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Autonomia regionale e concertazione con lo Stato per contenere i deficit sanitari.

salvaguardando i livelli essenziali delle prestazioni: una sfida (ancora) possibile?

2. Autonomia regionale e concertazione con lo Stato per contenere i deficit sanitari.

Quella del contenimento dei deficit che, come sopra ricostruito, erano stati causati dal primo ventennio del Servizio Sanitario Nazionale, rappresenta, in realtà, una necessità ineludibile, collocata all’interno di un più generale obiettivo di riduzione del debito pubblico, su cui l’Italia, al pari di tutti gli altri Stati membri, è (anche) costantemente richiamata dall’Unione europea.

Difatti, ciò che già a partire dagli anni ’90 si poneva più in evidenza agli occhi dell’Unione, come peraltro di qualsivoglia avveduto osservatore, era che un eccessivo e sistematico indebitamento degli Stati membri non potesse avere altra conseguenza che

16 JORIO E.JORIO F.,Riforma del welfare, devoluzione e federalismo della salute, in “Sanità pubblica e privata”, 2002, fasc. 5, pp. 603 e ss..

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l’indebolimento, a sua volta, dell’economia complessiva dell’Unione stessa e della credibilità di quest’ultima davanti ai mercati internazionali.

Una delle risposte a tale esigenza è stata inserita all’art. 104 comma 1 del Trattato che istituisce la Comunità Europea (17), nel quale è stato stabilito l’obbligo, per gli Stati membri, di

“[…] evitare disavanzi pubblici eccessivi”, sancendo altresì uno specifico meccanismo sanzionatorio (18), involgente sia la Commissione che il Consiglio Europeo, cui sarebbero stati sottoposti gli

Stati membri inadempienti.

La necessità, poi, di affiancare agli strumenti punitivi ex post anche qualche meccanismo preventivo idoneo ad impegnare ex ante gli Stati membri al tanto invocato maggiore rigore di bilancio, ha condotto ad istituire (19) uno strumento di tipo pattizio, il c.d. Patto di stabilità e

crescita, la cui sottoscrizione da parte degli Stati membri ha comportato l’impegno, in capo ai medesimi, di rispettare alcuni parametri, fissati già dal Trattato di Maastricht nel 3% nel rapporto tra disavanzo pubblico e P.I.L., e nel 60% in quello tra debito lordo e P.I.L..

Immediata conseguenza di tale, necessariamente severa, azione combinata preventiva/pattizia e successiva/sanzionatoria, è stata quella di istituire uno strumento, a livello statale, idoneo a trasporre nell’ordinamento interno gli impegni assunti in sede comunitaria.

Il dispositivo istituito nell’ordinamento italiano, specificamente dall’art. 28 l. 23 dicembre 1998, n. 448 (ossia l’allora legge Finanziaria per l’anno 1999), è stato il Patto di stabilità interno, il quale, oltre alla funzione di trasporre le rigide prescrizioni comunitarie nell’ordinamento interno, ha avuto altresì quella, ancor più delicata, di fare ciò coordinando gli interventi da porre in essere, da parte delle Regioni, soprattutto, e degli Enti locali, in minor grado, in una realtà periferica estremamente eterogenea.

17 A seguito della sottoscrizione del Trattato di Lisbona, in data 13 dicembre 2007, l’articolo in esame è stato trasposto nell’art. 126 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea.

18 Le concrete misure adottabili nei confronti di Stati membri che, a fronte di un disavanzo ritenuto eccessivo dalla Commissione, non rispettassero le raccomandazioni formulate dal Consiglio, sono state previste, specificamente, all’art. 104 c. 11 TCE (attuale art. 126 comma 11 T.F.U.E.) e consistono in: “ - chiedere che lo Stato

membro interessato pubblichi informazioni supplementari, che saranno specificate dal Consiglio, prima dell’emissione di obbligazioni o altri titoli; - invitare la Banca europea per gli investimenti a riconsiderare la sua politica di prestiti verso lo Stato membro in questione; - richiedere che lo Stato membro in questione costituisca un deposito infruttifero di importo adeguato presso l’Unione, fino a quando, a parere del Consiglio, il disavanzo eccessivo non sia stato corretto; - infliggere ammende di entità adeguata”.

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Si tenga presente, infatti, che l’istituzione del suddetto strumento pattizio è pressoché coinciso con l’avvio del percorso federalistico, poc’anzi accennato, volto a garantire autonomia organizzativa e gestionale alle Regioni al fine di ridurre progressivamente il finanziamento statale a copertura dei disavanzi economici della periferia istituzionale, a cominciare dal settore sanitario.

2.1. (Segue:) La ricerca dell’autonomia regionale ed il bisogno di solidarietà: primi passi incerti del federalismo sanitario.

Il primo passo del percorso federalistico volto a perseguire l’autonomia gestionale, organizzativa ed economico-finanziaria delle Regioni in àmbito sanitario, è rappresentato dalla legge delega 13 maggio 1999, n. 133 (20), e dal conseguente d.lgs. 18 febbraio 2000, n. 56,

mediante il quale è stato concretamente intrapreso il percorso federalista. Effettivamente, sul punto, il legislatore delegato è stato chiaro, stabilendo, all’art. 1 comma 1 d.lgs. n. 56/2000, che “a decorrere dall'anno 2001 cessano i trasferimenti erariali in favore delle regioni a statuto ordinario,

previsti dalle seguenti disposizioni: [...] d) articolo 12, comma 1, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, e successive modificazioni e integrazioni, relativo al finanziamento della spesa sanitaria corrente e in conto capitale [...]”. Il mero dato letterale dell’articolo ricordato rende evidente la rilevanza

riformatrice della norma in esame in materia di gestione ed organizzazione sanitaria.

Tuttavia, ciò che tale crescente responsabilizzazione ed autonomia delle Regioni nella gestione dell’assistenza sanitaria e nell’organizzazione delle relative prestazioni ha portato con sé, è stato il rischio che quanto più eterogenea si fosse presentata la realtà economico – finanziaria delle singole realtà regionali, tanto più frammentata sarebbe risultata la tutela della salute nelle diverse Regioni d’Italia.

Ed infatti, la stessa normativa in esame ha previsto anche una serie di meccanismi e strumenti finalizzati a far fronte al suddetto rischio e a tutelare tutte le singole realtà regionali. In particolare, la disposizione di maggior rilievo è stata inserita all’art. 10 comma 1 lett. d) l.

20 Specificamente, l’art. 10 l. n. 133/1999, ha previsto che “Il Governo è delegato ad emanare, entro nove mesi dalla data di

entrata in vigore della presente legge, uno o più decreti legislativi aventi per oggetto il finanziamento delle regioni a statuto ordinario e l'adozione di meccanismi perequativi interregionali, in base ai seguenti principi e criteri direttivi:a) abolizione dei vigenti trasferimenti erariali a favore delle regioni a statuto ordinario, ad esclusione di [...]; sono in ogni caso ricompresi tra i trasferimenti soppressi quelli destinati al finanziamento [...] della spesa sanitaria corrente; [...]”.

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133/1999, mediante il quale il Governo è stato delegato ad istituire il c.d. Fondo perequativo nazionale “[...] al fine di consentire a tutte le Regioni a statuto ordinario di svolgere le proprie funzioni e di

erogare i servizi di loro competenza a livelli essenziali ed uniformi su tutto il territorio nazionale, tenendo conto delle capacità fiscali insufficienti a far conseguire tali condizioni, e della esigenza di superare gli squilibri socio – economici territoriali”.

Dalla predetta disposizione emerge in maniera piuttosto chiara la piena consapevolezza legislativa della necessità di istituire un concreto strumento di bilanciamento di un’autonomia regionale che, seppure coerente con il disegno politico di progressivo decentramento amministrativo allora in atto, minacciava di abbandonare le Regioni più deboli nel recupero delle risorse necessarie ad una deriva economico – finanziaria preoccupante e contraria ai principi fondanti il nostro ordinamento costituzionale.

Ebbene, la finalità perequativa dell’omonimo Fondo, costituito, ai sensi dell’art. 7 d.lgs. n. 56/2000, da una quota-parte, determinata annualmente (21), del gettito destinato alla

compartecipazione regionale all’IVA (22), è proprio quella di garantire la realizzazione degli

obiettivi di solidarietà interregionale.

Quello di “solidarietà interregionale” è un concetto dotato di un potenziale pregnante significato, se lo si analizza nel contesto complessivo del decreto in esame e della ratio ad esso sottesa: far dipendere buona parte dell’attuazione del federalismo e, conseguentemente, dell’autonomia organizzativa e gestionale delle Regioni, dall’efficiente funzionamento della solidarietà fiscale tra queste ultime. È stato fondamentale, per l’efficiente realizzazione di un

21 In particolare, l’art. 7 comma 1 d.lgs. n. 56/2000 ha richiamato, per la definizione delle quote di compartecipazione all’IVA da destinare al Fondo perequativo nazionale, l’art. 2 comma 4 lett. b) e lett. c) d.lgs. n. 56/2000, il quale ha espressamente previsto che sia la quota di partecipazione al Fondo perequativo, sia quella di concorso alla solidarietà interregionale, siano definite annualmente, entro il 30 settembre di ciascun anno per il triennio successivo, “con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro del tesoro, del bilancio e della

programmazione economica, sentito il Ministero della sanità, d'intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano, [...] per ciascuna regione sulla base dei criteri previsti dall'articolo 7 [del

medesimo d.lgs. n. 56/2000, n.d.r.]”.

22 In particolare, l’art. 2 d.lgs. n. 56/2000 ha determinato un meccanismo di compartecipazione delle Regioni al gettito IVA. Tale compartecipazione, nello specifico, sarebbe stata determinata percentualmente in relazione al gettito complessivo IVA realizzato dalla medesima Regione nel penultimo anno precedente a quello in considerazione, e da una conseguente attribuzione alla Regione della compartecipazione stessa, misurata utilizzando come indicatore di base imponibile la media dei consumi finali delle famiglie rilevati dall’ISTAT, a livello regionale, negli ultimi tre anni disponibili. L’introduzione del meccanismo della compartecipazione regionale ai gettiti erariali è stato un elemento di evidente progresso, in quanto, seppure a fronte di un incremento nella tassazione, ha iniziato ad instaurare nella pluralità dei consociati l’idea secondo la quale parte degli introiti erariali sarebbero stati ridistribuiti e, dunque, riutilizzati per il finanziamento di servizi, quali appunto quelli sanitari, erogati dalle istituzioni più vicine agli stessi.

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obiettivo ambizioso come quello appena ricordato, il ruolo del legislatore delegato, nel definire le modalità di attuazione del predetto concetto di “solidarietà interregionale”, soprattutto nella – più delicata – fase transitoria iniziale. A tal fine è stato previsto, ai sensi dell’art. 7 comma 3 e comma 4 d.lgs. n. 56/2000, per sopperire alle insufficienze fiscali delle Regioni più deboli, un meccanismo di finanziamento in grado di accompagnare queste ultime fino al raggiungimento – obiettivo invero piuttosto ottimistico, nei programmi del legislatore – di una piena autonomia delle stesse e, dunque, di un’implementazione del sistema perequativo delineato (23).

È significativo evidenziare che tanto il meccanismo della perequazione, quanto il fondo istituito ad hoc per garantirla, è stato altresì costituzionalizzato nel 2001, nell’àmbito della riforma del Titolo V, Parte II della Costituzione. Tra gli articoli sui quali la l. cost. n. 3/2001 è intervenuta, infatti, vi è stato anche l’art. 119, al cui comma 3 è stata prevista l’istituzione di un “fondo perequativo”, per i “territori” con minore capacità fiscale per abitante. Si noti, in merito al precetto richiamato, che la scelta di utilizzare il termine “territori” denota l’avvedutezza del legislatore costituzionale che, pur uscendo da un percorso più che decennale di regionalizzazione, ha inteso evitare, con l’utilizzazione del termine “territori” e non “Regioni”, di imbrigliare i successivi legislatori in scelte attuative meramente “regionaliste” (24) del Fondo in

esame.

Ciò che emerge dall’analisi della normativa in esame è che l’effettiva attuazione della medesima e, conseguentemente, il concreto funzionamento del sistema perequativo da essa delineato, sarebbe dipesa pressoché totalmente da un periodico quanto stringente controllo dell’effettiva capacità fiscale degli enti regionali da parte dello Stato, il quale avrebbe avuto l’ulteriore onere di verificare che i prelievi fiscali delle Regioni, insufficienti per garantire, nonostante il meccanismo della compartecipazione, l’erogazione delle prestazioni riconosciute dai livelli essenziali di assistenza, non dipendessero dall’applicazione di aliquote basse, onde

23 L’art. 7 comma 3 d.lgs. n. 56/2000 ha previsto, in particolare, che nell’anno 2001 sarebbe stato “comunque” corrisposto a tutte le Regioni un “importo pari alla differenza tra l'ammontare dei trasferimenti soppressi” ed il gettito derivante dall’aumento dell’addizionale regionale all’IRPEF e dell’accisa sulle benzine previsti normativamente, come strumenti per incrementare le entrate regionali, dagli artt. 3 comma 1 e 4 del medesimo decreto.

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poter usufruire del Fondo perequativo nazionale. In tal caso, infatti, il Fondo avrebbe finito per perdere efficienza.

Alla luce dell’impianto complessivo dei precetti testé ricostruiti, il disegno legislativo alla base dei medesimi è stato interpretato dalla dottrina più autorevole come una perequazione “orizzontale” (25), in quanto ad uno Stato centrale con minori poteri di indirizzo e sempre

maggiori funzioni di mero controllo “dall’alto”, è corrisposta l’istituzione di un sistema regionalizzato decentrato, non soltanto a livello organizzativo e gestionale, ma anche economico – finanziario.

In conclusione, la rilevanza riformatrice di un sistema come quello in esame è risieduta, ad avviso di chi scrive, nella convinzione, coltivata dai legislatori dei primi anni 2000, che la concessione di più ampi spazi di autonomia organizzativa, gestionale ed economico – finanziaria alle Regioni, accompagnata da una crescente responsabilizzazione delle medesime nel reperimento delle risorse che avrebbero garantito alle stesse, mediante meccanismi quali la compartecipazione e la perequazione, l’effettiva erogabilità delle prestazioni sanitarie riconosciute tra i livelli essenziali di assistenza, le avrebbe altresì spinte ad eseguire con maggiore rigore il prelievo fiscale necessario e a regolarizzare i propri bilanci.

L’aspetto su cui, invece, il percorso di riforma federalistica intrapreso agli inizi del XXI secolo ha prestato il fianco alle critiche più aspre, è stato di non aver tenuto in debita considerazione il già evidentissimo divario intercorrente tra le Regioni a livello di capacità fiscale (quella stessa capacità, cioè, su cui le medesime avrebbero invece teoricamente dovuto fondare la propria autonomia). In particolare, tale problematica emerge già dal riferimento, effettuato all’art. 7 comma 1 d.lgs. n. 56/2000, alla compartecipazione IVA per la concreta costituzione del Fondo perequativo nazionale. Una siffatta disposizione, come sottolineato dagli autori (26) più critici nei confronti della medesima e della formulazione del quadro

normativo all’interno del quale essa si colloca, ha comportato la prevedibile conseguenza che le Regioni meridionali, storicamente più deboli a livello di gettito IVA, siano risultate in

25 FIORENTINI G.,Finanziamento dei servizi sanitari e regolamentazione della qualità,inFIORENTINI G.(a cura di),I

servizi sanitari in Italia 2000,Bologna, Il Mulino, 2000.

26 DIRINDIN N., Sanità e federalismo: un matrimonio, in MONTAGUTI U. (a cura di), Il federalismo in Italia. Riflessioni ad

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costante disavanzo, allargando (anziché diminuire) il deficit che già allora le obbligava a ricorrere periodicamente alla “solidarietà interregionale”. Solidarietà che, per questo, sarebbe per esse divenuta lo strumento ordinario per riuscire soddisfare il fabbisogno sanitario dei propri utenti, impedendo, così, l’implementazione del Fondo perequativo.

Effettivamente, ad avviso di chi ha criticato il d.lgs. n. 56/2000, la l. cost. n. 3/2001, nonché la principale legge di attuazione di quest’ultima, l. 5 giugno 2003, n. 131 (c.d. legge “La Loggia”), una riforma disegnata in ottica federalista avrebbe potuto funzionare – all’interno di servizio sanitario istituito e coltivato nel rispetto del principio universalistico – soltanto a condizione di una definizione rigorosa, concreta e lungimirante delle modalità di attuazione degli obiettivi sottesi alle normative emanate. Orbene, anche chi scrive ritiene che, come emerso dalla ricostruzione degli elementi principali della normativa in questione, mancando tale definizione, il legislatore dei primi anni 2000 ha mancato la possibilità di attuare una riforma che, a titolo teorico, avrebbe potuto essere epocale, ma che di fatto, a titolo pratico, ha rischiato di frammentare ancora di più il quadro sanitario nazionale, allargando, invece di diminuirlo, il divario esistente tra le singole Regioni (27).

2.2. (Segue:) La via della concertazione tra Stato e Regioni per contenere i disavanzi e programmare il SSN.

Parallelamente al difficile percorso, sopra analizzato, di progressiva responsabilizzazione delle Regioni nell’organizzazione e gestione dei propri servizi sanitari con maggiore autonomia (anche) economico-finanziaria, la seconda linea direttrice seguita nei primi anni 2000 per (ri)organizzare il sistema sanitario pubblico razionalizzandone la spesa e, al contempo, mantenendo livelli uniformi di assistenza su tutto il territorio nazionale, è stata quella di cercare una modalità di raccordo e di assunzione di impegni reciproci tra Stato e Regioni, oltreché di programmazione generale del SSN.

Ebbene, in un sistema periferico, come quello poc’anzi descritto, così estremamente eterogeneo e, quindi, ben lontano dall’essere predisposto ad una convergenza di interessi ed

27 Sul punto, si v. BASSANINI F., BILANCIA P., BUONOMO G., CERULLI IRELLI V., CIAURRO L., CITTADINO C., PIANA S., PIANELLI C., PIZZETTI F., VANDELLI L., La legge “La Loggia”: commento alla l. 5 giugno 2003 n. 131 di

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obiettivi (primo e più impellente il contenimento del deficit), la sede più idonea per tentare comunque tale convergenza – nell’obbligatorio rispetto delle rigide prescrizioni comunitarie enunciate ad inizio paragrafo (28) – è stata ritenuta essere quella concertativa e, in particolare, la

Conferenza Stato – Regioni. Lo stesso luogo di raccordo istituzionale è stato scelto per definire, altresì, gli obiettivi di contenimento dei disavanzi periferico – istituzionali in materia sanitaria, pesantemente incidenti sui bilanci regionali e, di conseguenza, sull’inevitabile aumento dell’indebitamento statale per la copertura dei primi.

La Conferenza Stato – Regioni operava in realtà già dagli anni Ottanta, essendo stata istituita con d.P.C.M. 12 ottobre 1983 proprio per “acquisire in apposita sede collegiale completa e

formale conoscenza delle esigenze delle regioni e delle province autonome in relazione agli indirizzi governativi di politica generale incidenti nelle materie di competenza regionale […], nonché ai fini di collegamento tra gli organi statali, regionali e provinciali”. Nel citato atto regolamentare, le funzioni della Conferenza

Stato – Regioni erano invero piuttosto limitate e non ben specificate: ai sensi dell’art. 1 comma 1, infatti, esse sarebbero consistite in attività di “di informazione, di consultazione, di studio e di

raccordo sui problemi di interesse comune tra Stato, regioni e province autonome” (29).

I “compiti” della Conferenza Stato – Regioni hanno trovato una disciplina definitiva nel d.lgs. 28 agosto 1997, n. 281, il quale ha decisamente rafforzato il ruolo della Conferenza, ampliando notevolmente e rendendo così effettivo il “peso” regionale all’interno della stessa. Ciò in quanto la sede concertativa, come a più riprese statuito dalla Corte Costituzionale, rappresenta un luogo essenziale per l’attuazione del principio costituzionale di “leale

collaborazione” tra Stato e Regioni: “[q]uesta Corte ha individuato nel sistema delle conferenze «il principale strumento che consente alle Regioni di avere un ruolo nella determinazione del contenuto di taluni atti legislativi statali che incidono su materie di competenza regionale» (sentenza n. 401 del 2007) e «[u]na delle

28 Si v. supra, p. 42.

29 Il successivo comma 3 dello stesso art. 1 prevedeva, invece, i casi in cui la Conferenza avrebbe potuto essere consultata: “a) sui criteri generali relativi all'esercizio delle funzioni statali di indirizzo e di coordinamento inerenti ai rapporti tra

lo Stato, le regioni, le province autonome e gli enti infraregionali, nonché sugli indirizzi generali relativi alla elaborazione ed attuazione degli atti comunitari che riguardano le competenze regionali; b) sulle linee generali dell'attività normativa che interessa direttamente le regioni e sulla determinazione degli obiettivi di programmazione economica nazionale e della politica finanziaria e di bilancio; c) sui criteri generali degli schemi di legge di principio inerenti alle materie di competenza regionale, con particolare riguardo a quelli di cui al decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1977, n. 616; d) sugli altri argomenti connessi con gli scopi indicati nelle premesse del presente decreto per i quali il Presidente del Consiglio ritenga opportuno acquisire il parere della Conferenza; e) su proposte di studi relativi a problemi che attengono a settori di attività di interesse regionale”.

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sedi più qualificate per l’elaborazione di regole destinate ad integrare il parametro della leale collaborazione» (sentenza n. 31 del 2006)” (30).

In particolare, nell’ampio elenco di funzioni contenuto all’art. 2 del d.lgs. n. 281/1997, spicca in primo luogo l’“intesa”: posto infatti che, ai sensi del successivo art. 3, l’“intesa” “si

perfeziona con l'espressione dell'assenso del Governo e dei presidenti delle regioni e delle province autonome di Trento e di Bolzano”, essa rappresenta per le Regioni uno strumento di pregnante incisione

sull’azione dello Stato, il quale – in tutte le materie in cui l’adozione di atti normativi è subordinata alla “previa intesa” in sede di Conferenza Stato – Regioni – deve necessariamente ottenere l’assenso di tutte le Regioni e non vi si può discostare se non (ipotesi comunque del tutto residuale) “con deliberazione motivata” (31). Rileva osservare come proprio l’intesa abbia

rappresentato, per la Consulta, lo strumento concertativo principale per la realizzazione della “leale collaborazione tra lo Stato e le autonomie (ex plurimis, sentenze n. 88 del 2014, n. 297 e n. 163 del

2012), «qualora non siano coinvolti interessi esclusivamente e individualmente imputabili al singolo ente autonomo» (sentenza n. 1 del 2016)” (32).

Sempre al fine di garantire la massima realizzazione del suddetto principio di “leale

collaborazione” tra Stato e Regioni nelle materie rientranti nelle (o comunque sia connesse alle)

competenze normative ed amministrative di entrambi, il d.lgs. n. 281/1997 ha previsto altresì, al successivo art. 4, la possibilità di concludere “accordi” “al fine di coordinare l'esercizio delle

rispettive competenze e svolgere attività di interesse comune” (33).

Orbene, la necessità di trovare maggiore coordinamento nel dissestato percorso federalistico avviato per (ri)organizzare e razionalizzare il SSN a cavallo tra la fine del XX secolo e l’inizio del XXI, ha spinto, come detto, a fare ricorso proprio ai suddetti strumenti concertativi anche in àmbito sanitario. Ciò anche perché si ritenne che essi potessero

30 Corte Cost., 25 novembre 2016, n. 251, pubblicata su www.giurcost.org/decisioni/2016/0251s-16.html.