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La nozione di autotutela nelle diverse branche del diritto: una doverosa premessa

L’indagine che voglia accostarsi ad un tema, quale quello dell’autotutela, trasversalmente presente in quasi tutte le branche in cui si suole suddividere il diritto, dovrebbe razionalmente partire da una nozione basica dell’istituto, in grado di riassumerne i tratti distintivi tipici, rinvenibili in tutte le diverse declinazioni successivamente elaborate dalle singole materie. Bisognerebbe, in altre parole, enucleare sin dall’inizio l’ossatura che si cela all’interno di tutte le fattispecie riconducibili a tale categoria concettuale, il cosiddetto minimo comun denominatore. Ebbene, in realtà già tale prima ricostruzione appare assai complessa e di non pronta soluzione.

L’istintiva collocazione di tutto ciò che afferisce all’autotutela al di là del perimetro dell’ordinamento giuridico (fatte salve le dovute eccezioni previste da apposite norme di diritto positivo), ha probabilmente accresciuto la diffidenza dei giuristi, i quali nella maggior parte dei casi hanno preferito soffermarsi sulle singole ipotesi di autodifesa previste in diversi settori giuridici, piuttosto che

economica, dignità, sicurezza, eguaglianza, libertà sindacale etc., il cui rapporto dialettico si esprime attraverso tecniche di bilanciamento non sempre prefigurate a priori dal legislatore. Di qui la necessità (anzi l’indispensabilità) della ricerca di un metodo che consenta a tali principi-valori di dialogare con il diritto positivo» (p. 6).

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interrogarsi sul fondamento e sull’essenza di qualcosa che si poneva in ontologica contrapposizione con il sistema di giustizia statuale.

Bisogna dunque affidarsi agli strumenti propri di altre materie, quali la linguistica o la filosofia, per tracciare una prima cornice di riferimento. Il sostantivo in esame è significativamente composto dal prefisso riflessivo “auto” (dal pronome greco con valore intensivo «stesso») e dal nome «tutela» (definita come «funzione protettiva o difensiva, salvaguardia; difesa di un diritto»33), traducendosi così il lemma nella «difesa delle proprie ragioni effettuata direttamente dal privato, al di fuori della via giudiziaria»34. Appare pertanto evidente che ciò che connota immediatamente tale concetto, già nell’immaginario comune e in un uso atecnico del linguaggio, è proprio il fatto di costituire un’alternativa ai mezzi di protezione offerti dall’ordinamento. Pur senza voler chiamare in causa la teoria del contratto sociale di Rousseau35, è facile comprendere come il passaggio (o, meglio, la restituzione) del potere di reagire ai torti dallo Stato al singolo cittadino rappresenti un notevole fattore di rischio, agevolando in potenza il ritorno allo stato di natura che da tempo si è tentato di lasciarsi alle spalle. Eppure, spesso sono gli stessi pensatori che hanno elaborato le tesi contrattualiste a prevedere, in taluni casi, la sussistenza di un vero e proprio «diritto di resistenza»36, di cui risulta titolare ciascun membro

33 Questi sono l’etimo e la definizione riportati da Devoto – Oli, Il dizionario della lingua italiana, Le Monnier, Firenze, 1990.

34 Ibidem.

35 Rousseau, Il contratto sociale, Oscar Mondadori, Milano, 2002, ove si afferma la necessità di «trovare una forma di associazione che difenda e protegga, mediante tutta la forza comune, la persona e i beni di ciascun associato e per mezzo della quale ognuno, unendosi a tutti, non obbedisca tuttavia che a se stesso e rimanga libero come prima». La tesi del contrattualismo è stata teorizzata e sviluppata altresì, tra gli altri, da Thomas Hobbes e da John Locke.

36 Mentre Rousseau avversava recisamente la possibilità per i singoli cittadini di resistere alle leggi, qualificando queste ultime come espressione della volontà generale e sovrana, altri pensatori (quali gli stessi Hobbes e Locke già citati, nonché Johannes Althusius e perfino Norberto Bobbio, nei giorni nostri) hanno considerato configurabile un simile diritto. In merito specificamente al diritto di resistenza, si segnala l’interessante opera di Buratti, Dal diritto di resistenza al metodo democratico, Giuffrè, Milano, 2006. Sul medesimo argomento, si veda

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della società e che consiste nel diritto–dovere di opporsi a manifestazioni illegittime del potere pubblico.

In seno alla nostra stessa Assemblea Costituente si tenne un acceso dibattito in merito all’opportunità di inserire o meno, nella Carta costituzionale, l’espressa previsione di un diritto di resistenza, tanto individuale che collettivo, ad atti dei pubblici poteri tali da violare le libertà fondamentali e i diritti costituzionalmente garantiti37. Pur se, alla fine, tale progetto venne abbandonato per ragioni in parte di principio (temendo, taluni, una pericolosa confusione tra resistenza e rivoluzione e, in ogni caso, non volendo legittimare uno strumento in grado di scardinare l’ordine costituito), in parte di opportunità politica, la trattazione dell’argomento da parte di giuristi e filosofi del diritto continuò nei decenni successivi, pur concentrandosi su peculiari forme di autotutela individuali, quali l’obiezione di coscienza e la difesa della dignità della persona umana38.

D’altro canto, rimanendo nell’ambito del diritto pubblico, la branca in cui più si sono colte e sviluppate le potenzialità dell’istituto dell’autotutela è stata quella del diritto amministrativo39: a fronte di una situazione di conflitto (attuale o

altresì Marchesiello, Diritto di resistenza. Come fare la rivoluzione attraverso il diritto, GruppoAbele, 2013.

37 Il Progetto di Costituzione, al II comma dell’art. 50, infatti, in origine sanciva che «quando i poteri pubblici violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza all’oppressione è diritto e dovere del cittadino». Per una ricostruzione dei passaggi in cui si svolse la discussione, prima all’interno della Prima Sottocommissione della Commissione per la Costituzione e poi nelle sedute dell’Assemblea Costituente, tra il 1946 e il 1947, si rinvia al contributo di e alla bibliografia citata da Gianniti, Autotutela e diritto di resistenza, p. 59 e ss., in Gianniti (a cura di), La disciplina dell’autotutela nel diritto costituzionale, civile, penale, del lavoro, amministrativo, tributario, comunitario ed internazionale, Cedam, Padova, 2010. 38 Cfr. ancora Gianniti, op. cit., p. 88 e ss., nonché, nel medesimo volume, Bettetini, Autotutela e diritto di libertà di coscienza, p. 99 e ss. Per una trattazione più completa del tema assai delicato dell’obiezione di coscienza, si rinvia a Saporiti, La coscienza disubbidiente: ragioni, tutele e limiti dell’obiezione di coscienza, Giuffrè, Milano, 2014.

39 Lo studio di riferimento, a tal proposito, pare essere ancora Benvenuti, Appunti di diritto amministrativo, parte generale, IV ed., Cedam, Padova, 1987, p. 146 e ss.; sempre dello stesso Autore, si veda anche la voce Autotutela (dir. amm.), in Enc. dir., vol. IV, 1959, p. 537 e ss., ove ha definito l’autotutela in tale settore come «quella parte di attività amministrativa con la quale la stessa pubblica amministrazione provvede a risolvere i conflitti, potenziali o attuali, insorgenti

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potenziale) tra lo Stato, nella sua veste di Pubblica Amministrazione, e un soggetto privato, il primo può provvedere autonomamente alla salvaguardia e alla realizzazione dell’interesse pubblico di cui è portatore, senza dover passare per l’intermediazione dell’organo giudiziario. Il potere di agire in via di autotutela è stato così considerato un’estrinsecazione della posizione di supremazia e preminenza che, ontologicamente, rivestono i soggetti pubblici nei confronti dei singoli componenti della collettività. Il suddetto potere si esplica, poi, soprattutto, in provvedimenti di controllo, di annullamento o di revoca40. Proprio in quanto strumento che consente di deflazionare il contenzioso, di prevenire possibili contrasti e di assicurare un più pronto e sicuro risultato, l’autotutela è un istituto promosso e incentivato dal diritto amministrativo41 (benché anche in questo settore permangano perplessità e contrasti in dottrina42). In parte analoga all’autotutela amministrativa è la trattazione dell’istituto da parte del diritto tributario43: anche in tale ultimo settore, infatti, rappresenta un potere spettante alla Pubblica Amministrazione competente44 e si concretizza principalmente nell’annullamento, totale o parziale, di atti pubblici in quanto

con altri soggetti, in relazione ai suoi provvedimenti od alle sue pretese»; nonché, Coraggio, voce Autotutela, I) diritto amministrativo, in Enc. giur. Treccani, vol. IV, 1988, p. 1 e ss. Più di recente si vedano i contributi di Liberati, L’autotutela amministrativa, Giuffrè, Milano, 2006 e Cifarelli, L’autotutela amministrativa dopo la riforma Madia e il nuovo Codice dei contratti pubblici, Dike giuridica, Roma, 2016.

40 Si vedano le discipline, rispettivamente, della revoca (ex art. 21-quinquies della L. 7.8.1990, n. 241) e dell’annullamento d’ufficio (ex art. 21-nonies della L. 7.8.1990, n. 241). Cfr. ancora, al riguardo, Coraggio, op. cit., p. 2; Pazzaglia, L’autotutela decisoria, nell’opera collettiva citata a cura di Gianniti, p. 435, ha chiarito che «L’autotutela rappresenta quindi sempre un’attività sostanzialmente amministrativa, anche se secondaria o sussidiaria nel senso che essa ha lo scopo di verificare la legittimità e l’opportunità nonché di garantire l’efficacia e l’esecuzione degli atti amministrativi precedentemente emanati dalla pubblica amministrazione nell’ambito dei suoi poteri di autarchia».

41 Cfr. ancora Gianniti, op. cit., p. 1 e ss. 42 Cfr. ancora Coraggio, op. cit., p. 2 e ss.

43 Si rinvia a tal proposito a Palumbo, L’autotutela nel diritto tributario, in Gianniti (a cura di), op. cit., p. 493 e ss.; si veda altresì Muscarà, voce Autotutela, V) diritto tributario, in Enc. giur. Treccani, vol. IV, 1988, p. 1 e ss.

44 Ex art. 2 quater, comma 1ter, del d.l. 30.9.1994, n. 564, convertito, con modificazioni, dalla legge 30.11.1994, n. 656, poi integrato dall’art. 27 della l. 18.2.1999, n. 28.

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illegittimi o infondati. Tuttavia, a differenza dell’autotutela amministrativa, in campo tributario tale potere viene esercitato in modo non discrezionale, al dichiarato fine di assicurare il rispetto del principio fondamentale della giusta tassazione a seconda della capacità contributiva di ciascuno, ex art. 53 Cost. In tali casi, l’interesse pubblico al ristabilimento di una giusta imposizione coincide con la posizione di vantaggio (che si traduce in un vero e proprio diritto soggettivo, e non in un mero interesse legittimo) del contribuente che vede annullato o revocato il provvedimento a lui sfavorevole.

Vi è sicuramente una dimensione giuspubblicistica ineludibile dell’autotutela, di cui si darà maggior conto nel prosieguo dell’elaborato, ma il punto di vista privilegiato in questa sede resta quello privatistico, secondo il quale il singolo soggetto di diritto può agire autonomamente, in via preventivo-cautelare o reattiva, per difendere una propria posizione giuridica soggettiva considerata degna di protezione dall’ordinamento e ristabilire l’equilibrio giuridico contro l’altrui ingiusta pretesa di mutarlo. In tale ambito, tuttavia, come del resto nel diritto penale, le forme riconducibili all’autotutela sono trattate con maggiore diffidenza.

A tale risultato concorre sicuramente la mancanza, nel corpus normativo civilistico, di una disposizione di diritto positivo che preveda e disciplini nei suoi tratti generali l’istituto45. Tanto nel codice civile quanto nella legislazione

45 Al contrario di quanto accade, invece, nell’ordinamento tedesco, ove al paragrafo 229 del B.G.B. è prevista una disposizione generale in tema di autotutela, rubricata “Selbsthilfe” (letteralmente, quindi, “autoaiuto”), ove, proprio in virtù del fine di autodifesa, si fornisce una legittimazione a colui che asporta, distrugge o danneggia cose altrui, o a chi ferma il proprio debitore che si sospetta intenda fuggire, ovvero ancora chi supera l’obiezione opposta dall’obbligato nei confronti di un’attività che quest’ultimo è invece tenuto a tollerare, ove non sia possibile ottenere il tempestivo intervento dell’autorità competente e sussista il concreto pericolo che, senza un’azione immediata, la realizzazione della pretesa dell’agente venga frustrata o diventi sostanzialmente più difficile. Bigliazzi Geri, tuttavia, in Profili sistematici dell’autotela privata, I , Giuffrè, Milano, 1971, p. 47 e ss., considera solo apparente il regime di applicabilità generalizzata dell’autotutela che da un’interpretazione letterale della suddetta norma parrebbe desumersi.

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speciale, invece, sono rinvenibili unicamente norme regolanti singole fattispecie che – più o meno pacificamente – possono farsi rientrare nella categoria concettuale dell’autotutela, senza tuttavia esplicitarlo e senza sancirne espressamente la legittimità.

Anzi, l’orientamento maggioritario, seguito dalla dottrina tradizionale46 sino almeno a un paio di decenni fa, era piuttosto fermo nel dedurre dall’ordinamento giuridico nel suo complesso e, più in particolare, dal combinato disposto di cui agli artt. 2907 c.c. e 101 e 102 Cost., una riaffermazione dell’indiscusso primato riservato alla tutela giurisdizionale dei diritti da parte dello Stato, relegando così l’autotutela a ipotesi del tutto marginali e soprattutto eccezionali (per quanto, poi, nella prassi la situazione fosse diversa).

Più precisamente, l’art. 2907 c.c. (unitamente al proprio contraltare procedurale, vale a dire l’art. 99 c.p.c.) sancisce l’ordinaria assegnazione della funzione di tutela dei diritti soggettivi dei privati agli organi giurisdizionali, specificando altresì a tal proposito il principio della tutela su domanda e quello della terzietà del soggetto adito rispetto alle parti coinvolte47. L’affidamento in via esclusiva allo Stato della tutela giurisdizionale dei diritti viene, inoltre, autorevolmente confermato dagli articoli 101 e 102 Cost., norme volte a rammentare l’indipendenza e l’autonomia che devono caratterizzare i giudici chiamati a risolvere i conflitti sorti tra privati.

46 Si rimanda, a tale proposito, a quanto sostenuto da Bigliazzi Geri, op. cit., p. 46, lavoro che costituisce un indiscutibile punto di riferimento nello studio della materia. Tale linea di pensiero venne, più o meno uniformemente, seguita dagli Autori successivi che si occuparono nello specifico del tema, quali Betti, voce Autotutela (diritto privato), in Enc. Dir., IV, 1959, p. 529 e Mazziotti di Celso, Profili dell’autotutela nei rapporti di lavoro, Morano, Napoli, 1963, p. 15; ma anche dagli Autori della manualistica del settore: cfr., a mero titolo esemplificativo, Torrente - Schlesinger, Manuale di diritto privato, XXI ed., Giuffrè, Milano, 2013, p. 225; Trimarchi, Istituzioni di diritto privato, XVI ed., Giuffrè, Milano, 2005, p. 34 -35; nonché Di Majo, La tutela civile dei diritti, II ed., Giuffrè, Milano, 1993, pp. 3 e 5.

47 Di Majo, op. cit., 1993, p. 2, fonda proprio su tale scelta ordinamentale il divieto di autotutela che considera intrinseco al sistema del diritto civile.

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Tuttavia, una simile lettura restrittiva del campo di operatività dell’autotutela ha mostrato da tempo i propri limiti, impedendo di utilizzare uno strumento assai duttile al fine di apprestare adeguate risposte ai bisogni che la realtà socio-economica va sempre più manifestando. Inoltre, come è stato sensatamente fatto notare48, il combinato disposto delle norme citate non impone, bensì si limita ad offrire, ai privati la tutela giurisdizionale, che costituisce pertanto una (ma non necessariamente l’unica) delle vie a disposizione del soggetto titolare di un interesse meritevole di tutela leso o messo in pericolo49.

Persino nell’ambito del diritto penale, intrinsecamente connotato da principi quali la tipicità e il divieto di applicazione analogica delle proprie disposizioni, l’approccio al tema dell’autotutela è stato di maggiore apertura. Da un lato, quelli che potremmo definire come i «limiti esterni» della facoltà di autotutela sono rinvenibili nel dettato degli articoli 392 e 393 c.p. che vietano l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza, rispettivamente, sulle cose o sulle persone50. Dall’altro lato, sono state introdotte e circoscritte le fattispecie in cui la lesione di un altrui diritto è legittimata o, quantomeno, scriminata: si fa riferimento, ovviamente, agli articoli 52 e 54 c.p. che, unitamente alle corrispondenti norme civilistiche sul tema (articoli 2044 e 2045 c.c.), disciplinano la legittima difesa e lo stato di necessità51.

48 Dagnino, Contributo allo studio dell’autotutela privata, Giuffrè, Milano, 1983, p. 27.

49 Si veda, in tal senso, anche l’ampio sviluppo dei procedimenti di Alternative Dispute Resolutions, che è possibile riscontrare in gran parte degli ordinamenti giuridici.

50 Ciò che si vuole impedire, in altre parole, non è l’esercizio tout court delle proprie ragioni, bensì quello che sia contraddistinto da arbitrarietà e violenza. Vi è stato perciò chi, dalle citate disposizioni, ha desunto – ragionando a contrario e in virtù del principio di libertà immanente al nostro ordinamento, a mente del quale tutto ciò che non è espressamente vietato sarebbe consentito – che viceversa l’autotutela sarebbe riconosciuta come facoltà in via generale, entro i limiti esplicitamente posti da norme quali gli artt. 392 e 393 c.p.: si fa qui riferimento a Dagnino, op. cit., p. 25-26.

51 In merito alla legittima difesa e allo stato di necessità, per tutti, si veda Grosso, Difesa legittima e stato di necessità, Giuffrè, Milano, 1964.