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Quale spazio espositivo spetta all'arte africana contemporanea?

Il dibattito online

4.2. L'etichetta africano: punti di vista

4.2.2. Quale spazio espositivo spetta all'arte africana contemporanea?

Il motivo successivo della discussione riguarda il luogo in cui queste opere devono essere esposte: in un museo etnologico o in un museo d'arte?

Chris Spring, curatore del British Museum, classifica quest'ultimo né come un museo

d'arte né come un museo etnologico: infatti, esso abbraccia i due termini essendo "un museo del mondo per il mondo". Il British Museum include diverse gallerie, tra le quali quella d'arte africana aperta nel 2001 e ospitante la collezione del vecchio Museum of Mankind chiuso nel 1997, ricontestualizzata e ripresentata sotto un profilo nuovo. La sua attualità sta nel concepire le gallerie come dei luoghi di dibattito e non più degli stati di fatto, dei luoghi dove le persone, che hanno dei preconcetti legati all'arte africana, osservando le opere contemporanee possano contribuire a stimolarli e far cambiare loro idea, permettendo a questi artisti conosciuti di diventare degli ambasciatori per quegli artisti del passato le cui facce e i cui nomi erano noti solamente all'interno della società in cui vivevano.

Chika Okeke-Agulu evidenzia come spesso gli artisti africani abbiano ancora un accesso

limitato ai musei d'arte e che coloro che raggiungono il successo facciano fatica a non essere associati ad un discorso etnologico. È essenziale perciò che i musei compiano il primo passo nel togliere i confini tra arte ed etnologia, attraverso la creazione di musei ibridi.

Pure il Fowler Museum, all'interno del quale lavora Marla Berns, è considerato un museo ibrido: dal 2006 ha infatti cercato di includere opere di artisti internazionali. Un museo che tenta di eliminare le restrittive categorizzazioni, allo scopo di «underscore our identity as a museum with a global focus and a history of transgressing boundaries - between the local and the global, fine art and popular art, the gallery and the street, and the historical and the contemporary» (Berns, 25 Aprile 2012). Questa identità ibrida ha certamente avuto un impatto forte nel pubblico tradizionale, quello legato ai musei etnologici, diverso da coloro che frequentano i musei d'arte contemporanea, allo stesso modo anche gli artisti sono stati influenzati dalle differenti aspettative del pubblico. Il possesso di un'identità fluida ed ibrida «is a benefit rather than a liability, freeing us from the hegemony of singular discourses that can mire institutions and artists with fixed expectations» (Berns, 25 Aprile 2011).

Un museo ibrido è anche il Newark Museum, fondato nel 1909 e divenuto dagli anni Novanta un museo d'arte e di scienza con un'enfasi sull'educazione. Esso comprende lavori

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di arte americana, asiatica, africana, con una inusuale mancanza, ossia quella di una sezione dedicata esclusivamente all'arte contemporanea. Il museo però annovera diversi dipartimenti (Africano, Americano, Nativo americano, Asiatico e delle Arti decorative) i quali collaborano gli uni con gli altri in progetti che non si basano sul genere o sulla geografia ma vanno oltre, dimostrando come l'arte contemporanea possa essere ritenuta globale. A testimonianza di ciò Clarke e altri tre curatori organizzarono nel 2009 l'esposizione Unbounded: New Art for a New Century, includendo lavori di artisti africani, americani e asiatici. La tematica della mostra doveva dissolvere i confini tra i vari dipartimenti e permettere ai lavori degli artisti di essere giudicati al di fuori del contesto geografico.

Kinsey Kathcka sottolinea come, al tempo in cui era una studentessa, la divisione dei

musei etnologici, legati all'antropologia, dai musei dell'arte, connessi alla storia dell'arte, era molto rigida. Fortunatamente oggi, «the hybridizing of museums that Marla & Chris have discussed brings to light the fact that there is not only the notion of contemporary African art to reckon with, but also the boundaries/categories of types of museums that are perhaps as pigeonholed as notions of African art itself» (Kathcka, 27 Aprile 2011). Le due tipologie di museo propongono diversi contesti: la storia evolutiva della flora, della fauna e dell'uomo quello etnologico, la storia evolutiva dell'arte quello artistico. Entrambi seguono una linea di pensiero temporale ed operano una differenziazione geografica nelle esposizioni: soprattutto nei musei d'arte questa categorizzazione geografica spinge i curatori a ghettizzare l'artista. Quindi, se da un lato nei musei d'arte contemporanea si riscontra il tentativo di collezionare una maggior quantità di opere internazionali, dall'altra, secondo Katchka, questi musei incappano sempre in alcune esitazioni dei dirigenti quando si tratta di acquistare ed esibire opere d'arte africana contemporanea, poiché «the proposal met with hesitation at the upper echelon since it was both "African" and "contemporary" - where would it go?» (Katchka, 25 Aprile 2011). È purtroppo ancora difficile, per alcuni, evitare questo tipo di problema riguardante il posizionamento delle opere africane contemporanee all'interno dei musei d'arte. Incertezza che non si riscontra nei musei etnologici, essendo le sue collezioni suddivise geograficamente.

In conclusione, il museo "ibrido" grazie alla sua offerta di contesti diversi assicura un ottimo punto di partenza per la creazione di progetti differenti «that provoke museum professionals, artists, and visitors to think creatively about subjects and materials at hand» (Katchka, 27 Aprile 2011).

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Il curatore giapponese Kawaguchi afferma invece l'impossibilità di un'esistenza dei musei ibridi poiché il museo d'arte è ben diverso dal museo etnologico. Il primo è stato pensato per custodire solamente le belle arti, opere che si potevano trovare unicamente in Occidente; il secondo era invece predisposto per ospitare le selvagge culture non occidentali. All'inizio, infatti, tutto ciò che arrivava dalle aree a noi estranee veniva relegato in un angolo all'interno dei musei etnologici, e la situazione si è ripetuta anche per gli artisti africani contemporanei, collezionati in un primo momento e poi esibiti nei musei etnologici. Recentemente si è avuta una svolta e i musei d'arte hanno cominciato ad accogliere lavori e ad esporli nei loro spazi. Kawaguchi nota come in Giappone l'ambiente sia leggermente ostile per i curatori che vogliono organizzare una personale di un artista africano: «it looks as if some of museums of art outside Africa avoid accepting African artists as equal individuals» (Kawaguchi, 27 Aprile 2011). Conclude comunque affermando che in ogni caso gli artisti africani sono tuttora posizionati tra i musei etnologici e i musei d'arte, non essendo ancora riusciti a trovare una posizione a loro adeguata.

Farrell non concorda, come Kawaguchi, con il nominare i musei "ibridi", perché è vero che

un'istituzione può assumere diverse visioni, ma la distinzione tra l'una dall'altra riguarda la possibilità di integrare nella propria missione istituzionale dei programmi ben definiti che la rinforzino. E ciò è assente nei musei ibridi. Farrell chiarisce che i curatori devono assumersi la responsabilità di sviluppare nuovi talenti e di favorire l'emergere di nuovi voci all'interno del sistema internazionale, attraverso la partecipazione ad esposizioni, la visita di gallerie e la lettura di pubblicazioni: solo così si apporteranno recenti contributi al campo. Inoltre, aggiunge che è difficile per un artista, che è stato esposto in un museo etnologico o in un contesto simile, essere in seguito esibito in un altro luogo. Ogni museo dovrebbe essere dotato di un proprio curatore disponibile a spostarsi e a cambiare in base al campo artistico di cui si occupa.

Karen Milbourne occupandosi dei curatori dichiara che essi hanno un notevole bisogno di

dialogare con gli artisti, di visitare i loro studi, le gallerie, le esposizioni e di leggere, come Farrell aveva giustamente precisato. Ella non condivide l'impossibilità degli artisti di esibire in contesti diversi, afferma infatti che nonostante essi espongano in musei scientifici, culturali o in qualsiasi altro posto, la sovrapposizione di tutte queste esperienze e tipi di conoscenza diversi incontrati ha il merito di arricchire l'artista e il suo modo di operare. L'artista percepisce infatti la necessità di comprendere cosa significhi "essere" in questi

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spazi, proprio come fa il curatore. «If an artist's work is good, I will like it wherever I see it» (Milbourne, 28 Aprile 2011).

La curatrice Enid Schildkrout sostiene invece come ogni museo possa essere considerato disuguale l'uno dall'altro e pure da paese a paese, tuttavia nessuno può affermare se uno sia più giusto dell'altro. Come scrive: «curators and artists have to deal with the institutional settings they are given, and only gradually, with enlightened leadership, can they change the institutional missions» (Schildkrout, 28 Aprile 2011).

Un elemento importante concerne l'aspettativa del pubblico (diviso da età, educazione ricevuta, sesso) e come questa differenza influisce nella sua percezione dell'esposizione. Di conseguenza i curatori e gli artisti si confrontano con i preconcetti spesso presenti nelle menti dei visitatori: nei musei scientifici essi si aspettano di ricevere informazioni di fatti e verità, mentre nei musei d'arte il fruitore è maggiormente soggetto a punti di vista personali, spesso non conferendo peso al messaggio dell'artista o del curatore, bensì semplicemente basandosi su un fattore estetico del "mi piace".

Pure la critica è un punto centrale della pratica artistica: oltre all'esporre e a rendere visibili le opere, è necessario contemporaneizzare i lavori includendo gli artisti secondo i canoni occidentali ed esaminandoli attentamente.