare le società "altre" come il contrario delle nostre», tutto è, invece, il frutto di una mescolanza, di una influenza in vigore fin dal passato (Amselle 1999: 189, 133). Perciò, piuttosto che evidenziare le diversità, si devono ricercare le contiguità: è per questo che in un'opera successiva (2001) Amselle sostiene che sia meglio allontanarsi dall'idea di meticciato, che porta a classificare le società

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umane e a trovarne un'origine biologica e parlare, invece, di "connessioni" (2001) tra le culture. Se da un lato i teorici della globalizzazione riprendono la distinzione tra società primitive e società moderne, perché ritengono la nostra epoca diversa da tutte le altre, dall'altro Amselle vuole dimostrare che non sono mai esistite società chiuse, anzi «la mescolanza delle società, delle civiltà è una costante della storia universale e non può pertanto spiegare il carattere diasporico o itinerante delle culture contemporanee» (Amselle 2001: 42).

In tutto il saggio del 1999 l'antropologo nota come il meticciato possa essere considerato una forma di razzismo, perché nel momento in cui si pensa ad un multiculturalismo, ossia la creazione di una società composta da culture diverse, per individuare i tratti caratteristici dei gruppi e decretarne la loro origine, questi vengono ricondotti ad un'etnia, ad un popolo originario. Ma dato che non esistono società pure poiché tutto è il risultato di connessioni e perciò le società sono indefinite, Amselle rintraccia nel multiculturalismo un modello fallito che rafforza le disuguaglianze. «Fare scomparire le frontiere e le barriere tra i gruppi, mescolandoli socialmente: questo sembra essere il solo modo di contrastare la razzializzazione in atto nel quadro della globalizzazione» (Amselle 1999: 39).

Ed è proprio la globalizzazione che nel tempo ha dato vita a queste connessioni, essa infatti non è inedita, ma ha avuto delle fasi precedenti, l'Islam per esempio nel passato ha aggregato l'Africa. La mondializzazione non porta ad una omogeneizzazione delle culture perché ogni prodotto può «divenire oggetto di una ricezione diversa secondo il paese o lo strato sociale nel quale viene consumato». A titolo esemplificativo, la Coca-Cola se ne gli USA e in Europa è ormai entrata a far parte dei nostri pranzi e delle nostre cene, in Kenya al contrario è utilizzata nelle cerimonie rituali. In questo modo, attraverso il prodotto globale, «si manifesta più intensamente l'identità culturale o nazionale, cosicché l'aumento degli scambi di ogni sorta su scala mondiale, lungi dal provocare una omogeneizzazione totale delle diverse culture, appare, al contrario, come una condizione della loro esistenza» (Amselle 2001: 42). Riappropriandosi quindi del globale si ribadisce l'identità locale: attraverso la globalizzazione che ha permesso le connessioni tra le varie culture si è in grado di costruire la propria identità, creatasi da ulteriori contatti con altre società. Nel momento in cui io deconnetto la mia identità e trovo somiglianze nelle altre culture, distruggo il razzismo, perché trovo un miscuglio di tradizioni: «l'essenza intima di una cultura si esprime

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nelle altre culture»28 (Amselle 2001: 12). «Piuttosto che la globalizzazione, [...], è lo sguardo, o più esattamente l'interrogazione sullo sguardo del ricercatore sul suo terreno ad essere fondamentalmente nuovo», apprendendo infatti una cultura, in seguito alle connessioni, se ne studiano delle altre (Amselle 2001: 45).

Egli, in conclusione, si allontana dall'idea di un mondo globalizzato come «prodotto di una mescolanza di culture viste a loro volta come universi chiusi», in questo modo «si riesce a mettere al centro della riflessione l'idea di triangolazione, cioè di ricorso a un terzo elemento (il globale) per fondare la propria identità». La globalizzazione, avvenuta già in passato, «non si traduce quindi né nella diluizione delle diverse culture né nello scontro tra segmenti culturali sparsi che sarebbero rimasti intatti nel corso della storia. Essa genera o accoglie una produzione differenziata delle culture». In realtà, sono piuttosto «il meticciato e la creolizzazione all'opera nel processo di globalizzazione attuale che inducono, al contrario, ad un irrigidimento di quelle stesse culture», le quali possono portare al fanatismo o a fondamentalismi etnici (Amselle 2001: 7, 21, 13; corsivi aggiunti).

Ritorniamo ora, nel prossimo paragrafo, ad approfondire ulteriormente la suddivisione curatoriale proposta da Eulisse (2003).