• Non ci sono risultati.

DAL REGIME AUTORITARIO ALLA DEMOCRAZIA

1. Transizione democratica

1.2. Avvio della transizione: Sicilia senza Italia

Nei periodi di transizione, i caratteri fondamentali dei regimi in dissoluzione producono una profonda influenza sul percorso che il nuovo regime dovrà intraprendere per affermarsi [Linz e Stepan 1996, trad. it. 2000, 91; Pridham 2000, 42].

Nel caso italiano, l’iter del processo di transizione, al quale è strettamente connessa l’instaurazione della Repubblica democratica, fu condizionato dalla natura dei regimi precedentemente vigenti, in quanto comportò lo smantellamento non solo dell’organizzazione dello Stato fascista, ma anche di quella liberale, alla quale il fascismo si era sovrapposto.

Per comprendere tale affermazione, occorre richiamare la definizione elaborata da Morlino [2003, 73] circa le alternative non democratiche; difatti, nel sovrainsieme dei regimi di mobilitazione, viene riservato al fascismo un modello ad hoc, come unico esempio di regime non democratico di massa. Gli

elementi principali del modello si configurano in una leadership carismatica ed un partito unico con tendenze totalitarie, differenziato strutturalmente attraverso la ramificazione di organizzazioni collaterali che pervadono il territorio, integrando e politicizzando le masse, al fine di controllarne la mobilitazione/smobilitazione; l’ideologia portante del regime si caratterizza come pan-nazionalista e fortemente contro il parlamentarismo, il liberismo e il comunismo, esplicandosi in misure repressive e nell’uso della violenza; tale modello, pur avvicinandosi al genus dell’idealtipo totalitario descritto da Linz e Stepan [1996, trad. it. 2000, 67], se ne differenzia per l’esistenza di un limitato pluralismo, dato dalla compresenza della grande borghesia industriale e delle organizzazioni padronali, nonché di istituzioni tradizionali quali la Monarchica, l’esercito e la Chiesa cattolica.

Quest’ultimo aspetto assunse un ruolo rilevante nella fase di instaurazione del fascismo, insinuatasi nella crisi della democrazia liberale: il passaggio di regime non fu difatti determinato da una “crisi-crollo”, quanto piuttosto da una “crisi-trasformazione”, che condusse in parte ad una “transizione continua” [Morlino 2003, 90], col mantenimento formale dell‘ordinamento costituzionale albertino, seppur svuotato sia di rilevanza giuridica, che di significato politico. L’instaurazione stessa del fascismo dipese dall’appoggio delle istituzioni tradizionali21, che a loro volta credevano di

poterlo strumentalizzare. Il potenziale trasformativo del nuovo regime si dispiegò nella fase di consolidamento, procedendo alla liquidazione dei vincoli dell’assetto liberale, attraverso la fascistizzazione dello Stato e la statalizzazione del fascismo: il processo di autonomizzazione comportò quindi la presa di potere del partito attraverso l’effettiva autonomia decisionale e l’ottenimento del monopolio delle risorse coercitive; inoltre vennero costruite nuove istituzioni, sostituendo quelle del vecchio regime – ad esempio, le leggi

21 L’atto simbolico e sintomatico di questo atteggiamento, fu decisione del Re di non ricorrere

al decreto di stato d’assedio emanato dal governo nel corso della Marcia su Roma; la successiva nomina di Mussolini a Capo del Governo, permise al fascismo di insediarsi in parlamento nel formale rispetto della prassi statutaria [Barbera 2010, 52].

fascistissime sancirono il predominio del partito sullo Stato –, e procedendo alla creazione correlativa di nuove strutture di legittimazione – il sindacato unico, le corporazioni –. Il regime intervenne inoltre sull’ordinamento locale, abolendo il Consiglio comunale ed il Sindaco, fino ad allora elettivi, e sostituendo il Consiglio provinciale ed il Presidente, con il Rettorato ed il Preside, entrambi di nomina governativa. Tali provvedimenti concretarono la visione unitaria e centralizzatrice dello Stato fascista e furono funzionali al tentativo di integrazione del Sud nella struttura nazionale e nella compagine politica [Allum 1973, 93].

Il processo di transizione che condusse all’instaurazione della Repubblica, fu invece sostanzialmente discontinuo rispetto all’assetto istituzionale del precedente regime, in quanto i principali apparati dello Stato fascista vennero smantellati e sostituiti da quelli della nuova istituzione democratica [Huntington 1991, 12].

La crisi che portò il fascismo al crollo fu determinata sia da conflitti interni, che da fattori internazionali. La lenta erosione del consenso al regime fu palese negli scioperi diffusi al Nord del marzo del ’43, che segnarono il risveglio delle masse operaie, ossia quella classe di cui, nel progetto totalitario di Mussolini, non si prevedeva un consenso fideistico in senso stretto, ma un’irreggimentazione tramite l’istituzione del Dopolavoro, che fungeva da mezzo d’integrazione e socializzazione. Ad essere maggiormente rilevante, seppur tacito, fu il malcontento della classe borghese, generato dalle politiche fallimentari varate dal regime, soprattutto quelle estere dell’intervento in guerra e le manovre economiche. Essendo l’alto livello di sostegno uno dei contenuti principali del regime autoritario di mobilitazione [Morlino 2003, 75], il distacco dei gruppi sociali più attivi nell’appoggio al fascismo – fondamentale per l’instaurazione e per il suo mantenimento – ne innescò la crisi. La variabile interveniente decisiva ad accelerarne il crollo fu il fattore internazionale [Linz e Stepan 1996, trad. it. 2000, 115].

Le fasi finali del secondo conflitto mondiale significarono per le potenze dell’Asse pesanti sconfitte militari; per l’Italia nello specifico, l’invasione da parte delle truppe Alleate condusse alla capitolazione interna del Pnf: nella notte tra il 24 e il 25 luglio 1943, Mussolini venne messo in minoranza dal Gran Consiglio del Fascismo che, con l’approvazione dell’Ordine del giorno Grandi, ne stabilì la destituzione. La natura di “totalitarismo imperfetto” del regime [Sabatucci e Vidotto 2004, 138], fece sì che la rottura interna della coalizione dominante si traducesse nell’immediata riacquisizione del potere da parte della monarchia: Mussolini venne arrestato per ordine di Vittorio Emanuele III e sostituito, per nomina regia, dal maresciallo Badoglio a Capo del Governo.

Il carattere discontinuo del percorso intrapreso fu subito evidente, con lo scioglimento del Pnf e l’immediata abolizione delle principali istituzioni ad esso connesse: il primo atto del Capo del Governo, fu l’incorporazione nell'esercito regolare della milizia fascista, che cessava di essere una forza

militare e politica di partito; col regio decreto legge 2 agosto 1943 n. 705, si

procedette alla soppressione del Gran consiglio del Fascismo e allo scioglimento della Camera dei Fasci e delle Corporazioni; contestualmente venne ripristinata l’istituzione elettiva, stabilendo che, entro quattro mesi dalla conclusione delle operazioni militari, si sarebbero tenute le elezioni per formare una nuova Camera dei Deputati e dare quindi inizio ad una nuova legislatura.

In questa fase, la direzione del processo di transizione non era ancora chiara: dopo la firma dell’armistizio con gli anglo-americani, avvenuta nel settembre del 1943, le forze monarchiche e governative abbandonarono Roma; la capitale fu subito invasa dalle truppe tedesche, che già avevano occupato alcune zone dell’Italia settentrionale; liberato dalla prigionia, Mussolini annunciò la costituzione della Repubblica sociale italiana, rivendicandone il dominio sull’intero territorio del Regno, che nei fatti poté essere esercitato solo nelle province non soggette all’avanzata delle truppe alleate.

L'Italia era quindi divisa tra due governi e sotto la tutela di due eserciti: al Nord quello fascista, che de jure si costituiva come una repubblica presidenziale, pur essendo in realtà uno stato satellite, voluto da Hitler per governare i territori sotto l’occupazione dell’esercito tedesco; nel Meridione quello del cosiddetto “Regno del Sud”, in cui si manteneva la struttura costituzionale monarchica, protetta militarmente dall’esercito regio e dalle truppe alleate.

Dato il contesto, si intuisce come le fasi conclusive del conflitto mondiale e il periodo dell’immediato dopoguerra, furono anni vissuti in Sicilia in maniera peculiare, tanto da permettere di tracciare “un’ipotetica storia separata”, in quanto le tempistiche e le modalità con cui la transizione venne avviata determinarono una distanza tra l’esperienza politica siciliana e quella nazionale [Cimino 1977, 11].

La Sicilia fu la prima base d’insediamento per gli alleati anglo-americani e, di conseguenza, fu il primo territorio italiano essere liberato, attraverso un’operazione militare durata meno di un mese. L’arco temporale occupato dal processo di transizione italiano, per giungere a conclusione, fu abbastanza breve [Morlino 1998, 19], ma dall’effettivo avvio nell’estate del 1943, trascorsero tre anni prima che si svolgessero le prime elezioni libere e democratiche ed altri due furono necessari per la promulgazione della Costituzione, che fissò i caratteri fondamentali del nuovo regime; quindi, si comprende come la sfasatura dei tempi, intercorsa nell’azione di liberazione, prolungò lo stallo nell’incertezza istituzionale di alcuni territori italiani, tra cui la Sicilia, rispetto ad altri, determinando delle ripercussioni consistenti sulla ripresa della politica.

Durante l’insediamento nel territorio siciliano, le truppe alleate riscontrarono una presenza del fascismo solo formale. Tale circostanza è associabile sia alla mancata integrazione politica della Sicilia nello Stato fascista – estendibile al Mezzogiorno [Allum 1973, 95] – sia ad un abbandono progressivo dell’Isola da parte del regime, avviatosi con lo scoppio della

guerra22. L’opera di defascistizzazione fu quindi limitata all’abolizione delle

istituzioni più caratterizzanti dell’apparato fascista, come le corporazioni, e l’arresto dei Prefetti e dei Podestà delle grandi città che risultavano compromessi col regime [Mangiameli 1987, 493].

Le forze militari alleate assunsero quindi il ruolo di attore principale nell’avvio della transizione [Linz e Stepan 1996, trad. it. 2000, 113] e il regime occupante divenne una realtà istituzionale tangibile: i legami col potere centrale non furono immediatamente riallacciati, mentre il comando fu assunto da un governo anglo-americano, istituito sulla base del diritto di guerra23, con

lo scopo di esercitare un controllo amministrativo e militare sul territorio, al fine di ristabilire l’ordine e mantenere la tranquillità tra la popolazione civile. Una “Sicilia senza Italia”, ereditava dal ventennio una situazione socio- economica devastante e nel passaggio al nuovo regime si trovava in assenza di autorità politiche ed amministrative legittimate [Attanasio 1976, 260; Spingola 1985, 341-350].