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L’autotutela tra regola ed eccezione

e convincenti sull’autotutela, che influenzeranno gli interpreti successivi79 e che consentiranno alla categoria di adattarsi meglio ai cambiamenti giuridici, culturali e sociali sopravvenuti.

4) L’autotutela tra regola ed eccezione.

Il principale sintomo della diffidenza nutrita dal nostro ordinamento civilistico nei confronti dell’autotutela è dato, oltre che dalla penuria di letteratura specifica sull’argomento, dal fatto che per lungo tempo il carattere di eccezionalità che connoterebbe l’istituto è stato considerato una verità assiomatica e di per sé evidente, senza che gli interpreti si sforzassero di motivarla analiticamente e senza che si sviluppasse un vero e proprio dibattito sul tema.

Malgrado l’assenza (tanto di una norma che legittimi in via generale l’autotutela80, quanto) di una norma che ponga un espresso divieto di ricorrere a tale istituto nei rapporti interprivati, e a dispetto – viceversa – della nutrita serie di fattispecie, disciplinate nel codice civile e nella legislazione speciale, pacificamente qualificabili come rientranti nella suddetta categoria sistematica81, nella manualistica tradizionale82 e persino nei trattati civilistici83 l’autotutela

79 In merito agli strumenti di autodifesa privata che consentono al creditore di somme di denaro di conseguire l’esecuzione con la propria azione non giurisdizionale si veda Bongiorno, L’autotutela esecutiva, Giuffrè, Milano, 1984.

80 A tal proposito, si veda quanto già illustrato al par. 2.

81 Si pensi, a mero titolo esemplificativo, al potere di riscatto, alle ipotesi di recesso unilaterale, all’eccezione di inadempimento, alla legittima difesa, al patto di solve et repete, al diritto di ritenzione, alla revoca del proprio consenso ovvero di organi societari, etc.

82 Cfr. Mazzamuto (a cura di), Manuale del diritto privato, Giappichelli, Torino, 2016; Nivarra – Ricciuto - Scognamiglio, Istituzioni di diritto privato, VIII ed., Giappichelli, Torino, 2016; Bessone (a cura di), Istituzioni di diritto privato, XXI ed., Giappichelli, Torino, 2015; Alpa, Manuale di diritto privato, IX ed., Wolters Kluwer - CEDAM, Assago, 2015; Bianca, Istituzioni di diritto privato, 2014, Giuffrè, Milano; Torrente - Schlesinger, op. cit.; Trimarchi, op. cit. 83 Trattato del contratto, diretto da Roppo, Vol. 5, Rimedi 2, a cura di Roppo, Giuffrè, Milano, 2006;.Bigliazzi Geri – Busnelli - Ferrucci, Artt. 2900-2969, in Commentario cod. civ., Libro VI: della tutela dei diritti, II ed., Utet, Torino, 1980; Di Majo, op. cit., 1993; Trattato di diritto

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viene solitamente liquidata rimarcando l’esclusione della possibilità per i singoli soggetti giuridici di porre in essere autonomamente delle azioni di protezione dei propri interessi idonee ad avere effetti sulla sfera giuridica altrui.

Una simile apodittica affermazione serve, usualmente, alla dottrina per consolidare il monopolio statale sulla giustizia, rimarcando il dovere, per i singoli individui, di rivolgersi agli appositi organi giurisdizionali per la tutela civile dei loro diritti, salvo che nelle ipotesi in cui sia espressamente prevista dalla legge la possibilità di agire in prima persona per ottenere il medesimo risultato. A mero titolo esemplificativo, si richiama la posizione assunta in proposito da Bigliazzi Geri nell’opera monografica sopra citata, nella quale in un primo momento pare ammettere quale conclusione del proprio ragionamento la possibilità che i caratteri propri dell’autotutela da lei stessa elaborati siano riscontrabili «anche in certe ipotesi non specificamente previste ma qualificabili sulla base di disposizioni sostanzialmente di ordine più generale»84; salvo poi battere in ritirata prima di dover affrontare le conseguenze di tale affermazione, dichiarando che, in mancanza di una norma legittimatrice onnicomprensiva, non sarebbe possibile ritenere sussistente un potere generale e unitario di autotutela immanente all’ordinamento, e rimarcando viceversa tipicità ed eccezionalità delle singole fattispecie normativamente previste85.

Tuttavia, ove si rifletta sulla circostanza per cui la vera ratio posta alla base di questo genere di ragionamenti è, di fatto, il mero timore che un’eccessiva diffusione dei mezzi di autotutela possa costituire una minaccia alla preminenza della tutela processuale dei diritti, senza che dunque ostino a una diversa soluzione motivazioni di ordine sistematico o giuridico, ma solo di opportunità,

privato, diretto da Pietro Rescigno, La China, Tutela dei diritti: tomo primo, II ed., Utet, Torino, 1997.

84 Cfr. Bigliazzi Geri, op. cit., 1971, p. 41. 85 Cfr. Bigliazzi Geri, op. cit., 1971, p. 46.

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diventa possibile prendere in seria considerazione l’ipotesi di modificare l’impostazione tradizionale.

Così ha fatto la maggior parte della dottrina più recente86, che ha cominciato ad ammettere forme di tutela innominate o atipiche, in parte a ciò indotta da ragioni altrettanto contingenti (quali quelle già accennate, riguardanti la crescita dei costi della giustizia, l’incertezza e la notevole durata delle tempistiche necessarie per ottenere l’intervento statale, la sempre maggiore difficoltà per gli operatori del diritto di porre in esecuzione i provvedimenti giudiziari e ottenere risultati in grado di ristabilire efficacemente l’equilibrio violato, in sintesi la crisi che sta attraversando il sistema giudiziario in senso ampio), in parte sull’onda del ripensamento generalizzato dell’apparato rimediale che sta sempre più impegnando gli studiosi di diritto privato al dichiarato fine di reperire strumenti di tutela più duttili, in grado di rispondere a nuovi bisogni, e diversi da quelli tradizionali, rivelatisi invece poco efficienti87.

I percorsi argomentativi seguiti allo scopo di ammettere l’ammissibilità, nel nostro ordinamento, di fattispecie di autotutela non previamente inquadrate e tipizzate dal diritto positivo, sono stati i più diversi.

Partendo dal presupposto che sia più semplice giustificare le ipotesi di autotutela consistenti in comportamenti di resistenza, meramente passivi,

86 Si fa riferimento, ovviamente, ai già richiamati Dagnino, op. cit., p. 42 e ss. (il quale mediante un’analisi ragionata delle diverse norme che disciplinano singole fattispecie di autotutela deduce un principio generale di liceità, su cui v. più estesamente infra); Bianca, Autotutela (voce) cit., 2000, p. 134, il quale tuttavia si limita ad ammettere la possibilità di procedere a un’interpretazione analogica invece di spingersi ad affermare la sussistenza di un vero e proprio principio generale di autotutela nell’ordinamento civilistico; si veda altresì l’originale conclusione proposta da Ferrante, il quale però rivolge il focus della propria opera all’esercizio degli strumenti di autotutela nel diverso campo del diritto del lavoro: cfr. Ferrante, Potere e autotutela nel contratto di lavoro subordinato, Giappichelli, Torino, 2004, p. 212 e ss. Tuttavia, il vero precursore di tale prospettiva di apertura (ma pur sempre regolata) all’autotutela è stato in realtà Ferrara Santamaria, op. cit..

87 Cfr., ex multis, Mazzamuto (a cura di), Il contratto e le tutele. Prospettive di diritto europeo, Giappichelli, Torino, 2002; Gitti – Villa (a cura di), op. cit., 2008; Volpe, op. cit., 2004.

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piuttosto che casi di autotutela attiva, si è affermato88 che – anche nei casi in cui manchi l’inadempimento di controparte e risulti quindi non applicabile l’art. 1460 c.c., che altrimenti rappresenta la fattispecie dall’applicazione più generalizzata – sia sempre possibile invocare la sopravvenuta e incolpevole inesigibilità89 della prestazione; nonché, nel caso in cui l’astensione da una certa condotta sia riconducibile a motivi etici o religiosi, in forza del principio di buona fede in executivis, si è sostenuto che sia legittimo addurre la sussistenza di un diritto di obiezione di coscienza anche al di là dei casi in cui è espressamente previsto dalla legge90. Quest’ultima prospettiva interpretativa, in particolare, potrebbe evidenziare dei risvolti interessanti nel settore giuslavoristico ove,

88 Cfr. Ferrante, op. cit., p. 214 e ss.

89 Si fa qui riferimento alla c.d. «teoria dell'inesigibilità della prestazione», che trova le proprie origini nell'ordinamento giuridico tedesco e che prende avvio dal dibattito sull'imputabilità dell'inadempimento. La dottrina, infatti, pur tra molte incertezze, è passata da un'accezione «materiale» a una «ideale» di inesigibilità, conferendo rilevanza giuridica alle sopravvenienze non patrimoniali quali eventi che, in forza di un bilanciamento d’interessi, consentono a uno dei contraenti di reagire, nella fase esecutiva di un rapporto obbligatorio, a squilibri non già economici ma riconducibili ad alterazioni della sfera esistenziale del debitore. L’inadempimento che ne consegue è in tal modo “scriminato”, pur non versando né in un’ipotesi di impossibilità sopravvenuta della prestazione né in un’ipotesi di stato di necessità; l'inesigibilità si caratterizza, piuttosto, come una vicenda modificativa dell’obbligazione che ne determina l'incoercibilità, pur consentendo un eventuale adempimento spontaneo, modulando in modo più equo il rapporto. Cfr. Clarizia, Sopravvenienze non patrimoniali e inesigibilità nelle obbligazioni, ESI, Napoli, 2012. Anche in tal caso, l’espediente ricostruttivo prediletto dagli interpreti è stato quello di valorizzare la portata del principio della buona fede contrattuale come fonte di obblighi reciproci a carico del creditore e del debitore, ex artt. 1175 e 1375 c.c. Uno dei settori in cui tale categoria concettuale trova maggiore applicazione è proprio quello del diritto del lavoro, quale forma di tutela ulteriore per la persona del lavoratore, come noto particolarmente implicata nell’esecuzione del rapporto. Così, ad esempio, ove il lavoratore sia affetto da una malattia non abbastanza grave da integrare l’ipotesi di impossibilità (fisica) di adempimento, si ritiene generalmente che la relativa prestazione sia divenuta inesigibile da parte del datore di lavoro, che ove invece obbligasse il lavoratore a renderla violerebbe non solo il principio di buona fede ma altresì l’art. 2087 c.c. Su questo specifico profilo si veda Ichino, Il contratto di lavoro, Cicu – Messineo – Mengoni, Trattato di diritto civile e commerciale, Giuffrè, Milano, vol. I 2000, vol. II e III, 2003, cap. 13, par. 365.

90 Nel nostro ordinamento, una volta venuto meno il servizio militare obbligatorio (e a parte il riferimento all’obiezione di coscienza che è rimasto nel Codice dell’ordinamento militare, di cui al D. Lgs. 15.3.2010, n. 66), casi di obiezione di coscienza sono previsti in materia di sperimentazione animale (dalla Legge 12.10.1993, n. 413) e, in ambito medico, nei casi di interruzione volontaria di gravidanza (dalla Legge 22.5.1978, n. 194).

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come noto, la persona del lavoratore in generale e il principio della dignità umana più specificamente rivestono una notevole importanza nei bilanciamenti d’interessi.

Si è altresì tentato di enucleare uno spazio di liceità assicurato all’autotutela ragionando a contrario dalle norme penalistiche (in particolare quelle, già illustrate in precedenza, di cui agli artt. 52, 391 e 392 c.p., la prima di portata generale mentre le ultime due definiscono e sanzionano ipotesi specifiche di reato91), sulla base del famoso brocardo in base al quale tutto ciò che non è espressamente vietato deve essere considerato consentito92, almeno fino a prova contraria. Seguendo il suddetto percorso argomentativo, «chi intenda tutelare il proprio diritto, attraverso una azione (violenta e) diretta, risponde del reato di ragion fattasi anche qualora il diritto sia fondato, salvo che per il caso in cui manchi la possibilità di ricorrere utilmente all’autorità giudiziaria»93. In questo modo, si troverebbe una legittimazione anche per quei comportamenti (reattivi o preventivi che siano) che non consistono in una mera omissione, bensì si concretizzano in azioni incidenti sulla sfera giuridica altrui; e anche questo risultato sarebbe della massima importanza nell’ambito del diritto del lavoro, in ragione dell’inevitabile coinvolgimento di vari aspetti della persona umana, valore protetto dalla nostra Costituzione in diverse accezioni.

Secondo la lettura ora esposta, l’azione diretta del singolo individuo a tutela delle proprie ragioni dovrebbe considerarsi ammessa dall’ordinamento in tutti

91 Si tratta, rispettivamente, della scriminante della legittima difesa e dei reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza sulle cose ovvero sulle persone; questi ultimi, in particolare, costituiscono ipotesi di reato contro l’amministrazione della giustizia, mirando a evitare che il privato cittadino si faccia ragione da sé in modo arbitrario e violento, compromettendo così la pubblica pace. Tali norme, tuttavia, non introducono un divieto generale dell’autotutela privata, intendono solo delimitarne esternamente l’ambito di operatività: cfr. Dagnino, op. cit., p. 20 e ss.

92 Cfr. Ferrante, op. cit., p. 224. Nello stesso senso e con identica argomentazione si veda Dagnino, op. cit., p. 25-26.

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quei casi in cui: vi sia un’offesa in corso da parte di un altro soggetto, il ricorso all’autorità giudiziaria sia impossibile o comunque molto meno utile dell’azione diretta, si rispetti il principio di proporzionalità tra offesa e reazione, non ci sia altro modo di impedire la lesione e «strutturalmente l’ordinamento non sia in grado di garantire la tutela dei beni fondamentali contro il pericolo di una loro compromissione derivante dall’azione di un terzo»94.

Infine, si è contestato che il combinato disposto di cui agli articoli 2907 c.c. e 101 e 102 Cost. possa implicare l’interdizione per i privati di avvalersi di forme di autodifesa alternative all’agire in giudizio per ottenere la tutela delle proprie ragioni, salvo che nelle ipotesi in cui è espressamente consentito dalla legge. Ciò, secondo un Autore95, sarebbe frutto di un equivoco creato dall’assimilazione dell’autotutela a una vera e propria giurisdizione privata, in grado di svolgere funzioni di accertamento e attuazione dei diritti, cosa che invece non è e non pretende nemmeno di essere, ponendosi solo quale strumento a disposizione dei singoli per proteggere senza indugio il proprio interesse dal pericolo o da un attuale lesione96.

94 Cfr. Ferrante, op. cit., p. 227. L’Autore prosegue affermando che «tale conclusione appare già acquisita per i casi in cui sussista in concreto un obbligo di non fare, tutte le volte che sia in gioco una lesione ad un diritto costituzionalmente garantito, non risarcibile se non per equivalente: resta ora da vedere in che misura essa possa essere estesa anche agli obblighi di pati, quando una prestazione tardiva sarebbe priva di interesse per il creditore, ovvero, tutte le volte che dall’obbligazione derivi il credito ad un determinato comportamento, quando la minaccia di un diverso agire si presenti come non più rimediabile – come tipicamente nel rapporto di lavoro per tutte le obbligazioni che riguardano la tutela della persona del lavoratore» (corsivo mio). 95 Cfr. Dagnino, op. cit., p. 26 e ss.

96 Cfr. Dagnino, op. cit., p. 30, in particolare il passaggio dove l’Autore per spiegare l’equivoco in cui è incorsa gran parte della dottrina precedente dichiara che «in altre parole, il concetto di autotutela, esattamente inteso come sinonimo di autodifesa, è stato poi tradotto in autogiustizia e quindi in autogiurisdizione». Su tale punto è d’accordo anche Rappazzo, op. cit., p. 12-13, ove afferma che «può dirsi un punto acquisito un punto essenziale: l’autotutela non è atto giurisdizionale né evita la giurisdizione», pur concludendo per la perdurante eccezionalità dell’autotutela, in quanto «l’esercizio di tale facoltà deve muoversi lungo i binari predeterminati dalla legge e dalla clausola generale di buona fede» Eppure, l’Autore si rende conto che tali binari possono condurre a risultati innovativi, ulteriori rispetto a quelli predeterminati dal diritto

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Se dunque sembra difficile ritenere che nel nostro ordinamento sussista un principio generale di autotutela in grado di giustificare qualsiasi azione lesiva della sfera giuridica altrui solo in quanto motivata dall’intento di difendere un proprio interesse, nondimeno dalle argomentazioni sinora esposte appare manifesto il fatto che il sistema giuridico debba quotidianamente fare i conti con un numero sempre crescente di episodi atipici di autotutela, i quali, malgrado non siano esplicitamente contemplati da una norma, perseguono un fine degno di rilevanza giuridica e meritevole di tutela, e possano pertanto essere considerati legittimi.