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DAL REGIME AUTORITARIO ALLA DEMOCRAZIA

1. Transizione democratica

1.3. Modalità ed attori della transizione

Fermo restando che la fluidità istituzionale sia caratteristica della fase transitoria [Morlino 2003, 122; O’Donnel, Schmitter e Whitehead 1986], occorre sottolineare come in Italia fu soprattutto l’innesto con i fattori endogeni delle specifiche realtà territoriali ad impedire al mutamento politico di seguire un percorso unidirezionale; ed essendo le modalità di transizione

22 Nell’agosto del ’41, ad aggravare il drammatico quadro economico, intervennero alcuni

“provvedimenti antisiciliani” da parte del governo, tra i quali il trasferimento nel continente di tutti i funzionari siciliani sospettati di infedeltà al regime [Marino 1976, 261 e ss.; Finley, Smith e Duggan 1987, 312-321]

23 Per governare i territori occupati, l’esercito anglo-americano aveva costituito uno specifico

organismo militare: l’Allied Military Government of Occupied Territory [Attanasio 1976, 245 e ss.; Mangiameli 1987, 486 e ss.].

alla democrazia sensibilmente influenti sul successivo consolidamento, si comprende come tale distanza ponga delle implicazioni rilevanti.

Come analizzato empiricamente da Dahl [1971, trad. it. 1980], la dinamica sulla quale, da un regime non democratico, si determina il passaggio alla democrazia, dipende da due fattori fondamentali: la possibilità di contestazione nei confronti dell’autorità – liberalizzazione – e l’allargamento delle attività di partecipazione – inclusività – [v. infra cap. I § 1.].

Per quanto riguarda il primo aspetto, l’assenza di pluralismo politico realizzatasi nel ventennio, s’interruppe col crollo del regime autoritario. Le formazioni antifasciste, fino ad allora rimaste clandestine, divennero capaci di maggiore attività ed in breve tempo i partiti furono in grado di ricostituirsi, facendosi forti delle tradizioni organizzative maturate prima della formazione del sistema a partito unico.

La ripresa della vita politica italiana si concretizzò nell’assunzione dei poteri costituzionali da parte del Comitato di Liberazione nazionale, sorto da un compromesso interpartitico, col fine di condurre la guerra contro l’occupazione nemica e procedere alla ricostruzione dello Stato [Ignazi 1997, 7- 14]. Il ruolo politico del Cln fu fondamentale, in quanto colmò quel vuoto di potere determinatosi dalla dissoluzione del vecchio regime e dalla débacle della monarchia, rendendo i partiti i principali attori del processo di transizione italiano [Chiarini e Germano 2011, 41].

Il sistema politico in fieri, si aprì alle masse con il ripristino dei diritti di partecipazione piegati dalle riforme elettorali fasciste: quella che venne definita la prima “costituzione provvisoria” (D.lg.lgt. 151/1944), prevedeva l’elezione dei un’Assemblea costituente, che si sarebbe svolta a suffragio universale diretto, concedendo quindi il diritto di voto anche alle donne e raggiungendo il più alto grado di inclusività mai avuto in Italia. Il governo ad

interim ristabilì quindi rapidamente il meccanismo elettivo, su basi

competitive, che avrebbe legittimato le istituzioni nascenti fondandole sul principio di legalità e autonomia, stabilendo definitivamente la natura

democratica del processo di transizione [Linz e Stepan 1996, trad. it. 2000, 113].

La rottura delle limitazioni al pluralismo politico, non determinò nella realtà siciliana altrettanto dinamismo: dopo un primo momento in cui venne proibita, seppur non rigidamente, ogni attività politica24, il regime anglo-

americano cominciò un processo di selezione per costituire una classe dirigente locale, alla quale affidare l’amministrazione ed il governo dell’Isola, mantenendo in via indiretta il potere di controllo effettivo, in attesa di poterlo riconsegnare ad una legittima autorità centrale [Anastasi 1995, 9]. Inoltre, la ricostituzione dei partiti pre-fascisti necessitò di tempi più lunghi, dovuti alla scarsa tradizione organizzativa di tali formazioni sul territorio siciliano, causata principalmente dalla minore rilevanza politica che gli stessi assunsero nel periodo liberale, rispetto ad altre zone del paese.

Nel passaggio alla democrazia sostanziale, l’organizzazione dei movimenti politici collettivi ed il loro insediamento nelle istituzioni pubbliche, non avvenne quindi attraverso strutture di legittimazione imperniate sul territorio, ma per designazione o imposizione del governo occupante, in quanto l’ipotesi di ricorrere ad una consultazione elettorale venne giudicata prematura e rischiosa [Marino 1979, 28].

Quando nel febbraio del 1944 l’amministrazione dell’Isola fu riconsegnata al governo italiano, la politica siciliana si concentrò artificiosamente intorno al cartello dei partiti aderenti al Cln, continuando ad essere condotta sul riflesso di quella nazionale.

Nelle regioni centro-settentrionali si concentrarono forze politiche eterogenee, che predisposero la formazione di una nuova classe dirigente nazionale in rottura con i quadri del precedente regime. Inoltre, i partiti svolsero un’importante funzione d’integrazione nei territori ancora occupati dalle truppe nazi-fasciste, coordinando il processo di liberazione attraverso

24 Ciò nonostante, gli anglo-americani tollereranno la presenza delle forze separatiste,

principalmente per motivi strumentali connessi alla penetrazione nel territorio del regime occupazionale [v. infra cap. II § 1.4.].

formazioni militari partigiane, di diversa matrice politica, che rispondevano direttamente al proprio partito di riferimento. L’insurrezione popolare che ne conseguì, stimolò la partecipazione delle masse, facendogli riassumere quel ruolo politico attivo e determinante, sopito da vent’anni di regime di mobilitazione fascista, in cui le masse dovevano essere indottrinate e guidate dall’alto.

In Sicilia, il percorso di transizione si concluse con gli stessi esiti del panorama nazionale, ma l’iter differente intrapreso e la conduzione da parte di attori diversi, influenzarono sensibilmente la formazione del sistema politico- rappresentativo e la ricezione del mutamento da parte della società civile.

Essendo la liberazione ultimata già nell’estate del 1943, vennero meno le condizioni di urgenza che condussero alla formazione del movimento partigiano. Al contempo, i partiti s’inserivano al livello locale sul riflesso delle direzioni centrali, senza svilupparsi dal punto di vista programmatico sulle esigenze del territorio.

Le principali “novità” nella ripresa politica siciliana furono altre: la fine della guerra e la liberazione dal regime vennero salutate con entusiasmo all’interno dei confini siciliani, ma non furono accompagnate da enfasi nazionalistica [Cimino 1977, 12; Marino 1979, 18]; al contrario, era largamente diffusa l’ostilità verso il potere centrale − dovuta ad un distacco sia morale che politico nei confronti dell’Italia unitaria − e si alimentarono speranze di autodeterminazione, che dominarono la scena politica siciliana per tre anni, fino alla definizione effettiva del sistema partitico, sancita dalle elezioni del 1946. Tali spinte costituirono il filo conduttore tra le principali realtà politiche emergenti, da quelle che si mobilitarono per l’autonomia, a quelle, più esasperate, che portarono avanti progetti separatisti [v. infra cap. II § 1.4.].

In questo senso, l’attività politica dell’Italia-centro e della Sicilia-periferia venne condotta su posizioni diametrali: lo Stato avviò un processo di “riconquista” dell’Isola, ricostituendo l’apparato burocratico e militare, mentre i partiti di massa – concordi sulla scelta unitaria – procedevano nella

ramificazione territoriale, concentrandosi maggiormente sugli aspetti gestionali ed organizzativi, ma senza essere in grado di integrare e canalizzare le masse come accadeva nel Centro-Nord; il clima politico siciliano era surriscaldato dall’impulso di liberarsi dalla posizione subordinata – imposta sia dalla crisi post-bellica, imputata al potere centrale, che dalle misure restrittive del governo dell’AMGOT – portando a termine quel processo verso l’indipendenza che la congiuntura storica sembrava rendere possibile [Anastasi 1995, 11; Cimino 1977, 19].

Per quanto riguarda il sistema partitico, la molteplicità dei gruppi e delle fazioni – generata dall’incapacità dei partiti di massa nell’aggregare la domanda sociale durante la fase post-bellica – si cristallizzò, traducendosi nel periodo successivo in un’offerta elettorale tendenzialmente frammentata [Anastasi 1993, 153-154].

Oltretutto, vi furono conseguenze trasversali anche nella società civile: in un periodo decisivo per la formazione della cultura politica siciliana, si realizzò una divisione netta tra governanti e governati, data l’assenza di strutture effettivamente capaci di filtrare la domanda sociale per trasmetterla al sistema. Quindi, l’attività politica del popolo non si sviluppò intorno alla riformazione dei partiti nazionali, rimanendo in parte inerte e in parte veicolata dalle istanze e dalle iniziative portate avanti dai movimenti indipendentisti, anche di carattere eversivo. In merito, gli sviluppi più allarmanti furono le molteplici dimostrazioni di piazza, talvolta sull’orlo della rivolta25, culminate nel

movimento del “Non si parte!”, generatosi dal rifiuto di aderire al richiamo alle armi dei contingenti mobilitati per la guerra contro l’occupazione tedesca. Il fenomeno attraversò tutta l’Isola, connotandosi per un carattere protestatario,

25 L’evento di cronaca più risonante furono i fatti di Palermo dell’ottobre 1944: nella capitale

la crisi alimentare era stata all’origine di una protesta popolare sfociata in un eccidio da parte dell’esercito che, secondo un’inchiesta condotta dal Cln, si concluse col bilancio di 30 morti e 150 feriti. L’avvenimento aumentò la frustrazione delle masse, generando al contempo accuse reciproche nella classe politica, soprattutto da parte del Cln, che incolpò i separatisti ed i fascisti, chiedendo un’accelerazione dell’epurazione all’Alto commissario per la Sicilia [Cimino 1977, 28-29].

intrinsecamente suscettibile ad una duplice interpretazione: da un lato si connotò come una manifestazione di stanchezza nei confronti di una guerra percepita come conclusa; dall’altro, aveva un carattere più specificatamente politico, di sfiducia nei confronti dell’esercito – come istituzione che incarnava la continuità col vecchio regime – e di scarso apprezzamento della strategia nazional-popolare del compromesso ciellenista [Marino 1979, 128].

La diffidenza che maturò nei confronti delle le istituzioni politiche e degli organi partitici condusse i cittadini siciliani a recepire passivamente il proprio ruolo elettorale; e la proiezione di tale sentimento al periodo repubblicano si tradusse in maniera evidente in alcuni atteggiamenti di voto: da un lato, nella tendenza degli elettori all’immobilità, riscontrabile nel basso grado di partecipazione politica; dall’altro, nella disposizione a lasciar veicolare l’esercizio del voto, rendendolo di conseguenza altamente permeabile ai sistemi locali di gestione del potere in funzione politica [Morisi e Feltrin 1993, 24; Anastasi 1995, 12].

In merito a quest’ultimo aspetto, occorre osservare come il tessuto politico siciliano non fu rinnovato nel passaggio di regime, che al contrario costituì un’occasione per restaurare le vecchie posizioni di potere, adombrate dall’apparato fascista.

In certa misura, l’insediamento dei notabili prefascisti, delle antiche élites locali e degli interessi che ad esse si accompagnavano, fu favorita nell’intera macroarea del Sud. Nel caso specifico dell’Isola, molteplici studi storici hanno rilevato come un risvolto della gestione anglo-americana del territorio siciliano fu costituito dalla “restaurazione” della mafia: la mancanza di interlocutori istituzionali e la lentezza con cui i partiti si stavano ricostituendo, avrebbe posto agli alleati il problema della gestione del controllo sulle masse popolari e l’assorbimento delle contraddizioni sociali, portandoli quindi ad utilizzare come referenti quei soggetti che almeno godevano di una familiarità maturata nelle comunità locali e che si sarebbero potuti porre come mediatori tra la società civile e le nascenti istituzioni [Mangiameli 1987, 489; Marino 1979, 28].

Questo dimostra come le radici clientelari del sistema politico siciliano non furono sradicate dal regime fascista, entrando in un periodo di congelamento e rianimandosi al crollo dello stesso. Nei fatti, la copertura di migliaia di posizioni nella pubblica amministrazione si svolse attraverso processi non sempre limpidi, che in ultima analisi permisero l’insediamento in importanti enti del governo locale, di esponenti delle famiglie mafiose più influenti, alle quali venne quindi garantita una sorta di rispettabilità istituzionalizzata [Finley, Smith e Duggan 1987, 323; Cimino 1977, 63-66].

La presenza di una società civile non organizzata e non protetta dalle autorità pubbliche e partitiche, determinò quindi una stringente dipendenza tra genesi del sistema politico e struttura clientelare che, come vedremo in seguito, rappresenterà nel processo di consolidamento democratico uno strumento di ancoraggio, secondario in Italia, ma determinante in Sicilia [v.

infra cap. III § 2.3.].