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Discussioni sulla provenienza dell'artista e del curatore

Il dibattito online

4.2. L'etichetta africano: punti di vista

4.2.4. Discussioni sulla provenienza dell'artista e del curatore

Successivamente, Okeke-Agulu suggerisce un'altra questione: chiede infatti se esistano delle preferenze nella scelta delle opere o di artisti che vivono nel continente o di artisti che risiedono all'estero. Inoltre, invita i partecipanti ad illustrare il loro metodo d'acquisto, dato il crescente problema dei falsi.

Sia Spring sia Farrell non considerano un artista in base all'etnicità, poiché giudicano indispensabile solamente la qualità artistica e il procedimento esecutivo dell'opera. Per quanto concerne il problema dei falsi, il British Museum compera le opere direttamente dagli artisti o attraverso delle gallerie intermediarie, mentre Laurie-Ann Farrell segnala Internet e la rete come due possibili aiutanti nella selezione delle opere e nel conseguente mantenimento dei contatti con i curatori. Attraverso la tecnologia moderna gli artisti possono godere di una maggiore visibilità.

Karen Milbourne si riferisce alla questione geografica valutandola ingannevole e

interroga gli artisti sui diversi stati d'animo vissuti nel momento in cui vengono collezionati o esibiti in un museo d'arte africana. Scrive:

«there is a power differential and I am quite certain sometimes artists say 'yes' because they want to be collected and represented in a museum, not because they want to be African. Theo Eshetu has exhibited his work as "British", "Italian" and "Ethiopian", Fatma Charfi as "Arab" and "African". For some artists, like Yinka Shonibare17, this complexity is the joy and inspiration for much of the work» (Milbourne, 10 Maggio 2011).

Agli artisti interessa solamente l'essere esposti, ma allo stesso tempo, dichiara Milbourne, è indispensabile invitarli a riflettere sui sentimenti provati durante una mostra svolta in ognuna delle tipologie museali. Il compito del curatore, oltre a verificare la provenienza e l'originalità di un'opera per evitare falsi, è quello di aiutare l'artista a percepire le differenze espositive, creando una nuova visione condivisa da entrambi.

Abitare all'estero riveste una funzione importante per molti Africani: infatti, è un semplice sistema da loro impiegato per comprendere il significato di "Africa" e l'influenza che il termine produce in loro stessi e negli altri. Gli artisti auspicano a non essere etichettati professionalmente come africani perché, come scrive Katchka, «the manner in which artists identify themselves, and wish to be identified, is not fixed; it is situational, and often shifts

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over time and, certainly, over space» (Katchka, 11 Maggio 2011). Katchka lancia un'ulteriore sfida all'interno della roundtable: «are African curators more qualified to exhibit contemporary African art than others?» (Katchka, 11 Maggio 2011). La certezza della presenza di curatori come Okwui Enwezor e Simon Njami che hanno saputo contribuire a rendere globale l'arte africana attraverso esposizioni internazionali è notevole, ma questa visione deve essere privilegiata rispetto alle altre? Katchka sottolinea la necessità di un arricchimento, reso possibile dalle varie prospettive e dai diversi approcci culturali, della nozione di arte africana contemporanea. Attraverso la partecipazione di curatori stranieri e africani ci si augura di rinforzare e di eliminare quelle concezioni che hanno sempre rappresentato l'Africa dall'esterno.

Non sono solamente le istituzioni occidentali che insistono sulla netta divisione tra gli artisti che vivono dentro o fuori dal continente africano, ma pure i musei africani giudicano l'utilizzo di mezzi occidentali come un marchio di differenziazione e di "non autenticità".

Okeke-Agulu suggerisce a testimonianza dell'argomento un dibattito a cui partecipò a Lagos

un paio di anni fa nel quale si discuteva su come l'installazione (come mezzo artistico) fosse considerata un'invasione occidentale nell'arte nigeriana, poiché l'unica tecnica artistica vagliata come autentica era la pittura. Le critiche ai curatori nigeriani non mancarono: Okwui Enwezor è stato valutato negativamente per aver «misrepresenting Africa through exhibitions that include many Africans residing outside the continent» (Okeke-Agulu, 11 Maggio 2011). Questo evidenzia come la persistenza dei concetti di autenticità sia presente, dopotutto, anche in Africa e non solo in Occidente.

Clarke ha invece redatto una guida per meglio delineare lo scopo di collezionare opere

contemporanee all'interno del dipartimento di arte africana, definite come il frutto di un artista nato o che risiede e produce in Africa. Al momento del processo di un acquisto di un'opera non è rilevante la provenienza geografica dell'artista, ma la qualità intrinseca del lavoro, come affermato precedentemente dagli altri curatori. Bisogna incoraggiare i pubblici a considerare le connessioni tra le opere occidentali e quelle africane e a trascendere nuovamente il nazionalismo.

Chika Okeke-Agulu sostiene che non necessariamente i curatori africani siano più

qualificati degli altri, scrive:

«there is the fact that must be acknowledged, which is that the African-born curators most of who work as independent curators in the international art scene came to the field - and yes,

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helped define it - when it was unfashionable or totally ignored in museums, the academy and international contemporary art scholarship. It seems to me that what has happened is that some of these curators have kept their work, becoming in the process important voices. That is to be expected. But it gives them no right to make claims to the field more than their work can demonstrate. At the same time, non-African curators ought not expect to be privileged filed has grown as quickly as it has, there is no doubt that it is because of the diversity of perspective, voices and, yes, agenda it accommodates» (Okeke-Agulu, 15 Maggio 2011).

Riguardo alla questione del curatore posta da Katchka, Clive Kellner la valuta come provocante e complessa, dato che all'interno di essa si possono analizzare due visioni: l'una concerne l'identità, l'altra la specializzazione. La prima implica un'identificazione con una persona in termini di nazionalità, razza, genere; la seconda, invece, si riferisce ad un'area di pratica professionale dove un curatore o un esperto si qualificano in un particolare campo o argomento. I due concetti non esprimono necessariamente la stessa cosa, perché se fosse così «then African curators whether by birth or as part of the diaspora wouldn't be in position to curate anything outside of African art, like conceptual or western artists» (Kellner, 17 Maggio 2011).

Chris Spring evidenzia che:

«African-born scholars and curators - together with one or two enlightened colleagues not of African descent - helped to ensure that the fledgling field was not appropriated by the West before it was ready to fly. I think they were guided by principles that ran deeper than scholarship in making sure that some of the strictures which had long circumscribed the study of African art were not allowed to take root again» (Spring, 16 Maggio 2011).

Sfortunatamente, alcuni curatori rimangono intrappolati nel passato poiché continuano ad utilizzare un metodo espositivo tipico del colonialismo, di conseguenza la voce e le opinioni dell'artista non sono soppesate.